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Quesito

Buongiorno,
ho trovato per caso (…caso?) la sua rubrica all’inizio di questo mese ed ho iniziato a seguire con interesse la corrispondenza pubblicata, nonché a spulciare in archivio quando ho tempo, grato che qualcuno affronti queste tematiche in un modo netto, ma non freddo e spietato – bensì con l’abbraccio di cui chiunque ha bisogno. Di questo la ringrazio moltissimo (anche i suoi collaboratori) per il vostro servizio.
Mi trovo a scriverle per una questione che mi preme, ma non so se abbia già risposto a questa problematica in qualche lettera – sono veramente molte da controllare! Per cui spero mi scuserà se ha già trattato la cosa in precedenza.
La mia domanda è: come posso diventare più consapevole di stare facendo del male a qualcUno (Gesù) quando commetto peccato?
Perchè spesso mi trovo in una condizione per cui riconosco di aver commesso dei peccati, ma non avverto una partecipazione accorata, un pentimento che nasca dal cuore e non solo dal sapere di avere infranto una legge. Come posso sentire più concretamente, essere più attento, in modo da essere sempre più consapevole di stare inchiodando Gesù ancora e ancora ogni volta che commetto peccato?
Non in modo figurato, ma vorrei avere la stessa consapevolezza di quando mi rendo immediatamente conto del male che faccio alle persone intorno a me.
Mi spiace molto non essere capace di accorato e sentito pentimento, piuttosto che consapevole del peccato e basta, specie quando vado a confessarmi.
Spero di essermi spiegato, anche se ho affastellato un po’ di frasi nel tentativo di limare il concetto…
Se la ritiene utile anche ad altri può pubblicare la domanda sul sito!
La ringrazio in anticipo per il tempo che vorrà dedicarmi, la ricorderò in una preghiera questa sera.


Risposta del sacerdote

Carissimo,
1. sono contento che tu sia capitato anche nel nostro sito e che abbia potuto ricevere luce e forza dal nostro lavoro.
La domanda che mi poni ha già trovato risposta nella nostra corrispondenza, ma sono contento di tornar di nuovo sull’argomento, che è di grande importanza.
In pratica mi chiedi come si fa a sentire dolore per i propri peccati, soprattutto dolore per aver offeso il Signore e averlo di nuovo crocifisso, come dice la lettera agli ebrei.
La domanda è pertinente perché istintivamente proviamo dolore, e anche sensibilmente, quando ci capita di far del male anche involontariamente, mentre invece non lo proviamo quando offendiamo Nostro Signore.

2. A questo proposito bisogna dire due cose.
La prima: noi proviamo un dolore sensibile e anche forte per i mali che vediamo e che sono a portata di mano.
La nostra sensibilità ne è toccata direttamente,
Quando invece i mali non li vediamo, pur sapendo che sono gravi e tragici, il coinvolgimento emotivo è più debole e talvolta addirittura nullo.
Ad esempio: sappiamo che tante persone in questo momento soffrono per le più svariate malattie e che si stanno approssimando alla morte.
Di altre sappiamo che sono coinvolte in incidenti stradali, oppure che sono profughe, derubate di tutti i loro beni, ecc…
Questi mali, pur sapendo che sono gravissimi, sotto il profilo emotivo ci toccano poco, perché non li vediamo e queste persone non le conosciamo.
Allora la prima cosa da dire è questa: non proviamo dolore sensibile per i peccati che commettiamo perché Gesù Cristo non lo vediamo con i nostri occhi, non lo tocchiamo con le nostre mani, ecc…
Ce ne dispiace, anzi sappiamo che lo crocifiggono di nuovo, ma la crocifissione non la vediamo e non l’abbiamo mai vista.
Per questo i teologi dicono che il dolore dei nostri peccato deve essere sommo, sì, ma poi aggiungono un avverbio in latino: “appretiave”, e cioè nella stima o nella gerarchia dei valori. Il che significa: sappiamo di aver fatto un grande male, siamo decisi di non farlo più, anche se il coinvolgimento emotivo è poco.
Ma questo coinvolgimento emotivo non è richiesto.
Pertanto si richiede che il dolore sia “appretiave sommo”, anche se non è “intensive sommo” (sommo nel coinvolgimento emotivo).

3. Ma c’è una seconda cosa da osservare.
Il dolore di peccati non è come il dolore che si prova per aver causato un incidente stradale.
Questo dolore nasce dalla nostra sensibilità e dipende tutto da noi.
Il dolore dei peccati invece è un dolore che non parte da noi, ma da Dio.
È un dolore soprannaturale, infuso da Dio nella nostra anima e ha la capacità, se è perfetto, di ricongiungerci con Dio soprannaturalmente conosciuto e amato.
Ho detto infuso: ciò sta a dire che Dio quando infonde in noi il dolore dei peccati ci raccoglie come ha fatto il buon samaritano con quel malcapitato che aveva trovato mezzo morto sulla strada. Ci raccoglie, ci rimette in sesto, ci fa sentire il dolore di quello che abbiamo perso e di quello che abbiamo fatto,

4. Inizialmente questo dolore può essere anche un dolore motivato dal timore di perdersi eternamente, perché ci si trova privi della grazia ed esposti all’inferno. Oppure può essere un timore che sopravviene per la consapevolezza di non essere protetti dalla grazia, la quale per noi è uno scudo e una difesa dalle insidie del demonio e dei suoi collaboratori.
Questo timore, che non congiunge ancora perfettamente a Dio, viene chiamato dai teologi “attrizione”.
È anch’esso un dolore infuso, di ordine soprannaturale. Già sufficiente per accostarsi alla confessione.
Si tratta di grazie (pertanto infuse) attuali, attraverso le quali Dio ci dispone al pentimento più vero e perfetto.

5. Questo pentimento vero e perfetto si chiama “contrizione” o “contrizione perfetta”.
Dio lo infonde molto spesso anche prima della confessione.
La contrizione perfetta è motivata da una triplice consapevolezza:
primo, di aver offeso il Signore, infinitamente buono e  degno di essere amato sopra ogni cosa,
secondo, di aver estromesso Cristo dalla nostra vita crocifiggendolo di nuovo,
terzo, di aver impoverito e danneggiato la Chiesa.

6. Questa contrizione, proprio perché è perfetta e accompagnata dalla carità, riporta in grazia di Dio anche prima della confessione, non senza però il suo desiderio almeno implicito.
Non autorizza ancora a fare la Santa Comunione, perché il processo di pentimento è solo cominciato e non ancora perfezionato. Un po’ come se uno, appena commesso un incidente stradale, inizia a domandare perdono per il male che ha causato. Ma  la sua azione non si ferma e non può fermarsi qui, ma deve fare anche tutto quello che è richiesto perché l’altro sia reintegrato perfettamente nei beni che gli sono stati lesi.
Nel nostro caso, tutto questo avviene nella Confessione, dove il sacerdote dà l’assoluzione, e cioè versa il sangue di Cristo sopra le ferite dell’anima, lava le colpe e reintegra il soggetto e la Chiesa nei loro beni di ordine soprannaturale.

7. Proprio perché questo dolore è effetto dell’azione misericordiosa del Signore, non dipende solo da noi e non parte solo da noi.
Vi possiamo collaborare, possiamo disporci a riceverlo con la preghiera e con le opere di penitenza.
Lo possiamo pertanto domandare. Anzi, dobbiamo domandarlo.
Ma non è in nostro potere darcelo.
Abbiamo solo il potere di riceverlo.

8. Ciò significa che dobbiamo perseverare nella preghiera perché Dio ci dia il vero pentimento dei nostri peccati.
Anzi che ci dia lo stesso dispiacere che Cristo sulla croce ha provato per i specifici peccati che abbiamo commesso e che adesso andiamo a confessare.
Per questo dobbiamo dire come Davide nel Salmo Miserere: “Crea in me o Dio un cuore puro” (Sal 51,12).
Oppure anche recitare il Santo Rosario o i Salmi penitenziali perché il Signore ci conceda un dolore più perfetto dei nostri peccati.

9. Anzi, come dice San Tommaso, dobbiamo fare penitenza ed essere dispiaciuti dei peccati commessi per tutta la vita.
Ecco il suo preciso pensiero: “Esistono due tipi di penitenza: l’interna e l’esterna.
La penitenza interiore consiste nel dolersi per il peccato commesso.
E questa penitenza deve durare fino al termine della vita.
Uno cioè deve aver sempre il dispiacere di aver peccato: se infatti ne provasse piacere, per ciò stesso commetterebbe peccato, e perderebbe il frutto del perdono…
La penitenza esterna invece mostra i segni esterni del dolore, fa confessare oralmente i propri peccati al sacerdote che deve assolvere, e ne accetta la soddisfazione secondo il di lui arbitrio. E tale penitenza non è necessario che duri fino al termine della vita, ma fino a un dato tempo determinato secondo la gravità della colpa (Somma teologica, III, 84,8).

10. E ancora: “Due sono le maniere di far penitenza: attuale ed abituale.
In maniera attuale certo è impossibile che l’uomo faccia penitenza di continuo; poiché l’atto del penitente, sia interno che esterno, deve necessariamente essere interrotto almeno dal sonno e dalle altre necessità corporali.
L’altra maniera di far penitenza è quella abituale. E in tal senso la penitenza deve essere continua: sia perché uno non deve mai fare un atto contrario alla penitenza, togliendo così l’abituale sua disposizione di penitente; sia perché deve sempre persistere nel proposito di rammaricarsi dei peccati commessi” (Somma teologica, III, 84,9).

11. Chiediamo dunque al Signore con la preghiera e con le opere di penitenza perché ci dia la grazia di un dolore sempre più forte e più perfetto dei nostri peccati.
Anche questo dolore è dono suo.
E proprio perché viene da Lui è capace di congiungerci a Lui mediante la grazia.

Ti ricordo nella preghiera e ti benedico.
Padre Angelo