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Quesito

Mi scusi padre Angelo, sono sempre don C..
Intanto grazie per il suo scritto (sul capitolo 8° di Amoris laetitia, n.d.r.) che fra tutti quelli letti finora (e ce ne sono già tantissimi) è il più chiaro e scientifico.
Solo un paio di domande:
Al n. 7 lei scrive che se queste fantomatiche "intimità" andassero qualche volta oltre… Allora è chiaro che si dovrà ricorrere alla confessione. Ma allora, se non viene "derubricato" il peccato di adulterio fra i risposati impossibilitati a tornare indietro, viene forse "derubricato" il santo proposito che occorre affinché la confessione sia valida? Qui c’è proprio da arrampicarsi sugli specchi…
Al n. 10 infine lei spiega magistralmente quanto per intero insegna san Tommaso sulla fatica di esercitare sempre gli atti virtuosi senza prenderne gli abiti relativi. Orbene, quando scrive che se un singolo atto contrario ad una virtù acquisita non fa perdere tale virtù, si intende comunque un atto veniale? Cioè un peccato veniale? Perché se fosse un semplice non esercitare la virtù sarebbe indifferente (qui forse manca una parola, perché non si capisce bene; n.d.r.). Se fosse un atto grave, allora sarebbe peccato mortale e quindi distruggerebbe tutto. No?
Per quanto riguarda la lussuria che per un suo atto qualsiasi fa perdere sempre e comunque la sua virtù contraria della castità, questo perché non si ammette parvità di materia in questo campo o perché anche un atto/peccato veniale di lussuria distrugge comunque la virtù acquisita della castità?
Grazie scusi
Don C.


Risposta del sacerdote

Caro don C.,
1. la tua mail è stata sommersa nel frattempo da tante altre.
Seguendo l’ordine cronologico sono arrivato adesso a quelle di maggio e ho ritrovato la tua.

2. Ebbene, alla prima domanda certamente si deve dire che non c’è vero pentimento se non c’è nello stesso tempo il proposito di non ricadere.
Il proposito per essere vero deve mettere in atto anche alcune misure precauzionali, come emerge dall’atto di dolore: “Propongo col tuo santo aiuto di non offenderti mai più e di fuggire le occasioni prossime di peccato.

3. Ora in alcuni casi (divorziati risposati, pentiti, e che hanno figli dalla nuova unione) non è possibile eliminare in radice le occasioni prossime perché di fatto i figli hanno diritto alla presenza dei genitori, sebbene questi non siano fra loro marito e moglie.
Pertanto se costoro si propongono di vivere in continenza e di fatto lo dimostrano con il loro comportamento virtuoso, vivendo in maniera cristiana e frequentando i sacramenti (in particolare la confessione) e talvolta vengono sorpresi da una caduta, essi stessi ne rimangono addolorati e lo manifestano al confessore.
In questo caso l’assoluzione va data.
Se invece nonostante il proposito di vivere in continenza le cadute si ripetono e si vede che il dolore non c’è o che il proposito viene puntualmente contraddetto, non si potrà dare l’assoluzione perché per ora ne mancano le premesse.
In questo caso è più giusto prendere atto della propria situazione e che la confessione sarebbe solo un rito.

4. Occorre ricordare anche che Gesù istituendo il Sacramento della riconciliazione non ha detto semplicemente di perdonare i peccati.
Ma ha detto: “A chi perdonerete… e a chi non li perdonerete…” (Gv 20,23).
Ciò suppone un’accusa sincera da parte del fedele e una valutazione adeguata dal parte del sacerdote.

5. Per il secondo punto: un singolo peccato non fa perdere la virtù contraria acquisita.
L’atto infatti contraria l’atto e non l’abito (la virtù), come insegna San Tommaso.
Ciò non toglie che il peccato possa essere grave, se c’è materia grave, piena avvertenza della mente e deliberato consenso della volontà.

6. In questo caso il peccato fa perdere la carità (che è una virtù infusa) e con essa la grazia.
E fa perdere anche la virtù infusa omonima (perché ci sono anche le virtù morali infuse, che accompagnano le rispettive virtù acquisite e le orientano a Dio).
Ma, pur essendo un peccato mortale, non fa perdere la virtù morale acquisita.
Supponiamo il caso di una persona che in genere si contiene nel cibo e nelle bevande, ma in una determinata occasione si lascia tentare, cade nell’ubriachezza e dice cose sconnesse (per usare un eufemismo).
Ebbene non si potrà dire che con quel singolo atto abbia perso la virtù della sobrietà.
Ma certamente quel peccato rimane grave e necessita di essere confessato.

7. Secondo S. Tommaso questo vale per tutti i peccati contrari alle virtù morali, fatta eccezione per la lussuria a motivo della veemenza con cui travolge la persona: “Ma con un atto di lussuria la castità viene meno di per se stessa” (Sed actu luxuriae castitas per se privatur”, s. tommaso, In II Sent., d. 42, q. 1, a. 2, ad 4).
Sicché un singolo peccato grave in materia di sessualità fa perdere non solo le virtù infuse, ma fa perdere anche la virtù acquisita della purezza o castità.

8. Questo però non perché c’è materia grave, ma perché – come ha ricordato più volte Giovanni Paolo II – la sessualità tocca l’intimo nucleo della persona.
Di fatto un singolo atto di lussuria ha ripercussioni forti sulle disposizioni di fondo di una persona e la inclina pesantemente alla ripetizione di atti.

9. San Tommaso ricorda che “i peccati carnali hanno un impulso più veemente” (“peccata autem carnalia habent vehementius impulsivum”, Somma teologica, I-II, 73, 5) e dice anche che “il demonio gode soprattutto dei peccati di lussuria, per la fortissima adesione che provocano, e che l’uomo difficilmente riesce poi a superare; poiché, a dire del Filosofo, "l’appetito dei piaceri è insanabile" (Ib., ad 2).

10. Quando i peccati di lussuria sono veniali (e lo sono non a motivo della materia che in questo caso è sempre grave, ma per l’imperfezione dell’atto), evidentemente non fanno perdere la virtù della purezza, ma indicano solo che quella purezza non è di molti carati.

Ti ringrazio per i quesiti esposti, ti auguro un fruttuoso ministero e ti ricordo al Signore.
Padre Angelo