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La lettura quotidiana di un fatto della sua vita ci metta a contatto con lui, con la sua intercessione potentissima e con la sua protezione!
(Quanto riferiamo di san Martin de Porres è desunto da un ciclostilato curato da un salesiano a Lima)
Ogni giorno pubblichiamo un capitolo che viene letto anche sulla nostra pagina YouTube in un apposita playlist
PREMESSA
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Caro lettore,
I dati biografici che leggerete su San Martin de Porres non sono ben altro che una ricapitolazione studiata e meditata dei fatti più importanti scritti su di lui dai suoi fedeli.
Non vi è dubbio che molti stenteranno a credere ai fatti straordinari che sono stati abbozzati in queste pagine, però potrete esser certi che non si tratta di leggende. Sono fatti confermati da giuramenti, da numerosi testimoni che hanno fatto queste dichiarazioni nel processo di beatificazione dei Santo.
Il fatto è che i Santi, come diceva un bambino che ricordava le vetrate della sua chiesa, sono “uomini attraverso i quali passa la luce”.
Non vi è nulla di più esatto di questa definizione; infatti coloro che hanno ottenuto l’onore degli altari, sono sempre stati fari luminosi e pongono Dio sulla strada della nostra vita.
Che il nostro Santo con la sua Croce e con la sua Scopa possa continuare a meravigliare il mondo con i suoi miracoli e attragga sui suoi devoti e su tutto il Perù le benedizioni del Cielo.
Chaclacayo, 19 Ottobre 1972
HARRY MC BRIDE
Come è bella l’esistenza dedicata a servire Dio e a fare del bene al nostro prossimo!
Capitolo 1 – INFANZIA DI FRATE MARTINO
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Alla metà del secolo XVI viveva nella città di Lima una famiglia, quella del Cavaliere Juan de Porres e di una graziosa giovane negra chiamata Ana Velasquez, oriunda del Panama che viveva onoratamente del suo lavoro in uno dei quartieri che oggi si chiamerebbe periferia della città.
Martino nacque il 9 dicembre 1569 nella città di Lima.
Era un mulatto simpatico e vivace la cui pelle, con il passare degli anni, divenne sempre più scura, fino ad acquistare il colore inconfondibile dell’origine africana che gli derivava dalla madre. D’altra parte, nei suoi lineamenti si andavano delineando i tratti dell’origine spagnola del padre, una fronte spaziosa, occhi scuri, narici piccole e labbra ben marcate.
Pieno di bontà fino dalla nascita non poteva veder soffrire nessuno e cercava subito di rimediare al male. Sua madre lo riprendeva spesso perché ritornava dagli acquisti con il cestino vuoto, per aver dato una cosa o un’altra, appena comprata, a quanti incontrava sul suo cammino.
La sorella di Martino, Juana era bianca come il padre, Juan de Porres, per cui questi qualche volta doveva rammaricarsi della pelle scura della moglie e del figlio Martino che l’aveva ereditata con il latte materno.
Infatti la società alla quale apparteneva non comprendeva che l’amore è al di sopra del colore e che dinnanzi all’onnipotente siamo tutti uguali, per cui Juan de Porres e Ana Velasquez non erano felici come avrebbero potuto essere. Vediamo dunque che l’argilla umana che Dio inventò per modellare questo gigante di virtù, non poteva essere più umile a giudicare dalle apparenze.
Martino fu battezzato nella Chiesa di San Sebastian de Lima, in quella stessa Chiesa dove venne battezzato qualche anno più tardi il fiore più bello della santità americana, Rosa de Santa Maria.
Alcuni anni più tardi, il padre rinunciando ai teneri affetti della famiglia, abbandonò per molto tempo i figli al triste destino dell’abbandono. Per questa ragione vennero a mancare alla madre gli aiuti necessari ed essa soffrì moltissimo per mantenere i suoi due figlioli.
A seguito delle osservazioni che vennero mosse al padre di Martino, allora governatore di Panama, questi provvide a mandarli a studiare a Guayaquil ove, per le doti naturali che avevano, fecero ben presto grandi progressi.
Purtroppo durò ben poco la sollecitudine paterna, perchè nominato dal Re di Spagna, governatore di Panama, Porres si vide obbligato ad affidare i figli alla cura materna in considerazione della sua situazione e per i suoi numerosi impegni.
La madre fu felice di vedersi restituire i due figli. Martino con la sua pelle nera in verità era diventato un ometto e Juana, dalla pelle bianca, si era trasformata in una graziosa damina.
Quando Martino seppe che la madre lo aveva designato a diventare aiutante ed apprendista dal Dott. Marcelo de Rivero, si spogliò dell’abito di gala che indossava e con tutta naturalezza lo diede a sua madre: “Non sono nato per coltivare del lusso, soprattutto sapendo a quale compito mi avete designato”.
Dopo pochi giorni si recò alla casa del Dott. de Rivero dove fu accolto come apprendista.
Sarà bene ricordare quale impegno egli mise nell’imparare il mestiere di infermiere, dentista e anche di barbiere.
Il medico era sempre più soddisfatto del suo dipendente. Lo difendeva a spada tratta contro quei clienti che dimostravano avversione verso i negri. Martino, da parte sua, dimostrò ben presto quanto aveva appreso dal suo dotto maestro.
Un giorno in cui il Dottore era assente si presentò un uomo, con il viso gonfio e l’aspetto di colui che non ha dormito per molte notti:
– Dov’è il Dottore?
– In che cosa posso servirla? – rispose Martino inchinandosi al cliente.
– Che cosa? Un negro servire me? – rispose il signore adombrato.
– Sono ai vostri servizi.
– Potreste per caso togliermi un dente del giudizio?
– Sarà un onore per me – e senza cessare di sorridere cominciò ad esaminare il cliente sofferente. Poi, dopo alcuni tocchi, gli porse un vaso di acqua e gli disse:
– Preso! si deve sciacquare la bocca.
– Stai scherzando?
– Non scherzo, Signore. Il fatto è che il dente è già estratto – e gli mostrò le pinze con il dente che aveva appena tolto.
– Sei certo che il dente è il mio?
– Certo che sì – disse Martino, sorridente.
– Che hai, buon negro, in mano perché io non abbia sentito alcun dolore? E spinto da una forza strana gli prese la mano e la baciò con effetto. Qualche minuto dopo, appena il cliente fu uscito, Martino si recò alla cappella dove vi era un Cristo che Martino chiamava essere il suo migliore amico e Gli disse:
– Perché hai permesso che quell’uomo non sentisse alcun dolore? Questa gente non comprende la Tua bontà e crede che io sia un ciarlatano
Capitolo 2 – LA SUA VOCAZIONE
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Pochi giorni dopo questo episodio, arrivò una lettera del Padre di Martino, nella quale egli comunicava di esser stato premiato dal Re e che quindi nulla sarebbe più mancato alla famiglia.
– Per cui non occorra che Voi lavoriate?
– Certo che no – rispose Juana – E non sarà nemmeno più necessario che tu vada ad aiutare il Dottor de Rivero.
– Allora andrò a servire il mio migliore Amico.
A partire da questo momento pensò di servire il Signore in un convento.
La decisione di Martino di entrare in convento fu una sorpresa per tutti, in special modo per il suo maestro che ne fu estremamente contrariato.
– Come è possibile, Martino, che dopo 3 anni che sei con me tu pensi di abbandonarmi? Che farò ora da solo?
– Sono certo, Dottore, che incontrerà altre persone che l’aiuteranno molto meglio di me e, oltretutto, non vi sarà più motivo di rimproverarla perché tiene un aiutante negro. Da parte mia la ringrazio per tutto quello che ha fatto per me.
Si diresse rapidamente al convento di San Domenico, non lontano dalla sua casa.
Suonò il campanello e incontrò il Padre Barragan che era il portinaio del convento.
– Che desidera?
– Mi dica, che c’è qui dentro?
– La pace per chi la desidera, replicò il portinaio.
– E’ meraviglioso – rispose il mulatto
– Bene! Perché sei venuto?
– Perché desidero restare nel convento.
A tale risposta il Padre Barragan non seppe rispondere.
Martino ruppe il silenzio:
– Non potreste fare qualcosa affinché in possa restare qui?
– Il portiere lo scrutò un poco e gli disse: Bene, ragazzo, andiamo a vedere: seguimi!
Lo portò dove si trovava il Padre Priore, al quale spiegò brevemente i desideri del giovane mulatto.
– E’ tanto grande il tuo desiderio di entrare in convento? – gli chiese il Superiore. Martino abbassò la testa e rispose con una voce appena percettibile.
– Si, questo è il mio desiderio.
– Accetterai di essere un semplice converso?
– Converso è ultimo nella gerarchia?
– Sì. E’ l’ultimo della Comunità.
– Allora, grazie, Signore: entro in convento.
Da quel momento la sua vita fu una donazione totale, un’offerta perfetta al servizio di Dio.
Capitolo 3 – LA SUA UMILTA’
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Fin dal principio l’ex aiutante del Dott. de Rivero maneggiò subito stracci e scopa per pulire e riordinare tutti i locali del convento, dalla clausura fino alla cucina.
Quando il medico parlò con il Padre Priore, si prese cura dell’infermeria, alternando alla scopa gli strumenti medici e lo straccio della polvere con il bisturi, pulendo e riordinando al contempo tutti i locali dell’enorme convento.
Il lavoro del giovane mulatto, la sua entrata al convento, la carità che faceva erano già diventate oggetto di molti commenti in tutta Lima, arrivando fino alla città di Panama.
Capitolo 4 – IL PADRE DI FRATE MARTINO
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Don Juan de Porres era un cavaliere orgoglioso, allora governatore di Panama e ascoltava con grande fastidio le informazioni che gli giungevano del figlio. Per questo un certo giorno decise di partire subito alla volta della capitale del Perù.
– Voglio far vedere a questi frati chi è Don Juan de Porres disse – Hanno forse creduto di convertire mio figlio in uno schiavo del convento?
Poche settimane dopo la carrozza del governatore di Panama si fermò rumorosamente dinnanzi al portale del convento più popoloso tra tutti quelli che i domenicani hanno in America. Si diresse immediatamente alla portineria.
– Dove si trova?
– Chi? – domandò Frate Barragan
– Mio figlio.
– Scusi, chi è vostro figlio?
– Don Martino de Porres.
– Vado a informare il Superiore.
Lasciò don Juan de Porres con il viso accigliato che stava studiando il modo per portar via il figlio. Pochi minuti dopo, si trovò di fronte al Padre Provinciale.
– Sono il padre di Don Martino de Porres.
– Benvenuto in questa casa, Eccellenza.
Considerando il tono impiegato del Superiore, Don Juan si mise a sbraitare:
– Perché tenete qui mio figlio come se fosse uno schiavo? Ho nobiltà a sufficienza per non mendicare e mio figlio ne tiene abbastanza perché nessuna gli tolga il sangue dalle vene. Vengo a prenderlo.
– Non voglio trattenerlo, Eccellenza e se egli si dedica a umili lavori è perchè lo vuole e lo ha richiesto ripetute volte.
– E perché non studia come gli altri?
– Perché abbiamo, Eccellenza, dalle nostre leggi che dobbiamo rispettare. Queste leggi dicono che gli indios, i negri e i loro discendenti, non possono professare in alcun ordine religioso, per il motivo che si ritiene che queste razze siano poco preparate per la vita religiosa.
– Egli lo sa veramente?
– Sì, Eccellenza, lo sa, glielo abbiamo detto chiaramente al suo ingresso.
– Quindi chiedo di vederlo subito.
– Non vi è alcun problema.
Il padre stentò fatica a riconoscerlo. Quando era partito per il suo incarico, alcuni anni prima, Martino era un bambino. Ora era un uomo ben piantato, forte e nel pieno della sua giovinezza. Superata la prima impressione si lasciò vincere dall’affetto di padre e se lo strinse al petto.
Il Priore, che assisteva alla scena, disse a Martino:
Figlio mio, tuo padre mi ha chiesto se tu ti trovi bene nel convento.
– Sì, padre. Qui sono molto felice.
– Ma dimmi, Martino, ti basta essere un umile converso e restare così per tutta la vita?
– Sì, padre. La mia unica preoccupazione è di servire Dio in convento.
– La verità è che non riesco a capirti – esclamò il padre.
– Avrei ottenuto dal Re di farti nominare Gentiluomo, invece tu mi parli di cose che stento fatica a capire.
– Padre mio, ti supplico di non portarmi via, è l’ora di assistere i malati. Mi vuoi accompagnare?
Don Juan constatò la simpatia che il giovane mulatto aveva conquistato in ospedale. Appena lo vedevano, gli infermi non cessavano di chiamarlo, chiedendogli mille cose. Frate Martino aveva sempre una parola di consolazione per tutti. Andava e veniva felice di poter aiutare quei derelitti.
Suo padre restò attonito e in quel momento imparò moltissime cose.
– Figlio mio – esclamò – sono orgoglioso di te e non sarò io che renderò vana la tua vocazione all’umiltà. Lo strinse fra le braccia e gli disse: Addio, che il Signore ti illumini e guidi i tuoi passi. Quando Juan de Porres salì in carrozza, gli rimase impresso nella mente il sorriso luminoso di suo figlio, che si diresse alla cappella e, prostratosi dinnanzi all’immagine del crocifisso disse al Signore:
– Grazie per aver permesso che mio padre si senta orgoglioso di me.
Frate Martino sapeva quanto è difficile il cammino per il cielo, per questo si era imposto il proposito di fare tutto il possibile per arrivare il più possibile vicino al cielo.
Capitolo 5 – IL LAVORO QUOTIDIANO
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Martino de Porres è già Frate Martino.
Vestito con lo scapolare nero, che risalta sulla tunica bianca, i religiosi lo vedano tutto il giorno in movimento.
Al mattino di buon’ora saliva alla torre campanaria per suonare l’ora della Messa.
Poi scivolava lungo il corrimano delle scale per aprire le porte dalla Chiesa.
Recita le sue orazioni durante le varie Messe e nei giorni in cui gli era permesso si comunicava con estremo fervore.
Dopo la colazione, che gli portava via ben poco tempo, si dedicava a far la barba ai confratelli, poi agli infermi, ai quali dedicava moltissime ore.
A metà giornata andava a pranzo e subito dopo passava alla portineria, dove si curava di infinite incombenze per soddisfare tutti coloro che accorrevano al convento.
A tutti dava una parola di consolazione, medicine, abiti, cibo, preghiere e denaro e nessuno poteva sapere come poteva arrivare a capo di tutto, perché la cosa era semplicemente miracolosa.
Però restava ancora molto da fare alla sera. Spesso andava ancora al suo lavoro comune, e scopare, a tagliare capelli, a seguire malati, ad esercitare l’apostolato che teneva nelle strade. Qui vi sono poveri, sperduti nelle case, che si vergognano di chiedere l’elemosina e che è urgente aiutare, ragazzini che bisogna preparare per la prima Comunione.
Alla notte ritorna al convento e va in Sacrestia, all’infermeria, alle cucine a vedere se vi è ancora qualcosa da fare. Dopo la cena tutti si ritirano nelle celle per riposare. Lo stesso non è per Martino che si impegna ancora nelle attività spirituali, che non aveva potuto svolgere prima per non attirare l’attenzione dei suoi confratelli.
Ecco la sintesi della vita di Frate Martino: lavoro e umiltà, giustizia e carità, completo impegno in una sincera pietà cristiana.
La Provvidenza gli fu prodiga, perchè gli diede la compagnia di molte anime della stessa tempra, così vediamo come le ore libere di certi giorni della settimana erano dedicate alla piacevole compagnia di Juan Macias che si santificò e che anch’egli salì agli onori degli altari.
L’arcivescovo Toribio Mogrovejo mori quando egli aveva circa 30 anni, già inserito nella lista dei Santi. Stava per compire i 40 anni quando un altro Santo, Francisco Solano, chiudeva gli occhi a lima, il prodigioso apostolo del nuovo mondo. La piccola Rosa chiudeva la sua breve esistenza nell’anno 1617.
Come si vede, la Provvidenza non poteva essere più prodiga nel dare esempi di santità, per questo si può affermare che ogni anima può salire dal grado più basso fino al gradino più elevato della gloria e che può redimere il mondo con gli strumenti più umili del lavoro, quelli del falegname, quelli dei lavori domestici, come avvenne un giorno nella Sacra Famiglia della casa di Nazareth.
Capitolo 6 – LA SUA CARITA’
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Nel suo cuore dominavano tre passioni: la carità, particolarmente con i poveri e gli infermi; la penitenza, la più rigorosa e l’umiltà che alimentava tutte le sue altre virtù.
Quando una malattia stava per terminare, indipendentemente da quanto facesse prevedere il suo decorso, Martino distribuiva la sua attenzione a seconda delle necessità.
“State tranquillo” diceva agli infermi che si sentivano trascurati, “Quando non mi vedete venire è perché la malattia non è pericolosa”. Cominciò a circolare la frase tra i fratelli del convento: “Fratello tal dei tali morirà presto, perchè Martino va a vederlo molto spesso”.
Una volta si ammalò il Padre Cipriano de Medina e la sua malattia era tanto grave per cui era stato visitato già da 5 medici i quali avevano dichiarato che l’unica cosa da fare era di somministrargli i Sacramenti. L’infermo si rendeva conto della sua gravità però non si poteva dar pace di una cosa: che Martino lo avesse abbandonato e che non andasse a vederlo ormai da tanti giorni.
La notte era già iniziata quando l’infermo sentì un desiderio incontenibile di vedere Martino. Quando ormai aveva perso la speranza di incontrarlo, Martino entrò nella camera e l’infermo lo accolse con una serie di rimproveri. “Padre avreste dovuto comprendere di non essere in pericolo. Sapete già che quando vado spesso a visitare un malato è perché è molto grave. Non vi preoccupate se siete peggiorato. Per ora non morirete. Dio chiede che viviate e continuiate a darGli gloria nella religione”.
I fatti confermarono le parole di Martino, in quanto il Padre Cipriano migliorò e ben presto fu in grado di svolgere la sua attività di insegnante.
Un giorno, mentre si dirigeva alla periferia di Lima, vide diverse persone che lottavano con dei soldati per avvicinarsi ad una capanna sulla quale era dipinta una croce bianca, il segno della peste: Vada via di qui – sentì dire da un soldato – perchè questa gente ha la peste.
“Però questa gente ha bisogno di aiuto” – protestò Martino.
Robusto com’era gli fu facile dare una spinta ed entrare nella capanna. Il quadro che gli si presentò non poteva essere più sconvolgente.
Sopra un povero giaciglio stava il corpo di una donna, immobile, gli occhi chiusi, mentre due bambini intorno a lei la scrutavano impauriti.
“La mamma non parla” disse uno di loro mentre si avvicinava al mulatto. “Si è addormentata, perchè è molto malata”.
Martino strinse contro di sé le due creature e disse: “Andiamo via di qui. Nulla ora risveglierà la vostra mamma, perchè la sua anima è salita al Cielo”. Senza comprendere quanto stava succedendo i bambini seguirono Martino e non gli fu difficile trovare un ricovero per i due orfanelli.
Un altro giorno, al mercato, comprò una quantità di cose che occorrevano alla dispensa.
In un momento di distrazione di Martino un povero ragazzo allungò la mano e tolse delle banane dal cesto che il mulatto portava.
Tuttavia un poliziotto aveva visto tutto e, preso il ragazzo per un braccio voleva arrestarlo e punirlo severamente.
Quando Martino vide il ragazzo preso dalla polizia provò compassione per lui e, sorridendo come sua consuetudine, disse all’incaricato della legge: “Non ha rubato nulla, perché tutto quello che ha preso è da regalare ai poveri” e, detto questo, distribuì le cose che erano nel cesto tra le persone intorno a lui.
“Prendi, ragazzo, a te buona donna, per i tuoi figli, e questo è per te…” e, tutto preso dalla sua opera di carità, senza rendersi conto di nulla, diede fondo a tutto quello che aveva e che gli chiedevano: scarpe, medicinali, frutta e generi alimentari. La gente lo guardava quasi con timore, senza comprendere quello che stava succedendo. Martino preso dalla carità e nell’intento di aiutare il ladruncolo stava realizzando un miracolo, senza nemmeno rendersi conto di quanto stava facendo
Entrò nel convento affaticato e terribilmente preoccupato. A vederlo così il portinaio gli chiese:
– Che ti è successo Frate Martino?
– Una cosa molto strana. Per salvare un ragazzo …. e così raccontò tutto quello che era successo al mercato.
– E il cestino? chiese il portinaio.
– Eccolo. Lo mostrò, posandolo sulla tavola.
– Però non capisco, Frate Martino: come dite che avete dato via tutto se la cesta è ancora piena?
– Cominciò a mostrargli la verdura, la frutta, le uova e persino la carne.
– Che cosa? disse Martino con il viso turbato constatando che quanto il portinaio aveva detto era vero. Infatti il cestino era completamente pieno.
– Signore, non raccontare a nessuno quello che hai visto. Io ho dato via tutto. Perché mi hanno dato queste cose?
Con la testa bassa e meditabondo, il povero mulatto con il suo cestino salì fino alla sala capitolare dove, prostratosi davanti al Cristo che dominava la grande sala, Gli disse tutto contento:
– Sei tu che mi hai riempito il cestino, vero? Perchè lo hai fatto? Adesso crederanno che faccio i miracoli. E scrollando la testa se ne ritornò in cucina.
Solitamente al convento si recava un ragazzino sui 9 anni che aveva diversi parenti tra i religiosi.
Un giorno, dopo una delle tante birichinate comuni ai ragazzi della sua età, andò a rifugiarsi dove era certo che nessuno lo avrebbe trovato, cioè dietro il catafalco usato per le Messe dei defunti. Alzò la testa e quale fu la sua sorpresa nel vedere Frate Martino, il suo amico sollevato in aria proprio vicino al Cristo che si trovava colà. Si avvicinò per vedere meglio, e poi corse dai religiosi per raccontare quanto aveva visto dal suo nascondiglio.
Un’altra volta cercavano Frate Martino che stava assistendo il Padre Arce, gravemente malato. Non trovandolo da nessuna parte, mandarono un novizio a cercarlo. Questi si recò nella Sala Capitolare e, aperta la porta, lo vide sollevato in aria, abbracciato al Cristo e con le labbra sulla Divina piaga del costato di Gesù il converso corse dicendo: “Padre, guardate il mulatto che è in estasi”.
Entrarono tutti i Padri che videro la stessa scena. Pochi istanti dopo, come se nulla fosse accaduto, Martino discese e disse ai fratelli che erano presenti: “Dite a Padre Arce che predisponga le sue cose per seguire il cammino che tutti noi dobbiamo percorrere”.
Alle 4 Padre Arre passava da questo mondo all’eternità seguendo la previsione di Frate Martino.
E’ vero che la Santità non consiste in estasi: però è certo che questo dono è un segnale dell’unione intima dell’anima con Dio.
Questo fatto si manifestò quando il Signore apparve a Santa Caterina dicendole che l’avrebbe sollevata da terra e portata in cielo, perché l’unione dell’anima con il Signore è più perfetta che l’unione tra anima e corpo e così, Frate Martino de Porres, il mulatto di Lima, realizzò i più grandi miracoli con tanta naturalezza come se fossero un cammino obbligato della sua esistenza.
Un poeta peruviano ha riassunto così i fatti della sua vita con una poesia dedicata che dice:
Non vi fu guardiano del convento più modesto, né servo più mansueto che il fraticello Martino; i poveri lo trovarono sempre disposto. Chiedeva la grazia dell’ultimo posto, del letto più duro, del trattamento più pesante.
Benediceva la mano che lo spingeva verso le aspre strade dell’eternità e quando l’odio tormentava la sua esistenza, sulle sue labbra sbocciava l’amore, il più amabile sorriso della Santità.
Un giorno un uomo anziano, recatosi per una infermità al convento, mostrò le sue piaghe al Frate Martino e questi, con gli occhi rivolti a Cristo, lo sollevò sulle braccia e, lo portò fino alla propria cella, sulla sua branda.
Il giorno dopo, di buon mattino, il padre provinciale e tre religiosi lo videro dormire sulla porta della cella, con il capo appoggiato allo stipite.
“Perché non siete nella vostra cella?”
Frate Martino si mostrò sorpreso di trovarsi in quella posizione. Mezzo stordito ancora dal sonno rispose: “Padre, perdonate, però il povero aveva tanta febbre…”
– Ma, di che cosa stai parlando?
Uno dei monaci apri la porta della cella e vide sul giaciglio un vecchio dalla chioma e barba fluente e con il volto fasciato da Padre Martino.
– Ma, é proprio necessario mettere un sacco di immondizia nella propria cella?
– Vede, padre, con un poco di sapone si può lavare la coperta, ma neanche un torrente di lacrime potrebbe lavare la mia anima per essere stato duro di cuore.
– Martino replicò il Superiore, con questo non rispetti la clausura del convento.
– E’ vero Padre, però penso che per i poveri e gli infermi non valga questa regola, perché contro la carità non può valere alcuna legge.
Il Superiore lo guardò ammirato e dopo qualche momento di riflessione, gli disse: “Hai ragione Frate Martino, accogli quanti infermi vorrai però fuori dalla clausura, in modo che noi possiamo soddisfare questo precetto.”
Capitolo 7 – GLI SCHIAVI
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Con il Cristianesimo si manifestò dall’Europa il fenomeno della tratta dei negri che è la negazione del Cristianesimo.
A quei tempi, gli schiavi che lavorano in aziende simili a quelle della Villa en Chorrillos, con 1500 schiavi, erano permanentemente costretti dalla frusta.
Molti commettevano atrocità marcando la pelle dei negri, come si attua ora negli allevamenti di cavalli e buoi.
Quando venne dalla Spagna la proibizione di marcare i negri, Martino aveva circa 38 anni e ciò significa che egli ha conosciuto i negri schiavi nel peggior momento della loro storia.
Si racconta che, ancora bambino, piagnucolante e indispettito sia corso nelle braccia della madre e le abbia detto: “Mamma, dei bambini mi hanno scacciato dal gioco perchè dicono che sono negro”.
Ana Velascuez gli disse: “Non piangere, piccolo. Non ti deve importare il colore della pelle. A Dio interessa solo il colore della tua anima”.
E il negro Martino mantenne sempre pura e bianca la sua anima fino al momento supremo.
Invano Frate Martino, la notte fredda sfiora il tuo viso con la sua ombra oscura; più bianca della neve è la tua anima, più chiara del sole di mezzogiorno.
Martino si rassegnò alla sua sorte, ma comprese ben presto quale terribile disgrazia pesava sulla sua razza.
Essendo figlio di una negra provò una grande stima per la gente di colore, prestando loro particolari cure ed affetto e lavorando incessantemente per far comprendere a questa gente gli splendori del Cristianesimo.
Una volta incontrò un negro che, avendo una piaga infetta, era sul punto di svenire. Mise le labbra sopra la piaga, la pulì, la bendò e benedisse il malato, dicendogli: “Non piangere, fratello, per il nostro colore…, il mondo passa.., la vita è breve.., un poco di odio, un poco di amore.., e tutto è gloria del cielo”.
Dopo 4 giorni di questa cura, il negro era guarito e sereno e lavorava con i suoi compagni.
Verso sera andava per i campi alla ricerca dei suoi fratelli di sangue. Svolgeva il compito di infermiere e di padre.
Bendava le loro piaghe, distribuiva rimedi, curava le ferite di grandi e piccini.
Si piegava rispettoso sul dolore di quelle anime che cercavano conforto e compassione.
Tutti avevano confidenza in lui.
Bastava una parola o un’attenzione delle sue mani per diminuire le pene, asciugare le lacrime, rendere meno dure le ore amare della vita.
Capitolo 8 – IL SUO EROISMO
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Un giorno il Superiore lo chiamò e gli disse: “Dobbiamo rinunciare ad alcuni oggetti d’arte, però senza che nessuno ne sia informato. I problemi economici del convento non vanno bene. Vi sono 250 religiosi che mangiano tutti i giorni. I debiti sono grandi e i creditori hanno poche speranze”.
Martino ricevette un quadro e alcuni candelabri e si recò al negozio di un antiquario che gli diede 20 pesos. Di ritorno a San Domenico, sentì le grida di un mercante di schiavi che offriva la sua merce umana… Frate Martino ne fu impressionato. “Qui vi sono due uomini, padre e figlio – proseguì il mercante – voglio essere buono con voi, quasi li regalo, andiamo fate delle offerte”.
Un uomo, armato di scudiscio esclamò: “Dò 15 pesos”.
Martino sentì un nodo salirgli alla gola dinnanzi a quella scena deplorevole. Nella mano stringeva le monete che aveva avuto dall’antiquario e il suo cuore nobile gli fece esclamare: “Dò 20 pesos”.
Tutti si stupirono guardando il mulatto. Il mercante sorrise e rispose: “Siano aggiudicati questi due uomini al Padre Domenicano”.
Martino formalizzò la transazione e si portò i due negri al convento. Con il capo basso si diresse dal priore per presentargli i due schiavi.
– Come, hai comprato due negri?
Martino fece segno di sì con vari cenni della testa.
– Martino, per tutti i Santi del cielo, ti mando per risolvere dei problemi economici e tu mi porti due bocche in più!.
– Ma credo, Padre, che tutto si possa risolvere.
– Come?
– Ci ho pensato bene. Ho chiesto al mercante di schiavi e mi ha detto che valgo molto. Vendetemi al mercato di schiavi e al mio posto questi due uomini possono lavorare per me.
Non era il momento di scherzare e lo aveva detto in tutta serietà. Il Priore chiuse gli occhi mentre con una mano asciugava una lacrima che gli scendeva sulle guance.
– Ritirati, Martino, e non insistere. Qui sei necessario per pregare più che per lavorare. Sono certo che le tue preghiere al Signore ci daranno la soluzione che stiamo cercando.
E fu così in effetti. Un cavaliere, padre di un ragazzo che Martino aveva salvato alcuni giorni prima, portò una borsa di monete e la consegnò il giorno stesso in cui avvenne la scena che abbiamo narrato, senza dire nulla. Martino, radiante di gioia, si ricordò delle 20 monete che aveva impegnato per comprare i due negri e si precipitò al convento per consegnarle al Superiore.
Capitolo 9 – IL SUO AMORE PER I POVERI
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Dio, che tutto vede, aveva posto il suo sguardo colmo di grazia sul servo mulatto, che aveva trasformato ogni minuto della sua vita in un atto straordinario di amore a Dio.
Come per corrispondere a questo amore sincero, il Signore gli concesse di fare cose tanto meravigliose da trasformarlo in uno dei Santi più straordinari di tutta la geografia cristiana, come provano alcuni dei numerosi fatti che narreremo.
Lima era una città dove confluivano popoli dell’America, dell’Europa e dell’Africa.
Per le sue strade si incrociavano bianchi, creoli, indio e negri.
Martino era europeo per parte di padre, africano per parte di madre ed americano per nascita: nessuna delle tre razze sfuggiva alla sua carità.
Meticcio o spagnolo, negro o bianco, libero o schiavo, uomo o donna, bambino o anziano, tutti erano sempre intorno a questo prodigioso frate laico.
Non si accontentava di dimostrarsi affettuoso come fanno taluni, con la sola parola.
Intercedeva per loro, attraendoli con la sua bontà ampia e generosa, per la sua incomparabile giustizia e carità.
Con queste armi otteneva dai ricchi, con insistenza, petizioni, facendoli riflettere, ciò che gli serviva per la sua continua e copiosa carità umana, quella carità che Dio ha nascosto nel più intimo di tutti i cuori perché la rivolgiamo nell’immenso mare delle miserie umane.
Precursore e praticante della giustizia sociale, diceva ai ricchi: “Fatevi degli amici con le vostre ricchezze, perché un giorno i poveri vi ricevano in Paradiso e ricordate che l’unico modo per pagare i debiti che avete contratto con Dio è fare elemosine, quelle elemosine che coprono l’enormità dei vostri peccati”.
Ai proprietari di fattorie, che avevano accantonato delle fortune sulla base del lavoro forzato degli indio e degli schiavi, ripeteva: “Guai a Voi che siete sazi! Un giorno avrete fame!”.
Ai commercianti, i cui capitali erano stati creati con le lacrime e il sangue dei poveri, ammoniva: “Fate elemosine, fratelli, con i vostri beni. Cercate di guardare intorno a voi tutte le necessità: in questo modo otterrete che il Signore si volga a guardarvi in viso”.
Ricordava all’autorità: “Al popolo povero e bisognoso occorre dare lavoro, pane e casa prima di fare prediche minacciose che i cuori non possono comprendere”.
Agli stessi Sacerdoti diceva: “Il corpo è il cammino attraverso il quale l’anima si eleva e all’affamato bisogna dare prima il pane, poi i buoni consigli”.
Per dare un esempio non mancò mai di aiutare a dare cibo a chi ne aveva bisogno.
Molte volte appariva in luoghi imprevisti, per lasciare un soccorso insperato e il suo cuore ascoltava le chiamate dei poveri che si vergognavano della loro miseria.
In tal modo se per caso, in quei momenti gli veniva a mancare qualcosa, ricorreva al miracolo che otteneva per concessione Divina, secondo le esigenze e la sua volontà.
Nelle dichiarazioni che sono state fatte sulla sua vita da Juan Vasquez, amico e confidente di Frate Martino, si racconta la forma intelligente e ordinata con la quale distribuiva i benefici della sua generosità.
Infatti era ordinato sia nel chiedere che nel distribuire aiuti.
Il martedì e il mercoledì raccoglieva elemosine per le famiglie povere, le fanciulle, le vedove, ecc.
Il giovedì e venerdì raccoglieva elemosine per i sacerdoti e gli studenti poveri.
Il sabato e il lunedì per i suffragi alle anime del purgatorio.
Le elemosine della domenica servivano per comprare vestiti e coperte che distribuiva alle famiglie più povere del suburbio.
Si è calcolato che Frate Martino dava aiuto ogni giorno a circa 200 poveri e che settimanalmente distribuiva oggetti e denaro per più di 7000 soles (antica moneta spagnola).
Non si accontentava di amare i poveri.
Frate Martino parlava e intercedeva per loro.
Girando e questuando per loro, per le strade di Lima, si rese conto di quanto fosse grande la miseria e la miseria materiale e morale nella quale si trovavano tanti poveri bambini.
Pensò allora ad una fondazione a favore dei bambini, grande abbastanza per coprire le necessità di tutta la città. Grazie al suo prestigio ottenne ben presto l’approvazione del Viceré, dell’arcivescovo e di tutte le autorità civili e militari, ottenendo tra l’altro un contributo di 200.000 pesos che gli vennero date per fondare l’ospizio di Santa Cruz che ancora oggi esiste a Lima sotto altro nome.
Capitolo 10 – IL DONO DELL’UBIQUITÀ
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Dio, che tutto vede, aveva posto il suo sguardo colmo di grazia sul servo mulatto, che aveva trasformato ogni minuto della sua vita in un atto straordinario di amore a Dio.
Come per corrispondere a questo amore sincero, il Signore gli concesse di fare cose tanto meravigliose da trasformarlo in uno dei Santi più straordinari di tutta la geografia cristiana, come provano alcuni dei numerosi fatti che narreremo.
Lima era una città dove confluivano popoli dell’America, dell’Europa e dell’Africa.
Per le sue strade si incrociavano bianchi, creoli, indio e negri.
Martino era europeo per parte di padre, africano per parte di madre ed americano per nascita: nessuna delle tre razze sfuggiva alla sua carità.
Meticcio o spagnolo, negro o bianco, libero o schiavo, uomo o donna, bambino o anziano, tutti erano sempre intorno a questo prodigioso frate laico.
Non si accontentava di dimostrarsi affettuoso come fanno taluni, con la sola parola.
Intercedeva per loro, attraendoli con la sua bontà ampia e generosa, per la sua incomparabile giustizia e carità.
Con queste armi otteneva dai ricchi, con insistenza, petizioni, facendoli riflettere, ciò che gli serviva per la sua continua e copiosa carità umana, quella carità che Dio ha nascosto nel più intimo di tutti i cuori perché la rivolgiamo nell’immenso mare delle miserie umane.
Precursore e praticante della giustizia sociale, diceva ai ricchi: “Fatevi degli amici con le vostre ricchezze, perché un giorno i poveri vi ricevano in Paradiso e ricordate che l’unico modo per pagare i debiti che avete contratto con Dio è fare elemosine, quelle elemosine che coprono l’enormità dei vostri peccati”.
Ai proprietari di fattorie, che avevano accantonato delle fortune sulla base del lavoro forzato degli indio e degli schiavi, ripeteva: “Guai a Voi che siete sazi! Un giorno avrete fame!”.
Ai commercianti, i cui capitali erano stati creati con le lacrime e il sangue dei poveri, ammoniva: “Fate elemosine, fratelli, con i vostri beni. Cercate di guardare intorno a voi tutte le necessità: in questo modo otterrete che il Signore si volga a guardarvi in viso”.
Ricordava all’autorità: “Al popolo povero e bisognoso occorre dare lavoro, pane e casa prima di fare prediche minacciose che i cuori non possono comprendere”.
Agli stessi Sacerdoti diceva: “Il corpo è il cammino attraverso il quale l’anima si eleva e all’affamato bisogna dare prima il pane, poi i buoni consigli”.
Per dare un esempio non mancò mai di aiutare a dare cibo a chi ne aveva bisogno.
Molte volte appariva in luoghi imprevisti, per lasciare un soccorso insperato e il suo cuore ascoltava le chiamate dei poveri che si vergognavano della loro miseria.
In tal modo se per caso, in quei momenti gli veniva a mancare qualcosa, ricorreva al miracolo che otteneva per concessione Divina, secondo le esigenze e la sua volontà.
Nelle dichiarazioni che sono state fatte sulla sua vita da Juan Vasquez, amico e confidente di Frate Martino, si racconta la forma intelligente e ordinata con la quale distribuiva i benefici della sua generosità.
Infatti era ordinato sia nel chiedere che nel distribuire aiuti.
Il martedì e il mercoledì raccoglieva elemosine per le famiglie povere, le fanciulle, le vedove, ecc.
Il giovedì e venerdì raccoglieva elemosine per i sacerdoti e gli studenti poveri.
Il sabato e il lunedì per i suffragi alle anime del purgatorio.
Le elemosine della domenica servivano per comprare vestiti e coperte che distribuiva alle famiglie più povere del suburbio.
Si è calcolato che Frate Martino dava aiuto ogni giorno a circa 200 poveri e che settimanalmente distribuiva oggetti e denaro per più di 7000 soles (antica moneta spagnola).
Non si accontentava di amare i poveri.
Frate Martino parlava e intercedeva per loro.
Girando e questuando per loro, per le strade di Lima, si rese conto di quanto fosse grande la miseria e la miseria materiale e morale nella quale si trovavano tanti poveri bambini.
Pensò allora ad una fondazione a favore dei bambini, grande abbastanza per coprire le necessità di tutta la città. Grazie al suo prestigio ottenne ben presto l’approvazione del Viceré, dell’arcivescovo e di tutte le autorità civili e militari, ottenendo tra l’altro un contributo di 200.000 pesos che gli vennero date per fondare l’ospizio di Santa Cruz che ancora oggi esiste a Lima sotto altro nome.
Capitolo 11 – I SUOI PRODIGI
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L’angelo tutelare di Lima segue il suo cammino senza sorprendere nessuno, per quanto avvenissero cose straordinarie sul suo cammino.
Tutto in lui è naturale.
Tutto si svolge con tanta gentilezza e con tanta naturalezza da far pensare che questo sia l’ordine normale delle cose.
Nessuno pensò che egli fosse la causa prima di tanti rapimenti meravigliosi e prodigiosi.
Un giorno lo mandarono a comprare dello zucchero, che non si trovava da nessuna parte.
Quando rientrò, stanco per tanto cercare, incontrò il Padre Procuratore visibilmente dispiaciuto per il troppo tempo durante il quale era stato assente.
“Non sapevate che vi stavo aspettando?
– Sì, Padre, però non trovavo zucchero da nessuna parte.
– E questo pacchetto?
– Zucchero, Padre, quello che alla fine ho trovato! – e svolgendo il pacco glielo mostrò.
– Zucchero? Ma questa è una porcheria! E’ negro come te, povero mulatto, riavvolgilo subito. Non lo voglio.
– Credo che si possa sistemare la cosa, Padre.
– Sistemare? Come?
– Lavandolo Padre – e senza aspettare risposta, andò alla fontana che era al centro del chiostro e, prima che il Padre gli dicesse di non fare atti inconsulti, il mulatto aveva già svolto il pacchetto ed apparve uno zucchero bianco immacolato.
Il religioso se ne andò annichilito, senza credere ai propri occhi. A vedere Martino tanto sereno portare il pacchetto alla mensa e continuare a fare le proprie cose come se niente fosse successo si sentì umiliato dinnanzi alla grandezza di quel negro insignificante, al quale Dio aveva concesso tanto potere.
Un altro giorno giunse alla porta una donna con una creaturina fra le braccia; incontrò Frate Martino e lo supplicò: “Fratello Martino, guarda il mio bambino!”
– Che cos’ha vostro figlio? – domandò il domenicano osservando la creaturina che aveva appena 5 anni.
– È salito sul tetto della casa e di qui è caduto nel cortile e credo che si sia rotto le gambe.
– Frate Martino palpò per un pò le gambe che sembravano essere svuotate, come stracci; le lavò con acqua e vino e le avvolse accuratamente.
– Bene – le disse – ora non resta che pregare: non è niente.
Domani vostro figlio sarà completamente guarito.
E così fu infatti. Il giorno dopo il bambino giocava come se niente fosse successo.
Nel convento vi era un giovane sacerdote, molto virtuoso chiamato Frate Tomes del Rosario, che morì dopo una lunga malattia. Tutti erano pronti al seppellimento e i fratelli erano riuniti sulla porta delle cella per recitare l’ufficio dei defunti come al solito, quando entrò Frate Martino nella cella.
Fece chiudere le porte e cominciò a pregare ai piedi del crocifisso chiedendo al Salvatore di usare misericordia per questo fratello.
Poi si avvicinò al defunto e gli parlò nell’orecchio.
– Frate Tommaso!
E immediatamente quello che era un cadavere sospirò e si mosse.
A vedere questo miracolo, il portinaio che era presente non poté trattenersi ed esclamò: “Oh! Com’è generoso Iddio che ridà la vita ad un morto quando glielo chiede un suo figlio!”.
Martino ritornò e disse ai religiosi che stavano sulla porta che potevano ritornare alle loro celle, perché Frate Tommaso del Rosario aveva recuperato i sensi.
Dio dovette sentirsi estremamente compiaciuto delle opere dell’umile mulatto se ha voluto modificare a suo favore moltissime leggi di natura concedendogli doni di agilità, trasparenza, ubiquità, preveggenza e, soprattutto per aver compiuto dei miracoli.
Una volta Frate Martino mandò da un ragazzino che frequentava il convento una lettera al suo amico Frate Macias il quale salì a sua volta agli onori degli Altari.
Vedendo che la lettera non era chiusa, preso dalla curiosità, il ragazzino tolse la lettera.
Arrivato alla Recoleta, incontrò Frate Macias che lo stava aspettando, il quale gli disse: “Ragazzino, perchè hai letto la lettera? Non farlo un’altra volta perchè è un peccato”.
All’udire questo rimprovero, il ragazzino si impaurì e cominciò a indietreggiare. Però Frate Macias gli offrì delle caramelle e gli disse: “Aspetta, ti voglio dare la risposta per Frate Martino”.
Dandogli la lettera raccomandò al ragazzo: “Prendila e non leggerla”.
Il ragazzino promise, però, sul cammino di ritorno temendo che Frate Macias avesse comunicato a Frate Martino il fallo che aveva commesso, si decise ad aprire la lettera. Si sentì pienamente soddisfatto vedendo che non vi era alcuna allusione alla sua imprudenza.
Quando arrivò, Frate Martino lo guardò con serietà e gli disse: “Non ti bastava aver aperto o letto la mia lettera, ma hai anche letto quella di Frate Macias, benché egli ti avesse raccomandato di non aprirla. Perché lo hai fatto? Non essere curioso e cerca di correggere questo difetto.”
Il ragazzo se ne vergognò e anni più tardi il giovane riferì questo fatto.
Quando Frate Medina stava compiendo il noviziato era piuttosto malaticcio e piuttosto tarchiato. Per questo i suoi compagni si burlavano di lui.
Un giorno che Martino lo stava radendo, i suoi compagni gli dissero per scherzo: “Fratello Martino, rasalo bene e vediamo se quando l’avrai ben rasato non diventerà un poco più bello”.
Frate Martino replico: “Lo chiamate brutto perché lo vedete piccolo di statura, però vi assicuro che Medina sarà un buon giovane e farà onore alla nostra religione”.
Questa profezia si adempì alla lettera. Ii fratello Medina crebbe moltissimo dopo una malattia, diventando di statura normale, anzi un poco più alto. Qualche anno dopo divenne Rettore dell’università di San Marco e poi Vescovo a Uamanga.
Un novizio si tagliò un dito fin quasi a dividerselo in due parti.
Senti dolori terribili e di questo fu avvertito Martino che andò a visitarlo e gli disse:
– Che cos’è, Angelo? Perché non mi hai chiamato prima?
Scoprì la ferita e vi posò delle erbe e il giorno seguente il dito era saldato.
Qualche volta si sottraeva alle leggi della gravità e si sollevava in aria, come se ali misteriose lo trattenessero.
Nella sua vita ebbe tre Amori: Cristo crocefisso, la Vergine del Rosario e Santo Domenico de Gusman.
Uno dei luoghi dove soleva rifugiarsi il nostro Santo era la Sala Capitolare, dove vi era una bella statua del Cristo di grandezza naturale di quasi 2 metri di altezza.
Davanti a questa immagine sacra egli fu spesso sorpreso dai fratelli del convento e talora anche da persone estranee.
Durante una delle sue marce, che compiva tutti i mesi nei dintorni di Lima, con il sacco da questuante, raccogliendo da una parte e soccorrendo dall’altra, si trovò ad aiutare un ragazzo gravemente ferito, che portò all’infermeria del convento.
Nei pochi giorni che questi trascorse in convento, nacque un affetto tanto grande tra il ragazzo e il mulatto, per cui appena migliorato, il ragazzo domandò al Superiore di diventare il collaboratore di Frate Martino. La sua scarsa conoscenza della mistica religiosa gli fece compiere non pochi sforzi.
Una notte si udì a Lima una forte scossa di terremoto e, atterrito, Juan Vasquez, così si chiamava il ragazzo, corse a rifugiarsi nella cella di Frate Martino. Quale non fu il suo stupore nel vedere il mulatto, le braccia aperte, sospeso a un paio di metri dal suolo.
Atterrito, il giovane volò nelle celle degli altri religiosi per raccontare quello che aveva visto. “Ti dovrai abituare alle estasi, caro giovane”, gli dissero i compagni di Frate Martino.
Per tutti questi fatti miracolosi che avvenivano con tanta frequenza (per sua intercessione) a Lima, tutti lo veneravano provando per lui una grande riconoscenza.
Un giorno, rientrando al convento, affaticato, incontrò un vecchio ciabattino della comunità che lo stava aspettando.
– Che c’è, fratello? – chiese il Domenicano.
– Vedi come sto? – si lamentò il vecchio calzolaio che camminava strascicando i piedi e che aveva le dita della mano senza movimento a causa di un terribile reumatismo.
Frate Martino gli sorrise affettuosamente e aiutò il vecchio a sedersi su un banco della portineria.
– Mi devi curare, gli disse, altrimenti non posso lavorare.
– Bene, non ti devi preoccupare, domani potrai farlo.
– Domani? – chiese dubbioso il vecchio.
– Forse non vi siete reso conto del mio male. Non posso muovere le dita. Non hai una medicina per me?
– Sì, non è niente…, il rimedio è facile. Prese la mano inferma del calzolaio mentre con l’altra gli faceva il Segno della Croce sopra le dita gonfie. Bene, adesso sei a posto. Il negro lanciò una terribile occhiata a Frate Martino.
– E così che si cura un infermo?
– Spera, uomo, e calmati. Non sei convinto di questa cura?
– Io speravo in verità che voi mi deste un rimedio.
– Sta bene, ti accontento, però non dire nulla al Padre Priore…
Martino andò a cercare in tutti gli angoli della stanza sotto lo sguardo attento del negro.
Alla fine il calzolaio si mise a sorridere vedendo che Frate Martino stava preparando un rimedio per la sua malattia. Infatti pochi minuti dopo Martino ritornò con una benda tra le mani e un qualche cosa nell’altra, come desiderava il calzolaio. Il negro presentò la mano dolente che il mulatto bendò con somma attenzione.
– Bene, brontolone, tieniti stretta la cura. Domani potrai lavorare.
Il mattino dopo il calzolaio era completamente sollevato dal trattamento che gli aveva fatto Martino.
Si accorse che non solo poteva muovere le dita, ma che non gli facevano alcun male.
Uscì di casa allegramente e vedendo la mano bendata si disse: “Meraviglioso, voglio vedere quale medicamento mi ha applicato Frate Martino.
Si tolse la benda e, con somma sorpresa, si accorse che gli era stato applicato un pezzo di suola.
Il vecchio comprese il miracolo che Frate Martino aveva compiuto per togliergli il dolore.
Con il passar degli anni la bontà dell’angelico mulatto non aveva più limiti e viene confermata da quanto stiamo per narrare.
Stava conversando in portineria quando lo venne a cercare il Dottor Villaroel.
– Che piacere vederla, Frate Martino! Mi sento in debito di venirla a visitare e a ringraziarla per la cura che mi ha dato.
Il portinaio rimase perplesso perchè sapeva che il Dottor Villaroel, pochi giorni prima, era stato dato per spacciato dai medici. Come era possibile che dopo soli 3 giorni potesse essere lì, e che stesse parlando tranquillamente con Frate Martino?
La ragione la suppose ben presto ascoltando la conversazione con il suo amico.
Quando il Dettar Villaroel era stato quasi in agonia, era entrato in casa Frate Martino e, dirigendosi lentamente al capezzale del suo letto, gli aveva detto: “Andiamo, Dottore, non mi dirà che un medico come lei non riesce a curarsi da solo!”
Il Dottor Villaroel cercò di ridere, però non vi riuscì. “Animo, aggiunse il visitatore, di questa malattia non morirà”.
Poi rivoltosi alla padrona di casa, le disse: “Quello che ha vostro marito è appetito: credo che dovreste dargli un amaretto”.
I familiari, all’udire questo, rimasero stupiti.
Scese un silenzio impressionante sulla casa.
Comunque la Signora si decise e portò la bibita richiesta.
Il fraticello prese la coppa e avvicinandosi all’infermo gli disse: “E’ certo, Dottore, che siamo nati per morire, però non per mancanza di alimento, ma solo per volontà di Dio; quindi, beva questa bibita e poi si sentirà molto meglio”. Poi sollevando la testa del moribondo, lo aiutò a bere la bibita.
– Bene, Dottore, lunedì prossimo, se Dio vorrà verrà al convento a rendermi la visita.
– La moglie non poté fare a meglio di dirgli: “Però oggi è sabato, Fratello Martino”.
– Sì, sorella, lo so bene. Però lunedì prossimo vostro marito sarà guarito.
E, giunto il lunedì, ecco il Dottor Villaroel che stava parlando tranquillamente con Frate Martino, mentre Frate Barragan, il portinaio non cessava di scuotere la testa.
Un vivace novizio, che voleva approfittarsi di una misteriosa influenza che circolava nella Ciudad de los Reyes, per andare alcuni giorni in vacanza da suo padre, si finse ammalato e ottenne dal medico del convento, che era amico di casa, un certificato con il quale si presentò al Padre Priore.
“Il medico dice che ho bisogno di un certo periodo di riposo nella mia casa – gli disse – perché mi sento debole. Che faccio, Padre?”.
Dillo al Padre Maestro.
Questi non fece difficoltà a dargli il permesso, avendolo già concesso sia il medico che il Priore, quando questi, molto allegro, stava dirigendosi verso la portineria gli sbarrò il passo Fratello Martino per dirgli in tono severo: “Figlio non andare a casa”
– Perché?
– Perché non sei malato.
– Che ne sapete voi?
– Sì che lo so e tu sai di avere ingannato il medico e il Padre Priore.
– E che cosa importa a voi, vecchio mulatto?
E si affrettò in direzione della portineria.
Frate Martino lo guardò con compassione e gli disse:
– Vai figlio mio, senza essere malato, però fra breve ti riporteranno al convento per sempre.
Frasi profetiche con un contenuto doloroso.
Il novizio se ne andò senza altre parole e 8 giorni più tardi lo riportarono cadavere per interrarlo nel convento di Santo Domingo.
La carità, dice San Paolo, è ingegnosa, però per tanto che Frate Martino si ingegnasse, non poteva arrivare da tutte le parti in quel crudo inverno del 1598.
La colpa era dell’influenza. Non meno di 60 religiosi giacevano malati nelle loro celle, con una febbre altissima.
La cella di Frate Martino era un arsenale di erbe e di pozioni. Erano molti coloro che gli chiedevano rimedi e doveva provvedere da solo.
Andava e veniva da una cella all’altra di continuo.
D’improvviso, un giovane novizio, Frate Vicente Ferré, delirando per la febbre alta si lasciò scappare un desiderio che sapeva non avrebbe potuto essere soddisfatto: “Oh, Frate Martino, se mi poteste dare una camicia per cambiarmi!” – e chiuse gli occhi rassegnato alla sua sorte. Ma li aprì un momento dopo all’udire che qualcuno camminava nella sua cella. Quando fu sul punto di gridare riconobbe Frate Martino che portava tra le mani un braciere e, ripiegata sul braccio, una camicia pulita.
Il novizio muto per lo stupore, non riuscendo a credere ai propri occhi, vide il suo angelico infermiere svolgere i suoi compiti: ritira la coperta, tonaca, le mette tra due sedie, sopra il braciere, e, con somma delicatezza, come se fosse una madre, gli toglie la camicia intrisa di sudore e gliela sostituisce con quella pulita.
Il novizio sapeva che la cella era chiusa,
(Il novizio sapeva che la cella era chiusa), che il Padre Maestro teneva le chiavi, di non aver detto niente a nessuno, che la sua porta restava sempre chiusa e tuttavia di fronte a lui vi era Frate Martino.
– Sto sognando?
– No.
Si toccò e notò che i suoi panni erano asciutti a che l’ambiente era impregnato di suffumigi. Alla fine gli fece una domanda: “Frate Martino, come siete entrato qui?
– Calma, ragazzo perché ti stai a preoccupare di ciò?
– Ma se tutto era chiuso, come siete riuscito ad entrare?
– Non essere curioso e non chiedere cose che non ti interessano. Adesso dormi.
Mentre Martino raccoglie il braciere e sistema le sedie, il novizio gli chiede: “Frate Martino, morirò?”
– Ragazzo, vuoi morire?
– No.
– Allora non morirai. Ciao.
Senza sentir rumore di porte, né di serrature, Frate Martino non era più nella cella.
Il giorno dopo Frate Vicente Ferré stava bene e si alzò senza nemmeno una linea di febbre. E il miracolo si ripeté notte dopo notte, tutte le volte che un infermo lo chiamava.
Un’altra sera fu Migue1 de Villarrubia che desiderava mangiare una minestra e non sapeva come fare. Di fronte a lui si trovò Frate Martino con la scodella che gli diceva: “Va, ragazzo, mangia la tua minestra e togliti questo desiderio”.
Un’altra volta Padre Juan sente una sete tormentosa.
“Oh, Frate Martino, esclama, se mi portassi una brocca di acqua!” – e un istante dopo appare Martino de Porres con la desiderata brocca.
Un’altra volta fu Padre Pedro de los Pios: “Oh, Frate Martino, viene qua!”, e vicino a lui era il Santo infermiere che gli chiese: “Che vuoi? Figlio mio?
– “un’arancia fratello”.
ed un’arancia appare nella mano miracolosa del frate.
I continui miracoli giungono alle orecchie del Frate Maestro, Frate Adres Lison che vuole controllare se per caso il domenicano non abbia una chiave che gli consenta di aprire le porte del noviziato.
Una delle tante notti lo sorprende nella cella di Frate Francisco Velazco.
Silenziosamente si avvicina fino alla porta e si mette di guardia, aspettando che compaia.
Passano i minuti, passa più di un’ora.
Come mai Padre Martino ci mette tanto tempo?
In punta di piedi arriva fino alla porta del novizio infermo, la apre a poco a poco e, che vede? All’interno non vi era il frate infermiere.
Allora il Padre Maestro si ritira ammirato per Santità di quell’umile fratello, per il quale non esistevano né porte né serrature.
Però il miracolo più famoso fu la guarigione dell’Arcivescovo del Messico.
Per tutta Lima correva voce che l’Arcivescovo forse in punto di morte e che i migliori medici ormai non sapevano più che fare.
Conosciuta questa notizia, l’Arcivescovo mandò a chiamare Frate Martino tramite il Priore del convento. Il Superiore gli ordinò di andare subito ai palazzo arcivescovile.
– Non mi obblighi ad andare, disse Frate Martino al Superiore. Non sapete che sono un povero negro che non merita questo onore?
Il Superiore usò tutta la sua autorità per convincerlo a quella visita ed anche per fargli indossare un abito nuovo che aveva mandato a prendere.
Il portinaio, vedendolo passare così elegante, gli disse in tono scherzoso:
“Oh Frate Martino, quanto siete elegante!’
– Frate Barragan, replicò Martino, con questo abito mi sotterreranno. E così fu infatti perché di lì a poche settimane Frate Martino morì e lo seppellirono con quell’abito.
I medici dell’Arcivescovo, a vederlo entrare nel palazzo pensarono che egli fosse un medicone.
Ma l’Arcivescovo, riconosciutolo immediatamente, fece un segno e gli disse: “Avvicinatevi Frate Martino, datemi la mano”.
Il mulatto rimase muto.
“Non mi avete sentito? Desidero che mettiate la vostra mano sul mio costato, dove sento tanto dolore”.
Martin de Porres alzò lentamente la mano, la pose sul costato, come aveva richiesto l’Arcivescovo, che immediatamente si sentì meglio.
“Frate Martino, adesso che avete curato il mio fianco, ritornerò subito al Messico, gli disse il Capo della Chiesa Azteca.
– Grazie, seguitemi con le vostre preghiere”.
Infatti, poco tempo dopo, l’Arcivescovo lasciò la camera guarito e ritornò alla sua diocesi.
Non possiamo concludere queste pagine senza parlare dell’amore che San Martino de Porres y Velazcuez provò per gli animali, riuscendo ad armonizzare istinti diversi che nella medesima natura si trovano con manifestazioni opposte.
Nella cantina del convento vi erano un gatto e un cane ai quali portava tutti i giorni un poco di cibo.
Dato che ciascuno cercava di far valere il diritto del più forte, come è comune in tutti gli animali, un certo giorno i due animali cominciarono a minacciarsi, a ringhiare, a brontolare.
Erano già disposti l’uno contro l’altro quando li vide Martino:
“Che cosa sono queste cose? Non si fanno tra fratelli! Se chiedete da mangiare dovete essere in pace con Dio e con i vostri simili. E poi nello stesso piatto, come fatto tutti i poveri”.
Cessarono per incanto le dispute tra gli animali che si misero a mangiare da buoni amici nello stesso piatto.
Il fatto curioso fu che nei giorni seguenti spuntò il muso di un topo.
Al vederlo, gli disse: “Fratello topo avvicinati con fiducia e goditi anche tu di questo ben di Dio che si trova per questi buoni amici”.
Il topo non se lo fece ripetere due volte e occupò il suo posto tra il gatto e il cane.
Da quel giorno, moltissimi religiosi del convento venivano a veder mangiare in un sol piatto il cane, il gatto e il topo, un prodigio di San Martino, che fu uno degli spunti delle cronache più suggestive di quell’epoca.
Una volta giunse alle sue orecchie un lamento di un cane che sembrava provenire dalla porta.
Corse e vide uno spettacolo estremamente lamentevole.
Due negri giganteschi stavano ammazzando a randellate un povero cane. “Santo Dio! Questo è il cane della comunità, protestò il fraticello – che male vi ha fatto?”
– Il procuratore ci ha ordinato di ucciderlo – risposero i negri.
– Ma è una cosa inumana!
Quando pero arrivò Frate Martino, il cane era già morto. I negri osservavano un po’ perplessi Frate Martino e meditavano di seppellire il cadavere vicino ad un albero.
– Non seppellitelo – disse – portatelo alla mia cella. E si recò immediatamente a parlare al Procuratore.
Il religioso gli disse che il cane era malato e che non poteva essere guarito.
– No, Padre, rispose Martino – queste non sono ragioni per tanta crudeltà.
– Qualche volta… quando non vi è rimedio…
– No, vi è un rimedio… domani lo vedremo – e se ne tornò a grandi passi.
Il Padre procuratore rimase pensoso e raccontò quanto era successo agli altri Padri.
Il mattino dopo tutta la comunità rimase sorpresa a vedere che Frate Martino dava da mangiare al cane che il giorno prima era stato ammazzato dai negri. Era il medesimo cane, ringiovanito, che scodinzolava gioiosamente per dimostrare la sua gratitudine al mulatto.
In un’altra occasione, incontrò una mula alla periferia della città, caduta al suolo e con una zampa rotta.
– Che fai qui creatura di Dio. Via alzati!
La mula obbedì all’ordine, si alzò con tutta agilità, completamente guarita.
Le diede dell’erba che vi era lì accanto e la portò a San Domenico, dove lavorò nell’orto per molti anni.
La carità singolare, eccezionale dell’Angelo tutelare di Lima era tanto miracolosa da non poter vedere soffrire gli animali.
Sua sorella Juana aveva contratto matrimonio con un uomo molto ricco e di buon cuore, che si era costruito una grande casa nel miglior quartiere residenziale di Lisa. Martino approfitto di questa occasione per aiutare tutti i poveri animali che trovava abbandonati nella città. A tal fine chiese a sua sorella un locale e non passava giorno che non vi portasse animali infermi, maltrattati o vecchi che curava con grande cura e al quali procurava da mangiare.
Finché si trattò di un solo locale, Juana non disse nulla, ma quanto Juana vide che gli animali riempivano la casa con il loro lezzo, lo disse al fratello, ingiungendogli di non portarne più.
– Lo dici perché ti insudiciano la casa?
– Sì, è vero. Questo è il motivo principale.
– Va bene. Il rimedio è facile. Vado a rimproverare quei maleducati e vedremo come si comporteranno.
E come se fosse stata la cosa più naturale del mondo li chiamò:
– Venite tutti! E in pochi istanti la legione di animali fu intorno al fratello mulatto, mentre la giovane signore rimase perplessa e sconfitta.
Frate Martino guardò tutti gli animali cha lo seguirono obbedienti e disse loro con garbo:
– Vi rendete conto di come riducete la casa e come ricambiate il bene che vi viene fatto?
Tutti tenevano gli occhi fissi su di lui che parlava.
Sono molto malcontento di voi. E’ chiaro che avete delle necessità da soddisfare, però per queste cose dovete andare per la strada e non entrare nelle stanze che non sono a voi riservate.
Juana confessò che da quel giorno poté tenere pulita la casa senza che gli animali che l’eroica carità di Martino le portava fossero per lei un cruccio.
Un giorno camminava rapidamente per il chiostro del convento, quando sentì dei colpi ripetuti che turbavano la pace del convento.
Sembrava che venissero dalla Sagrestia e si diresse in quella direzione.
– Maledetti animali! Gridava Frate Bias
– Che sta succedendo, fratello? – chiese Martino.
– Un’altra volta i topi?
Sì un’altra volta. Però giuro che voglio farla finita con i topi anche se dovessi comprare tutto il veleno che vi è a Lima.
– Poveretti. Non fatelo. Io conosco un posto dove potrebbero stare senza molestare nessuno.
– Mi vorreste far credere che potreste fare una cosa del genere?
– Con la grazia di Dio proverò.
Il Sagrestano scoprì in quel preciso momento un topino che faceva sporgere il muso da una fessura dell’armadio.
Indicatolo a Frate Martino con un movimento del capo, questi levò la voce e disse: “In nome di Dio, creatura cara, ti mando a cercare tutti i tuoi fratelli, perché me li porti qui.
Il piccolo roditore non si fece ripetere due volte l’ordine e sparì nelle fessure.
Pochi minuti dopo, il Sagrestano quasi svenne nel vedere che comparivano da tutti gli angoli dei topi fino a formare una vera legione che si raggruppò ai piedi di Frate Martino.
Bene, disse questi, mi fa piacere come obbedite a Dio. Ho detto a vostro fratello che fate del male, mangiando queste cose che il Signore ci ha dato. Bisogna mettere fine a questo sopruso. Quindi, a partire da oggi, vivrete in altri luoghi che ho preparato per voi e dove non vi mancherà nulla. Venite con me.
Sotto gli occhi attoniti del Sagrestano i roditori si misero ordinatamente entro un cassone che stava al suolo. Se lo caricò e lo portò in un campo.
Questa sarà d’ora in poi la vostra casa, disse loro e qui troverete cibo che non vi verrà mai a mancare.
Emozionato, Frate Blas, per quello che aveva visto, si fece coraggio e disse: “Grazie Frate Martino, pregherò Dio perché vi premi per tanta carità”.
Da quel momento non si vide più un topo in tutta la Sagrestia.
Capitolo 12 – LE SUE ESTASI
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Passarono gli anni.
I miracoli si moltiplicarono.
Venivano curati i malati, i poveri e gli invalidi ricevevano benefici dal potere Divino di questo incomparabile mulatto.
Però nulla restava più del giovane baldanzoso, forte, vigoroso degli anni passati.
Frate Martino de Porres era ora un uomo indebolito dai suoi numerosi digiuni, veglie e fatiche. La sua salute era minata. Molto ricurvo, camminava appoggiato ad un bastone.
Come in tante altre sere, aiutava il fratello sagrestano a preparare gli ornamenti e i calici per la Messa del giorno seguente.
Con quale rispetto e reverenza toccava i lini, disponeva i vasi sacri che il giorno dopo avrebbero custodito il Sangue di Cristo!
Quando terminava il suo lavoro, si ritirava per gran parte della notte vicino ad uno degli altari, per continuare qui le sue orazioni ed era proprio questo il momento nel quale molte volte entrava in estasi ed il suo corpo si sollevava da terra di vari metri.
Intanto passavano le ore.
Nella parte alta del coro della Chiesa si odono dei passi frettolosi.
Sono i religiosi che si recano alla preghiera del mattutino.
Quasi 200 voci si levano, in coro alternato, in un ritmo monotono e concorde.
All’improvviso tutte le voci si uniscono nella medesima esclamazione: “Che succede?”
I volti si volgono attoniti all’altare che sembra illuminato come se un chiarore celestiale aveste dissipato le ombre della notte. Tutti gli occhi si volgono per cercare di indagare la causa di questo strano fenomeno, mentre i più giovani corrono verso le scale del coro.
La luce proviene da uno degli altari laterali. Lentamente due o tre religiosi ai avvicinano, facendosi coraggio.
“Chi è vicino a quell’altare?” Grida uno. Sembra il busto di un uomo… E’ certo.
E’ Frate Martino – dice un altro emozionato. E poco a poco ai avvicinano tutti gli altri domenicani che formano un cerchio intorno al mulatto, cadendo in ginocchio dinnanzi a quell’umile creatura.
Frate Martino, il viso trasfigurato e l’abito più bianco della neve resta all’oscuro di tutto quanto gli sta succedendo intorno.
Sollevato da terra ed in estasi.
In un’altra occasione entra nella cella un religioso che voleva parlare con lui.
Non vedendolo stava per andarlo a cercare da un’altra parte, quando sentì toccare il cappuccio da qualcosa di strano.
Alzò il capo e, con stupore, vide che il suo cappuccio non era stato toccato da altro se non dai piedi di Frate Martino che stava a mezz’aria in una delle sue frequenti estasi.
Accadde che il Padre Priore dovesse parlare con urgenza con lui.
Per tre ore lo cercarono per tutto il convento, senza trovarlo.
Alla fine un giovane indio, che si trovava nel convento, disse nella sua incerta lingua castigliana:
– Frate Martino oggi è invisibile
– Perché? – gli chiesero.
– Perché oggi Frate Martino si comunica.
Infatti, proprio qui era la spiegazione della sua assenza, quando si comunicava ogni otto giorni si ritirava in luoghi molto appartati per un’azione di grazia.
Però siccome molti lo cercavano per i suoi servizi, non mancava mai di incontrare qualcuno che lo disturbasse.
Allora il Signore, con estrema delicatezza lo ripagava della sua ansia di restare con lui, rendendolo invisibile.
In questi momenti di silenzio e solitudine, si realizza il mistero della sua capacità di essere in due luoghi diversi, che lo faceva trasportare a 1000 km, senza lasciare il convento, esercitando un intenso ministero apostolico e caritativo, a Tunez, in Cina e in Giappone.
Una volta che il Padre Priore ebbe bisogno di lui con urgenza, Frate Cipriano disse al suo Superiore: “Padre, ditegli di venire per obbedienza e vedrete che non mancherà di apparire”.
Infatti il Priore con tono solenne, ordina:
– Frate Martino, in virtù della Santa Obbedienza ti ordino di presentarti qui.
Cosa inaudita, appare Frate Martino, disponibile e sorridente, come se fosse stato a due passi di distanza.
Da quel giorno nessuno cercò più di disturbano durante il giorno della Comunione.
Alla fine, in moltissime altre occasioni, molti testimoni lo sorpresero in questi momenti di rapimento e di estasi ed in luoghi diversi, nella Chiesa, nella sala capitolare, nella portineria, in cella e anche in luoghi fuori dal convento. E’ vero che la Santità non consiste nelle estasi, però questo dono è un segno dell’unione dell’anima con Dio.
Capitolo 13 – IL VEGGENTE
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Martino aveva i giorni contati. Camminava con il capo reclinato e trascinando i piedi.
Una febbre intermittente stava minando la sua forte costituzione.
Prima di essere ricoverato in infermeria, volle andare a Callao per un commiato a Juan Vasquez, suo amico e confidente, che era stato suo assistente e che aveva dormito per 4 anni nella sua stessa cella.
La scena del commiato fu molto intima e familiare.
Frate Martino posando la mano sulle spalla del giovane, pronto a partire, reprimendo i singhiozzi, gli disse:
– Addio, figlio mio… ricordati tutto quello che ti ho insegnato. Ama e temi Dio ed agli ti benedirà.
– Padre, beneditemi e non dimenticatevi di me.
– Figlio mio, che Dio ti accompagni. Ricordati che in questo mondo non ci vedremo più e che se mi vedrai, dubiterai di avermi visto.
Juan non comprese il senso della frase e si avviò lentamente alla nave.
La profezia di Martino si compì 20 anni dopo. Una sera dal 1660, quando stava giocando col suo bambino, Juan Vasquez udì il suo nome, per due volte e in tono imperativo. “Juancho, Juancho! Vasquez incontrò due frati domenicani ed uno di loro tanto scuro di pelle come lo era stato Frate Martino.
Chiese loro gentilmente: Siete voi che mi avete chiamato?
– Juan Vasquez, non mi conosci?
Juan rimase perplesso, arretrò di qualche passo. “Sto sognando?”
Frate Martino non aveva il viso dolce e amabile di un tempo e le sue parole erano dure: “Perché sai stato così pigro e non hai detto tutto quello che sapevi di me e non hai dichiarato tutto quello che hai visto durante la mia vita, durante i 4 anni che mi hai accompagnato su questa terra?”.
Juan Velasquez ricordò allora che in quello stesso giorno del 1660, era stato iniziato a Lima il processo di beatificazione di Frate Martin de Porras. Gli dispiacque molto. Però, nonostante ciò, dimenticò l’incarico.
Undici anni più tardi, entrando nella Chiesa di San Domenico, gli venne incontro Frate Martino e gli ricordò, con un tono che non ammetteva ritardi, ciò che gli aveva detto undici anni prima:
– Juancho, perchè sei stato tanto ostinato e non hai portato a compimento l’incarico? Racconta senza indugio tutto quello che sai di me.
In tal modo nacque la prima biografia di Frate Martino de Porres, cioè quando Juan Vasquez narrò tutti i fatti meravigliosi cui assisté tutti i 4 anni trascorsi con il Frate nel convento.
Egli fu un testimonio prezioso che, insieme agli altri che avevano trascorso la vita religiosa con lui, formarono il processo di beatificazione che fu inviato a Roma per la definitiva glorificazione dell’umile frate laico domenicano.
Uno dei più grandi amici del nostro Santo fu Don Juan de Figueroa.
Una volta, malato, disse a Frate Martino: “Promettimi, fratello, che quando sarai sul punto di morire, non ti dimenticherai di pregare per me”.
– Non potrà essere, gli rispose Frate Martino, perché io morirò prima di voi.
E così fu infatti. Un’altra volta, questo stesso amico conversando nella cella di Frate Martino, gli disse che aveva l’intenzione di costruire una cappella nella Chiesa delle Grazie, per venire seppellito qui alla Sua morte.
– Non vi preoccupate di questo, gli disse Frate Martino, perchè dove ci troviamo ora saremo interrati tutti e due, uno a fianco dell’altro”.
Don Juan de Figueroa non prose sul serio le parole del mulatto, però 16 anni dopo la morte di Frate Martino, il priore del convento decise di trasformare la cella del Frate in una cappella e senza sapere nulla della conversazione tra le due persone chiese al Sig. Figueroa di accettare di essere padrino della cappella.
Emozionato Don Juan ricordò le parole di Martino e quando, pochi anni dopo morì, lo seppellirono nella stessa cappella che aveva costruito, adempiendosi così la profezia che Martino aveva fatto vent’anni prima.
Capitolo 14 – LA SUA MORTE
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Ben presto egli fu costretto ad entrare in quell’infermeria nella quale per tanti anni aveva prestato servizio. Sapeva che quello era il segnale della sua dipartita.
“Questa è la fine della mia peregrinazione, morirò di questa infermità e nessuna medicina mi gioverà”, disse.
E così fu in effetti, perché risultarono inutili tutti i rimedi che gli furono dati.
Fu molto duro per lui abbandonare tutti gli infelici, i bambini, gli schiavi e gli orfani che aveva raccolto nell’ospizio di Santa Cruz.
Martino andava con la sua mente alla città di Lima e non sapeva a chi avrebbe affidato le sue mille necessità.
Era triste perché aveva amato molto i poveri che ricevevano, così come i ricchi che davano con generosità.
Vedendo che i medici non potevano fare nulla per lui, il Priore del convento andò al capezzale dell’infermo e gli chiese se i fatti che si raccontavano di lui erano veri.
– Per Amore di Dio, non fatemi questa domanda! Se è volontà di Dio, state certo che queste cose si sapranno a suo tempo.
Allora il Padre Priore sospese l’interrogatorio e con grandissima solennità gli somministrò l’Estrema Unzione.
La notizia della sua gravità corse rapida per le vie di Lima, anche il Viceré, l’Arcivescovo, le autorità, la nobiltà e tutti coloro ai quali aveva dedicato parte della sua vita, vennero a chiedere notizie del Santo, a baciargli la mano a lui che si autodefiniva “un povero mulatto”.
Era il 3 novembre del 1639, quando Frate Martino de Porres y Velazquez, oggi San Martino de Porres, per canonizzazione di Sua Santità S. Giovanni XXIII chiuse gli occhi per non aprirli se non in cielo.
Alla sua morte sfilarono al suo capezzale tutte le autorità dei Vicereame, come pure tutti gli innumerevoli poveri per i quali aveva sempre avuto un sorriso, una parola di conforto, una promessa.
Il giorno dopo vennero celebrate le esequie.
Il feretro, coperto di fiori, fu accompagnato dagli uomini del Viceré, dell’Arcivescovo del Messico, del Vescovo di Cuzco e del rappresentante del Re, fino alla clausura del convento dove ricevette la sepoltura.
Da quel momento migliaia di persone vanno a prostrarsi ai piedi del Sepolcro per chiedere grazie e, per sua intercessione, quasi sempre sono ascoltate da Dio. Raccomandiamoci quindi all’Angelo protettore di Lima che, avendo dedicato la sua vita al bene corporale e spirituale dei suoi fratelli, con una carità tanto feconda e comprensiva per i bisogni dei poveri, siamo certi che non potrà non dispensarci i suoi favori se ci rivolgeremo a lui come facevano un tempo i suoi fratelli di Lima.
Chiediamo a San Martino de Porres l’assoluzione e il rimedio dei nostri problemi, sicuri che troveremo in lui, finché siamo in terra, la grazia richiesta e un giorno la gloria dal cielo.
Oh buon Fratello Martino, ti rivolgiamo le nostre lacrime e la speranza di essere uditi da Dio come lo furono i tuoi fratelli durante la tua vita.
Capitolo 15 – ALCUNI MIRACOLI APPROVATI DA PAPA GIOVANNI XIII CHE SERVIRONO PER LA SUA CANONIZZAZIONE
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Una signora di 87 anni soffriva di occlusione intestinale, ribelle a tutti i trattamenti e che non poteva essere operata a causa dell’età avanzata.
Una figlia che viveva a Buenos Aires, fin dal primo momento si rivolse a Frate Martino de Porres. In quella stessa mattina in cui si recò a Asuncion, l’inferma guarì completamente e il male sparì. Questo fatto avvenne ad Asuncion.
Un altro fatto avvenne nel 1956 nelle città di Tenerife (Isole Canarie).
Un bambino di nome Antonio Cabrera Perez, di 4 anni, fu colpito al piede da un blocco di cemento di 30 kg che praticamente glielo troncò.
Lo stato del piccolo ferito era gravissimo, anche perché si stava delineando uno stato di cancrena che nessun medico dei presenti riusciva a debellare.
Secondo il giudizio di 4 esperti, si rendeva necessaria l’amputazione.
La famiglia rivolse una preghiera a Frate Martino de Porres applicando al piede un’immagine del beato. Tutti rimasero stupefatti e il miracolo fu evidente. Disparve subito la cancrena e iniziò la cicatrizzazione.
Capitolo 16 – LA CANONIZZAZIONE DI FRATE MARTINO
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Il popolo peruviano visse momenti di indescrivibile emozione quando venne canonizzato a Roma dal Pontefice Giovanni XXIII l’umile Frate Martino de Porres.
Le gerarchie ecclesiastiche e l’ordine domenicano del Perù unirono i loro sforzi per celebrare il grande avvenimento con la massima solennità.
Nessuno fino ad allora aveva portato il nome del Perù sulle labbra di tanta gente; una folla di diverse razze, lingua e continente si recò alla Basilica di S. Pietro per vedere nella gloria del Bernini l’amico dei poveri.
Il 6 maggio del 1962 Roma diede l’impressione di esser sorpresa dall’affluenza di tanti pellegrini martiniani che giorno dopo giorno erano arrivati da tutte le parti del mondo per onorare frate Martino.
Non fu compito facile ai 2.500 delegati del Perù aprirsi un varco nella imponente Basilica affollata da migliaia di pellegrini venuti da tutti gli angoli della terra.
La Basilica era adorna delle decorazioni per le festività solenni e sopra ogni cosa si distaccavano i grandi quadri che, ai lati dell’altare della Confessione, descrivevano i recenti miracoli del nostro Santo, compiuti nelle isole Canarie, Spagna e nella Repubblica dei Paraguay.
Alle ore 8.30 del mattino cominciò l’imponente cerimonia con una processione dei gruppi rappresentativi di tutti gli ordini religiosi con il gigantesco stendardo di Frate Martino scortato dai frati domenicani nati in Africa. Seguiva poi la Corte Pontificia, i dignitari ecclesiastici, un buon numero di Vescovi e Arcivescovi.
Infine apparve il Santo Padre con i paramenti pontificali, sulla Sedia Gestatoria scortata dagli ufficiali della guardia svizzera.
Non appena il Sommo Pontefice si fu insediato sul trono, il procuratore dalla causa, Cardinale Larraona, cominciò a dar lettura della solenne petizione per la canonizzazione del nuovo beato.
Poi, Sua Santità Giovanni XXIII, con la pienezza dei suoi poteri di Pastore del gregge cristiano pronunciò a chiara voce, in un grande silenzio di folla, la formula della canonizzazione con la quale elevava Frate Martino alla Gloria degli Altari.
“Noi, dopo matura riflessione ed aver implorato diverse volte l’aiuto Divino e con il conforto dei nostri venerabili Cardinali, decretiamo e definiamo che il beato Martino de Porres sia Santo e come tale iscritto nel catalogo dei Santi decidendo che ne venga fatta menzione tra i Confessori il 3 novembre di ogni anno.
Nel Nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo. Amen”.
Le parole del Santo Padre furono suggellate da un incontenibile applauso di oltre 30.000 fedeli che affollavano la Chiesa, ciascuno nella propria lingua.
La superba Basilica sembrava restituire le ovazioni in echi e ripercuoterle fino al cielo in preghiere, mentre le campane di San Pietro e di tutte le Chiese di Rosa spandevano nell’aria la fausta novella del premio di Dio al suo Santo.
Intanto veniva elevata la gloria del Bernini, l’umile figura di Frate Martino.
Quello che succedeva a Roma si ripeté nelle principali città del Perù, sia pure in scala minore, nelle Chiese e nelle pubbliche piazze, ovunque non si parlava d’altro se non della canonizzazione di Frate Martino.
Migliaia di fedeli del Santo sfilarono per la città di Lima con una gioia tanto grande che mai si era vista nella capitale.
Tutti si diressero alla Basilica di S. Domenico e pazientemente attesero il loro torno per vederlo onorato tra i Santi.
La Piazza di S. Pietro di Lima, punto di concentrazione della folla, fin dalle 9 del mattino offriva uno spettacolo imponente.
Alle ore 11 del mattino tra gli evviva al Perù e a San Martino, al suono di marce delle bande militari, iniziò la più grande manifestazione civile e religiosa che la città ricordi.
45 minuti dopo il suo inizio un’immensa colonna con in testa Ministri, Senatori e Autorità di tutta le cariche civili, raggiunsero Piazza delle Armi, mentre suonavano a stormo tutte le campane, rimbombavano le salve delle artiglierie, le sirene delle navi e i clacson delle automobili, come estremo giubilo della folla.
In questo modo Dio premiò il mulatto per nascita, portabandiera della carità, con il posto più alto che ogni uomo possa avere sulla terra.
L’Amore di Dio per il prossimo lo innalzò alla Gloria degli Altari.
Capitolo 17 – PREGHIERA A FRATE MARTINO
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Umile Martino de Porres
esempio splendido di carità,
Ti veneriamo e Ti invochiamo confidenti nella Tua intercessione
presso il Padre di ogni Misericordia.
Degnati dal Trono ove sei assiso
di toglierci questi affanni che ci perseguitano:
e non permettere che rimaniamo confusi
ed è questa la Grazia che umilmente Ti chiediamo. Amen.
Oh Beato Martino,
che già dai primi anni della Tua vita
sei stato così geloso della Gloria Divina
e della salvezza delle anime…
che i Tuoi lavori e i Tuoi affanni
per i più poveri sono stati coronati
da una morte felice…
continua con la Tua cesta sempre piena…
a distribuire pane e seminare amore.
Continua ad essere il Santo dei poveri
e il sollecito infermiere di chi piange.
Insegna agli uomini egoisti
che nel mondo in cui viviamo
non c’è altra soluzione per andare avanti
di quella che Tu stesso hai dato con la Tua vita esemplare…
dando Amore a Dio e distribuendo amore.
Così sia.