Questo articolo è disponibile anche in: Italiano

L’angelo tutelare di Lima segue il suo cammino senza sorprendere nessuno, per quanto avvenissero cose straordinarie sul suo cammino.
Tutto in lui è naturale.
Tutto si svolge con tanta gentilezza e con tanta naturalezza da far pensare che questo sia l’ordine normale delle cose.
Nessuno pensò che egli fosse la causa prima di tanti rapimenti meravigliosi e prodigiosi.
Un giorno lo mandarono a comprare dello zucchero, che non si trovava da nessuna parte.
Quando rientrò, stanco per tanto cercare, incontrò il Padre Procuratore visibilmente dispiaciuto per il troppo tempo durante il quale era stato assente.
“Non sapevate che vi stavo aspettando?
– Sì, Padre, però non trovavo zucchero da nessuna parte.
– E questo pacchetto?
– Zucchero, Padre, quello che alla fine ho trovato! – e svolgendo il pacco glielo mostrò.
– Zucchero? Ma questa è una porcheria! E’ negro come te, povero mulatto, riavvolgilo subito. Non lo voglio.

– Credo che si possa sistemare la cosa, Padre.
– Sistemare? Come?
– Lavandolo Padre – e senza aspettare risposta, andò alla fontana che era al centro del chiostro e, prima che il Padre gli dicesse di non fare atti inconsulti, il mulatto aveva già svolto il pacchetto ed apparve uno zucchero bianco immacolato.
Il religioso se ne andò annichilito, senza credere ai propri occhi. A vedere Martino tanto sereno portare il pacchetto alla mensa e continuare a fare le proprie cose come se niente fosse successo si sentì umiliato dinnanzi alla grandezza di quel negro insignificante, al quale Dio aveva concesso tanto potere.

Un altro giorno giunse alla porta una donna con una creaturina fra le braccia; incontrò Frate Martino e lo supplicò: “Fratello Martino, guarda il mio bambino!”
– Che cos’ha vostro figlio? – domandò il domenicano osservando la creaturina che aveva appena 5 anni.
– È salito sul tetto della casa e di qui è caduto nel cortile e credo che si sia rotto le gambe.
– Frate Martino palpò per un pò le gambe che sembravano essere svuotate, come stracci; le lavò con acqua e vino e le avvolse accuratamente.
– Bene – le disse – ora non resta che pregare: non è niente.
Domani vostro figlio sarà completamente guarito.
E così fu infatti. Il giorno dopo il bambino giocava come se niente fosse successo.

Nel convento vi era un giovane sacerdote, molto virtuoso chiamato Frate Tomes del Rosario, che morì dopo una lunga malattia. Tutti erano pronti al seppellimento e i fratelli erano riuniti sulla porta delle cella per recitare l’ufficio dei defunti come al solito, quando entrò Frate Martino nella cella.
Fece chiudere le porte e cominciò a pregare ai piedi del crocifisso chiedendo al Salvatore di usare misericordia per questo fratello.
Poi si avvicinò al defunto e gli parlò nell’orecchio.
– Frate Tommaso!
E immediatamente quello che era un cadavere sospirò e si mosse.
A vedere questo miracolo, il portinaio che era presente non poté trattenersi ed esclamò: “Oh! Com’è generoso Iddio che ridà la vita ad un morto quando glielo chiede un suo figlio!”.
Martino ritornò e disse ai religiosi che stavano sulla porta che potevano ritornare alle loro celle, perché Frate Tommaso del Rosario aveva recuperato i sensi.
Dio dovette sentirsi estremamente compiaciuto delle opere dell’umile mulatto se ha voluto modificare a suo favore moltissime leggi di natura concedendogli doni di agilità, trasparenza, ubiquità, preveggenza e, soprattutto per aver compiuto dei miracoli.

Una volta Frate Martino mandò da un ragazzino che frequentava il convento una lettera al suo amico Frate Macias il quale salì a sua volta agli onori degli Altari.
Vedendo che la lettera non era chiusa, preso dalla curiosità, il ragazzino tolse la lettera.
Arrivato alla Recoleta, incontrò Frate Macias che lo stava aspettando, il quale gli disse: “Ragazzino, perchè hai letto la lettera? Non farlo un’altra volta perchè è un peccato”.
All’udire questo rimprovero, il ragazzino si impaurì e cominciò a indietreggiare. Però Frate Macias gli offrì delle caramelle e gli disse: “Aspetta, ti voglio dare la risposta per Frate Martino”.
Dandogli la lettera raccomandò al ragazzo: “Prendila e non leggerla”.
Il ragazzino promise, però, sul cammino di ritorno temendo che Frate Macias avesse comunicato a Frate Martino il fallo che aveva commesso, si decise ad aprire la lettera. Si sentì pienamente soddisfatto vedendo che non vi era alcuna allusione alla sua imprudenza.
Quando arrivò, Frate Martino lo guardò con serietà e gli disse: “Non ti bastava aver aperto o letto la mia lettera, ma hai anche letto quella di Frate Macias, benché egli ti avesse raccomandato di non aprirla. Perché lo hai fatto? Non essere curioso e cerca di correggere questo difetto.”
Il ragazzo se ne vergognò e anni più tardi il giovane riferì questo fatto.

Quando Frate Medina stava compiendo il noviziato era piuttosto malaticcio e piuttosto tarchiato. Per questo i suoi compagni si burlavano di lui.
Un giorno che Martino lo stava radendo, i suoi compagni gli dissero per scherzo: “Fratello Martino, rasalo bene e vediamo se quando l’avrai ben rasato non diventerà un poco più bello”.
Frate Martino replico: “Lo chiamate brutto perché lo vedete piccolo di statura, però vi assicuro che Medina sarà un buon giovane e farà onore alla nostra religione”.
Questa profezia si adempì alla lettera. Ii fratello Medina crebbe moltissimo dopo una malattia, diventando di statura normale, anzi un poco più alto. Qualche anno dopo divenne Rettore dell’università di San Marco e poi Vescovo a Uamanga.

Un novizio si tagliò un dito fin quasi a dividerselo in due parti.
Senti dolori terribili e di questo fu avvertito Martino che andò a visitarlo e gli disse:
– Che cos’è, Angelo? Perché non mi hai chiamato prima?
Scoprì la ferita e vi posò delle erbe e il giorno seguente il dito era saldato.
Qualche volta si sottraeva alle leggi della gravità e si sollevava in aria, come se ali misteriose lo trattenessero.
Nella sua vita ebbe tre Amori: Cristo crocefisso, la Vergine del Rosario e Santo Domenico de Gusman.
Uno dei luoghi dove soleva rifugiarsi il nostro Santo era la Sala Capitolare, dove vi era una bella statua del Cristo di grandezza naturale di quasi 2 metri di altezza.
Davanti a questa immagine sacra egli fu spesso sorpreso dai fratelli del convento e talora anche da persone estranee.

Durante una delle sue marce, che compiva tutti i mesi nei dintorni di Lima, con il sacco da questuante, raccogliendo da una parte e soccorrendo dall’altra, si trovò ad aiutare un ragazzo gravemente ferito, che portò all’infermeria del convento.
Nei pochi giorni che questi trascorse in convento, nacque un affetto tanto grande tra il ragazzo e il mulatto, per cui appena migliorato, il ragazzo domandò al Superiore di diventare il collaboratore di Frate Martino. La sua scarsa conoscenza della mistica religiosa gli fece compiere non pochi sforzi.
Una notte si udì a Lima una forte scossa di terremoto e, atterrito, Juan Vasquez, così si chiamava il ragazzo, corse a rifugiarsi nella cella di Frate Martino. Quale non fu il suo stupore nel vedere il mulatto, le braccia aperte, sospeso a un paio di metri dal suolo.
Atterrito, il giovane volò nelle celle degli altri religiosi per raccontare quello che aveva visto. “Ti dovrai abituare alle estasi, caro giovane”, gli dissero i compagni di Frate Martino.

Per tutti questi fatti miracolosi che avvenivano con tanta frequenza (per sua intercessione) a Lima, tutti lo veneravano provando per lui una grande riconoscenza.
Un giorno, rientrando al convento, affaticato, incontrò un vecchio ciabattino della comunità che lo stava aspettando.
– Che c’è, fratello? – chiese il Domenicano.
– Vedi come sto? – si lamentò il vecchio calzolaio che camminava strascicando i piedi e che aveva le dita della mano senza movimento a causa di un terribile reumatismo.
Frate Martino gli sorrise affettuosamente e aiutò il vecchio a sedersi su un banco della portineria.
– Mi devi curare, gli disse, altrimenti non posso lavorare.
– Bene, non ti devi preoccupare, domani potrai farlo.
– Domani? – chiese dubbioso il vecchio.
– Forse non vi siete reso conto del mio male. Non posso muovere le dita. Non hai una medicina per me?
– Sì, non è niente…, il rimedio è facile. Prese la mano inferma del calzolaio mentre con l’altra gli faceva il Segno della Croce sopra le dita gonfie. Bene, adesso sei a posto. Il negro lanciò una terribile occhiata a Frate Martino.
– E così che si cura un infermo?
– Spera, uomo, e calmati. Non sei convinto di questa cura?
– Io speravo in verità che voi mi deste un rimedio.
– Sta bene, ti accontento, però non dire nulla al Padre Priore…

Martino andò a cercare in tutti gli angoli della stanza sotto lo sguardo attento del negro.
Alla fine il calzolaio si mise a sorridere vedendo che Frate Martino stava preparando un rimedio per la sua malattia. Infatti pochi minuti dopo Martino ritornò con una benda tra le mani e un qualche cosa nell’altra, come desiderava il calzolaio. Il negro presentò la mano dolente che il mulatto bendò con somma attenzione.
– Bene, brontolone, tieniti stretta la cura. Domani potrai lavorare.
Il mattino dopo il calzolaio era completamente sollevato dal trattamento che gli aveva fatto Martino.
Si accorse che non solo poteva muovere le dita, ma che non gli facevano alcun male.
Uscì di casa allegramente e vedendo la mano bendata si disse: “Meraviglioso, voglio vedere quale medicamento mi ha applicato Frate Martino.
Si tolse la benda e, con somma sorpresa, si accorse che gli era stato applicato un pezzo di suola.
Il vecchio comprese il miracolo che Frate Martino aveva compiuto per togliergli il dolore.

Con il passar degli anni la bontà dell’angelico mulatto non aveva più limiti e viene confermata da quanto stiamo per narrare.
Stava conversando in portineria quando lo venne a cercare il Dottor Villaroel.
– Che piacere vederla, Frate Martino! Mi sento in debito di venirla a visitare e a ringraziarla per la cura che mi ha dato.
Il portinaio rimase perplesso perchè sapeva che il Dottor Villaroel, pochi giorni prima, era stato dato per spacciato dai medici. Come era possibile che dopo soli 3 giorni potesse essere lì, e che stesse parlando tranquillamente con Frate Martino?
La ragione la suppose ben presto ascoltando la conversazione con il suo amico.
Quando il Dettar Villaroel era stato quasi in agonia, era entrato in casa Frate Martino e, dirigendosi lentamente al capezzale del suo letto, gli aveva detto: “Andiamo, Dottore, non mi dirà che un medico come lei non riesce a curarsi da solo!”
Il Dottor Villaroel cercò di ridere, però non vi riuscì. “Animo, aggiunse il visitatore, di questa malattia non morirà”.
Poi rivoltosi alla padrona di casa, le disse: “Quello che ha vostro marito è appetito: credo che dovreste dargli un amaretto”.
I familiari, all’udire questo, rimasero stupiti.
Scese un silenzio impressionante sulla casa.

Comunque la Signora si decise e portò la bibita richiesta.
Il fraticello prese la coppa e avvicinandosi all’infermo gli disse: “E’ certo, Dottore, che siamo nati per morire, però non per mancanza di alimento, ma solo per volontà di Dio; quindi, beva questa bibita e poi si sentirà molto meglio”. Poi sollevando la testa del moribondo, lo aiutò a bere la bibita.
– Bene, Dottore, lunedì prossimo, se Dio vorrà verrà al convento a rendermi la visita.
– La moglie non poté fare a meglio di dirgli: “Però oggi è sabato, Fratello Martino”.
– Sì, sorella, lo so bene. Però lunedì prossimo vostro marito sarà guarito.
E, giunto il lunedì, ecco il Dottor Villaroel che stava parlando tranquillamente con Frate Martino, mentre Frate Barragan, il portinaio non cessava di scuotere la testa.

Un vivace novizio, che voleva approfittarsi di una misteriosa influenza che circolava nella Ciudad de los Reyes, per andare alcuni giorni in vacanza da suo padre, si finse ammalato e ottenne dal medico del convento, che era amico di casa, un certificato con il quale si presentò al Padre Priore.
“Il medico dice che ho bisogno di un certo periodo di riposo nella mia casa – gli disse – perché mi sento debole. Che faccio, Padre?”.
Dillo al Padre Maestro.
Questi non fece difficoltà a dargli il permesso, avendolo già concesso sia il medico che il Priore, quando questi, molto allegro, stava dirigendosi verso la portineria gli sbarrò il passo Fratello Martino per dirgli in tono severo: “Figlio non andare a casa”
– Perché?
– Perché non sei malato.
– Che ne sapete voi?
– Sì che lo so e tu sai di avere ingannato il medico e il Padre Priore.
– E che cosa importa a voi, vecchio mulatto?
E si affrettò in direzione della portineria.
Frate Martino lo guardò con compassione e gli disse:
– Vai figlio mio, senza essere malato, però fra breve ti ripor­teranno al convento per sempre.
Frasi profetiche con un contenuto doloroso.
Il novizio se ne andò senza altre parole e 8 giorni più tardi lo riportarono cadavere per interrarlo nel convento di Santo Domingo.

La carità, dice San Paolo, è ingegnosa, però per tanto che Frate Martino si ingegnasse, non poteva arrivare da tutte le parti in quel crudo inverno del 1598.
La colpa era dell’influenza. Non meno di 60 religiosi giacevano malati nelle loro celle, con una febbre altissima.
La cella di Frate Martino era un arsenale di erbe e di pozioni. Erano molti coloro che gli chiedevano rimedi e doveva provvedere da solo.
Andava e veniva da una cella all’altra di continuo.
D’improvviso, un giovane novizio, Frate Vicente Ferré, delirando per la febbre alta si lasciò scappare un desiderio che sapeva non avrebbe potuto essere soddisfatto: “Oh, Frate Martino, se mi poteste dare una camicia per cambiarmi!” – e chiuse gli occhi rassegnato alla sua sorte. Ma li aprì un momento dopo all’udire che qualcuno camminava nella sua cella. Quando fu sul punto di gridare riconobbe Frate Martino che portava tra le mani un braciere e, ripiegata sul braccio, una camicia pulita.
Il novizio muto per lo stupore, non riuscendo a credere ai propri occhi, vide il suo angelico infermiere svolgere i suoi compiti: ritira la coperta, tonaca, le mette tra due sedie, sopra il braciere, e, con somma delicatezza, come se fosse una madre, gli toglie la camicia intrisa di sudore e gliela sostituisce con quella pulita.
Il novizio sapeva che la cella era chiusa,

(Il novizio sapeva che la cella era chiusa), che il Padre Maestro teneva le chiavi, di non aver detto niente a nessuno, che la sua porta restava sempre chiusa e tuttavia di fronte a lui vi era Frate Martino.
– Sto sognando?
– No.
Si toccò e notò che i suoi panni erano asciutti a che l’ambiente era impregnato di suffumigi. Alla fine gli fece una domanda: “Frate Martino, come siete entrato qui?
– Calma, ragazzo perché ti stai a preoccupare di ciò?
– Ma se tutto era chiuso, come siete riuscito ad entrare?
– Non essere curioso e non chiedere cose che non ti interessano. Adesso dormi.
Mentre Martino raccoglie il braciere e sistema le sedie, il novizio gli chiede: “Frate Martino, morirò?”
– Ragazzo, vuoi morire?
– No.
– Allora non morirai. Ciao.
Senza sentir rumore di porte, né di serrature, Frate Martino non era più nella cella.

Il giorno dopo Frate Vicente Ferré stava bene e si alzò senza nemmeno una linea di febbre. E il miracolo si ripeté notte dopo notte, tutte le volte che un infermo lo chiamava.
Un’altra sera fu Migue1 de Villarrubia che desiderava mangiare una minestra e non sapeva come fare. Di fronte a lui si trovò Frate Martino con la scodella che gli diceva: “Va, ragazzo, mangia la tua minestra e togliti questo desiderio”.

Un’altra volta Padre Juan sente una sete tormentosa.
“Oh, Frate Martino, esclama, se mi portassi una brocca di acqua!” – e un istante dopo appare Martino de Porres con la desiderata brocca.
Un’altra volta fu Padre Pedro de los Pios: “Oh, Frate Martino, viene qua!”, e vicino a lui era il Santo infermiere che gli chiese: “Che vuoi? Figlio mio?
– “un’arancia fratello”.
ed un’arancia appare nella mano miracolosa del frate.

I continui miracoli giungono alle orecchie del Frate Maestro, Frate Adres Lison che vuole controllare se per caso il domenicano non abbia una chiave che gli consenta di aprire le porte del noviziato.
Una delle tante notti lo sorprende nella cella di Frate Francisco Velazco.
Silenziosamente si avvicina fino alla porta e si mette di guardia, aspettando che compaia.
Passano i minuti, passa più di un’ora.
Come mai Padre Martino ci mette tanto tempo?
In punta di piedi arriva fino alla porta del novizio infermo, la apre a poco a poco e, che vede? All’interno non vi era il frate infermiere.
Allora il Padre Maestro si ritira ammirato per Santità di quell’umile fratello, per il quale non esistevano né porte né serrature.

Però il miracolo più famoso fu la guarigione dell’Arcivescovo del Messico.
Per tutta Lima correva voce che l’Arcivescovo forse in punto di morte e che i migliori medici ormai non sapevano più che fare.
Conosciuta questa notizia, l’Arcivescovo mandò a chiamare Frate Martino tramite il Priore del convento. Il Superiore gli ordinò di andare subito ai palazzo arcivescovile.
– Non mi obblighi ad andare, disse Frate Martino al Superiore. Non sapete che sono un povero negro che non merita questo onore?
Il Superiore usò tutta la sua autorità per convincerlo a quella visita ed anche per fargli indossare un abito nuovo che aveva mandato a prendere.
Il portinaio, vedendolo passare così elegante, gli disse in tono scherzoso:
“Oh Frate Martino, quanto siete elegante!’
– Frate Barragan, replicò Martino, con questo abito mi sotterreranno. E così fu infatti perché di lì a poche settimane Frate Martino morì e lo seppellirono con quell’abito.

I medici dell’Arcivescovo, a vederlo entrare nel palazzo pensarono che egli fosse un medicone.
Ma l’Arcivescovo, riconosciutolo immediatamente, fece un segno e gli disse: “Avvicinatevi Frate Martino, datemi la mano”.
Il mulatto rimase muto.
“Non mi avete sentito? Desidero che mettiate la vostra mano sul mio costato, dove sento tanto dolore”.
Martin de Porres alzò lentamente la mano, la pose sul costato, come aveva richiesto l’Arcivescovo, che immediatamente si sentì meglio.
“Frate Martino, adesso che avete curato il mio fianco, ritornerò subito al Messico, gli disse il Capo della Chiesa Azteca.
– Grazie, seguitemi con le vostre preghiere”.
Infatti, poco tempo dopo, l’Arcivescovo lasciò la camera guarito e ritornò alla sua diocesi.

Non possiamo concludere queste pagine senza parlare dell’amore che San Martino de Porres y Velazcuez provò per gli animali, riuscendo ad armonizzare istinti diversi che nella medesima natura si trovano con manifestazioni opposte.
Nella cantina del convento vi erano un gatto e un cane ai quali portava tutti i giorni un poco di cibo.
Dato che ciascuno cercava di far valere il diritto del più forte, come è comune in tutti gli animali, un certo giorno i due animali cominciarono a minacciarsi, a ringhiare, a brontolare.
Erano già disposti l’uno contro l’altro quando li vide Martino:
“Che cosa sono queste cose? Non si fanno tra fratelli! Se chiedete da mangiare dovete essere in pace con Dio e con i vostri simili. E poi nello stesso piatto, come fatto tutti i poveri”.
Cessarono per incanto le dispute tra gli animali che si misero a mangiare da buoni amici nello stesso piatto.

Il fatto curioso fu che nei giorni seguenti spuntò il muso di un topo.
Al vederlo, gli disse: “Fratello topo avvicinati con fiducia e goditi anche tu di questo ben di Dio che si trova per questi buoni amici”.
Il topo non se lo fece ripetere due volte e occupò il suo posto tra il gatto e il cane.
Da quel giorno, moltissimi religiosi del convento venivano a veder mangiare in un sol piatto il cane, il gatto e il topo, un prodigio di San Martino, che fu uno degli spunti delle cronache più suggestive di quell’epoca.

Una volta giunse alle sue orecchie un lamento di un cane che sembrava provenire dalla porta.
Corse e vide uno spettacolo estremamente lamentevole.
Due negri giganteschi stavano ammazzando a randellate un povero cane. “Santo Dio! Questo è il cane della comunità, protestò il fraticello – che male vi ha fatto?”
– Il procuratore ci ha ordinato di ucciderlo – risposero i negri.
– Ma è una cosa inumana!
Quando pero arrivò Frate Martino, il cane era già morto. I negri osservavano un po’ perplessi Frate Martino e meditavano di seppellire il cadavere vicino ad un albero.
– Non seppellitelo – disse – portatelo alla mia cella. E si recò immediatamente a parlare al Procuratore.
Il religioso gli disse che il cane era malato e che non poteva essere guarito.
– No, Padre, rispose Martino – queste non sono ragioni per tanta crudeltà.
– Qualche volta… quando non vi è rimedio…
– No, vi è un rimedio… domani lo vedremo – e se ne tornò a grandi passi.
Il Padre procuratore rimase pensoso e raccontò quanto era successo agli altri Padri.
Il mattino dopo tutta la comunità rimase sorpresa a vedere che Frate Martino dava da mangiare al cane che il giorno prima era stato ammazzato dai negri. Era il medesimo cane, ringiovanito, che scodinzolava gioiosamente per dimostrare la sua gratitudine al mulatto.

In un’altra occasione, incontrò una mula alla periferia della città, caduta al suolo e con una zampa rotta.
– Che fai qui creatura di Dio. Via alzati!
La mula obbedì all’ordine, si alzò con tutta agilità, completamente guarita.
Le diede dell’erba che vi era lì accanto e la portò a San Domenico, dove lavorò nell’orto per molti anni.

La carità singolare, eccezionale dell’Angelo tutelare di Lima era tanto miracolosa da non poter vedere soffrire gli animali.
Sua sorella Juana aveva contratto matrimonio con un uomo molto ricco e di buon cuore, che si era costruito una grande casa nel miglior quartiere residenziale di Lisa. Martino approfitto di questa occasione per aiutare tutti i poveri animali che trovava abbandonati nella città. A tal fine chiese a sua sorella un locale e non passava giorno che non vi portasse animali infermi, maltrattati o vecchi che curava con grande cura e al quali procurava da mangiare.

Finché si trattò di un solo locale, Juana non disse nulla, ma quanto Juana vide che gli animali riempivano la casa con il loro lezzo, lo disse al fratello, ingiungendogli di non portarne più.
– Lo dici perché ti insudiciano la casa?
– Sì, è vero. Questo è il motivo principale.
– Va bene. Il rimedio è facile. Vado a rimproverare quei maleducati e vedremo come si comporteranno.
E come se fosse stata la cosa più naturale del mondo li chiamò:
– Venite tutti! E in pochi istanti la legione di animali fu intorno al fratello mulatto, mentre la giovane signore rimase perplessa e sconfitta.
Frate Martino guardò tutti gli animali cha lo seguirono obbedienti e disse loro con garbo:
– Vi rendete conto di come riducete la casa e come ricambiate il bene che vi viene fatto?
Tutti tenevano gli occhi fissi su di lui che parlava.
Sono molto malcontento di voi. E’ chiaro che avete delle necessità da soddisfare, però per queste cose dovete andare per la strada e non entrare nelle stanze che non sono a voi riservate.
Juana confessò che da quel giorno poté tenere pulita la casa senza che gli animali che l’eroica carità di Martino le portava fossero per lei un cruccio.

Un giorno camminava rapidamente per il chiostro del convento, quando sentì dei colpi ripetuti che turbavano la pace del convento.
Sembrava che venissero dalla Sagrestia e si diresse in quella direzione.
– Maledetti animali! Gridava Frate Bias
– Che sta succedendo, fratello? – chiese Martino.
– Un’altra volta i topi?
Sì un’altra volta. Però giuro che voglio farla finita con i topi anche se dovessi comprare tutto il veleno che vi è a Lima.
– Poveretti. Non fatelo. Io conosco un posto dove potrebbero stare senza molestare nessuno.
– Mi vorreste far credere che potreste fare una cosa del genere?
– Con la grazia di Dio proverò.

Il Sagrestano scoprì in quel preciso momento un topino che faceva sporgere il muso da una fessura dell’armadio.
Indicatolo a Frate Martino con un movimento del capo, questi levò la voce e disse: “In nome di Dio, creatura cara, ti mando a cercare tutti i tuoi fratelli, perché me li porti qui.
Il piccolo roditore non si fece ripetere due volte l’ordine e sparì nelle fessure.
Pochi minuti dopo, il Sagrestano quasi svenne nel vedere che comparivano da tutti gli angoli dei topi fino a formare una vera legione che si raggruppò ai piedi di Frate Martino.
Bene, disse questi, mi fa piacere come obbedite a Dio. Ho detto a vostro fratello che fate del male, mangiando queste cose che il Signore ci ha dato. Bisogna mettere fine a questo sopruso. Quindi, a partire da oggi, vivrete in altri luoghi che ho preparato per voi e dove non vi mancherà nulla. Venite con me.
Sotto gli occhi attoniti del Sagrestano i roditori si misero ordinatamente entro un cassone che stava al suolo. Se lo caricò e lo portò in un campo.
Questa sarà d’ora in poi la vostra casa, disse loro e qui troverete cibo che non vi verrà mai a mancare.
Emozionato, Frate Blas, per quello che aveva visto, si fece coraggio e disse: “Grazie Frate Martino, pregherò Dio perché vi premi per tanta carità”.
Da quel momento non si vide più un topo in tutta la Sagrestia.