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Joseph Ratzinger novello sacerdote

1 –
a) Finalmente viene il 29 giugno 1951, festa dei santi Pietro e Paolo il giorno tanto desiderato, quello dell’ordinazione sacerdotale, ricevuta dall’anziano – ha 82 anni – arcivescovo Michael von Faulhaber, che Joseph venera per l’austera dignità e per le sofferenze patite durante la dittatura nazista. Conviene soffermarsi un po’ su questa figura di vescovo “all’antica”.  Quando Faulhaber (1869-1952) muore è l’ultimo cardinale creato da Benedetto XV. Dal 1917 è arcivescovo di Monaco e Frisinga. Di sentimenti monarchici, decorato con la “Croce di ferro” come cappellano militare esemplare durante la Grande Guerra, regge con fermezza una delle più grandi diocesi della Germania in tempi molto difficili. Favorisce, nel luglio 1933, la stipula del Concordato tra la Germania e la Santa Sede, rappresentata da Eugenio Pacelli, Segretario di Stato di papa Pio XI. Il Concordato non significa una approvazione del regime nazionalsocialista, ma una dolorosa necessità per evitare mali peggiori. “Con il Concordato siamo impiccati, senza il Concordato siamo impiccati, sventrati e squartati” afferma Faulhaber. Del nazismo condivide l’anticomunismo, ma ne condanna la statolatria e il razzismo. Sostiene l’occupazione dell’Austria (marzo 1938) e, più tardi, l’invasione della Cecoslovacchia e, ancora più tardi, l’attacco all’Unione Sovietica. Questo atteggiamento getta più di un’ombra sulla sua coerenza. Tuttavia, prende a cuore la sorte degli ebrei, soprattutto a partire dal 1940, venendo a conoscenza delle atrocità commesse nei loro confronti, tanto che i nazisti lo definiscono il “cardinale ebreo”. Resta eloquente una dichiarazione delle comunità ebraiche della Baviera del 1949: “…come rappresentanti delle sinagoghe ebraiche bavaresi, noi non dimenticheremo mai come Lei, onorevole signor Cardinale, negli anni dopo il 1933, con inaudito coraggio abbia difeso l’etica dell’Antico Testamento dai suoi pulpiti, e come abbia salvato migliaia di ebrei dal terrore e dalla letale violenza”.
Ci siamo soffermati diffusamente su questo alto ecclesiastico, anche perché ha contato qualcosa nella vocazione di Joseph Ratzinger. Certo egli respira, nella sua famiglia innanzitutto, e poi nell’ambiente sociale in cui vive, fede e bontà. Le esperienze dei primi anni, come spesso succede, sono decisive. Senza dubbio anche l’esempio del fratello, maggiore di lui di tre anni, entrato in seminario, ha toccato l’anima di Joseph ragazzo. Tuttavia, riandando a quegli anni lontani, in un libro pubblicato negli anni ’90, l’allora cardinale Ratzinger dichiara: “Quando dalle nostre parti arrivò il cardinale Faulhaber, con la sua imponente veste color porpora, ne restai talmente colpito da arrivare a dire che anch’io volevo diventare come lui” (J. Ratzinger, Il sale della terra, Edizioni San Paolo, trad. it.1997, p. 59).

b) Torniamo a quel giorno di fine giugno 1951. I candidati all’ordinazione sono più di quaranta e tra questi i fratelli Ratzinger.
A distanza di circa un quarto di secolo egli rievoca quel 29 giugno con gioia e commozione. “Era una splendida giornata d’estate, che resta indimenticabile, come il momento più importante della mia vita”. Egli riporta un curioso episodio: “Nel momento in cui l’anziano arcivescovo impose le sue mani su di me, un uccellino, forse un’allodola, si levò dall’altare maggiore della cattedrale e intonò un piccolo canto gioioso. Per me fu come se una voce dall’alto mi dicesse: “Va bene così, sei sulla strada giusta”. Joseph ricorda l’atmosfera festosa seguita all’ordinazione, la gioia della prima messa, molto partecipata. “Eravamo invitati – osserva ancora Joseph – a portare in tutte le case la benedizione della prima messa e fummo accolti ovunque, anche da persone completamente sconosciute, con una cordialità che, fino a quel momento, non mi sarei nemmeno immaginato. Sperimentai così direttamente quali grandi attese gli uomini abbiano nei confronti del sacerdote, quanto aspettino la sua benedizione, che deriva dalla forza del sacramento. (…) Proprio perché al centro non c’eravamo noi, nascevano tanto rapidamente delle relazioni amichevoli.”
In queste brevi note c’è molto dell’uomo e del sacerdote. Prima di essere uno studioso e un professore Joseph Ratzinger ha voluto e cercato di essere un sacerdote.
Di lì a qualche settimana egli inizia il suo ministero come coadiutore in una parrocchia di Monaco, in un quartiere residenziale abitato da persone di diverso ceto sociale, con una buona percentuale di appartenenti al ceto medio. In questa prima esperienza pastorale c’è molto da fare. “Dovevo tenere sedici ore di religione in classi diverse e questo esigeva molta preparazione. Ogni domenica dovevo celebrare due volte e tenere due prediche diverse. Ogni mattino, dalle 6 alle 7, ero in confessionale, il sabato pomeriggio quattro ore. Ogni settimana c’erano da celebrare parecchi funerali nei diversi cimiteri della città. Tutto il lavoro coi giovani era sulle mie spalle e a ciò si aggiungevano gl’impegni straordinari, come battesimi, matrimoni.
Il novello sacerdote si sente impreparato a questi molteplici e nuovi impegni; ma proprio in questa situazione egli ha la felice ventura di avere un modello sacerdotale nel parroco. “Fino al suo ultimo respiro – ricorda commosso Joseph – volle svolgere il suo servizio di sacerdote con tutte le fibre della sua esistenza. Morì mentre portava il viatico a un malato grave. La sua bontà e la sua passione interiore per il ministero diedero a questa parrocchia la sua impronta. Quel che, a un primo sguardo, poteva sembrare attivismo era in realtà espressione di una disponibilità al servizio vissuta senza limite alcuno”.
A proposito del suo lavoro con i ragazzi e i giovani, che gli procura anche soddisfazioni, il giovane sacerdote fa un’osservazione di natura psicologica e sociologica: “Mi resi conto di quanto la mentalità e il modo di vivere di molti ragazzi fossero lontani dalla fede, quanto poco l’insegnamento della religione trovasse ancora appoggio nella vita e nel modo di pensare delle famiglie. Inoltre non potevo non riconoscere che il modo con cui veniva organizzato il lavoro con i giovani, che era ancora quello maturato nel periodo tra le due guerre, non era più all’altezza dei tempi, nel frattempo mutati, e che quindi bisognava mettersi alla ricerca di forme nuove”. Insomma, Ratzinger ravvisa anche nella sua Baviera, sia pure all’interno di una grande città come Monaco, un processo di secolarizzazione già avanzato e perciò la necessità di rievangelizzare la gente.

Come si è detto sopra, I fratelli Ratzinger sono creati presbiteri il medesimo giorno, anche se Georg è entrato in seminario qualche anno prima di Joseph. Non sappiamo se ciò sia avvenuto per volontà dei superiori o se Georg abbia voluto attendere, per così dire, il fratello più giovane e iniziare insieme il ministero. Tra loro esiste senza dubbio una comunione d’intenti, anche se poi le loro scelte divergeranno: Georg continua a dedicarsi appassionatamente alla musica, mentre Joseph, pur affascinato dalla musica, si dedica principalmente alla teologia.

Quanto alla sorella Maria, la maggiore d’età, lavora come impiegata e in questo modo può integrare le entrate della famiglia, in quanto la pensione del padre, che ha cessato il servizio di gendarme nel 1937, è piuttosto modesta.
In seguito Maria, che è nubile, sarà accanto a Joseph, prestandosi per i semplici servizi domestici, mettendo a disposizione le sue competenze, come quella di dattilografa, proteggendo il lavoro del fratello da ogni curiosità indiscreta, insomma agendo come un secondo angelo custode. Ella muore, il giorno di Ognissanti, colpita mentre si trova presso la tomba dei genitori. Questa “intelligente, umile e santa donna” – così la definisce Cristoph Schönborn, discepolo e amico del futuro papa – lascia nei fratelli e soprattutto in Joseph un rimpianto pari al grande affetto nutrito per lei.

Nell’ottobre 1952 il giovane sacerdote è chiamato a nuovi compiti. È nominato docente di pastorale dei sacramenti a Frisinga. Egli confessa – sempre nell’autobiografia, alla quale attingiamo come fonte principale – di aver sofferto molto, soprattutto il primo anno, “per la perdita di quella pienezza di relazioni ed esperienze umane, che la cura pastorale aveva saputo darmi. (…) La sensazione che si aveva bisogno di me e che stavo svolgendo un servizio importante mi aveva aiutato a dare l’impossibile e a sperimentare la gioia del ministero sacerdotale”. Anche a Frisinga comunque non mancano gl’impegni squisitamente pastorali, fra i quali l’ascolto delle confessioni in duomo e la direzione di un gruppo giovanile.
Inoltre egli deve preparare l’esame di dottorato, una prova assai impegnativa. Ecco come Joseph lo presenta: “Bisognava essere esaminati in otto discipline, ogni volta con un colloquio orale di un’ora e un esame scritto. Il tutto era coronato da una disputa pubblica, per la quale si dovevano preparare delle tesi, tratte da tutte le discipline teologiche.
Fu una grande gioia, soprattutto per mio padre e mia madre, quando nel luglio 1953 questo atto andò in scena e mi guadagnai il titolo di dottore in teologia”.

2 – Prima di seguire le vicende dell’esistenza di Joseph Ratzinger, di considerare le sue conquiste intellettuali e spirituali, esaminiamo la cornice in cui egli vive. Essa è naturalmente la Germania degli anni ’50 –‘70. La sua storia interna, almeno nella prima parte di questo periodo, è dominata dalla figura di Konrad Adenauer (1876-1967). Dal 1949 al 1963 egli è cancelliere della BDR (Repubblica federale tedesca). Quando è nominato alla guida dell’esecutivo, la Germania occidentale ha da poco una costituzione, si va riprendendo dalle distruzioni della guerra, comincia faticosamente a fare i conti con un passato recente, quello del cosiddetto Terzo Reich, che ha portato alla rovina militare, politica e spirituale.
Essa non ha, diversamente da altri paesi europei, come p. es. la Francia, l’Italia, la Polonia, la Jugoslavia, un evento fondativo, che per le nazioni appena citate è la Resistenza. Anche la Germania ha conosciuto movimenti di resistenza, con episodi di vero eroismo, ma essi non sono riusciti ad abbattere il nazismo né a coinvolgere le masse né a trovare anche un minimo sostegno negli stati che combattono la Germania di Hitler.

Adenauer diviene cancelliere a settantatré anni (è il più anziano tra coloro che guidano un governo in Europa). Si è formato nella Germania del primo anteguerra. Nasce a Colonia (in ted. Köln), e dell’antica città bagnata dal Reno è sindaco dal 1917 al 1933 e di nuovo, per pochi mesi, nel 1945. È un cattolico di saldi principi e di vita integra.  Avverso al nazismo, durante la dittatura vive appartato e quasi esule in patria; tuttavia non si unisce ai gruppi di opposizione, considerando destinato alla sconfitta anche il moto culminato nell’attentato del 20 luglio 1944, a cui fa seguito una sanguinosa repressione. Nel secondo dopoguerra egli guida il paese con energia e in modo talora autoritario come esponente di punta della CDU (Unione cristiano-democratica), che è il partito di maggioranza relativa, sostenuta dalla CSU (Unione cristiano-sociale) bavarese.
Non mancano differenze, pur trovandosi anche affinità, tra i partiti d’ispirazione cristiana tedeschi e la DC (Democrazia cristiana) italiana. Mentre Alcide De Gasperi, massimo esponente della DC, afferma che la DC è un partito di centro che guarda a sinistra, Adenauer e i suoi collaboratori avversano senza compromessi tanto il comunismo quanto il socialismo, portatori di una visione materialistica dell’uomo e della società, che offende la dignità della persona. Si tenga presente che la SPD (partito socialista tedesco) prende le distanze dal marxismo solo nel congresso di Bad Godesberg del 1959.
Adenauer si vale persino della collaborazione di uomini che hanno avuto incarichi di primo piano nel Terzo Reich: fra tutti il generale Albert Kesserling, capo supremo delle forze tedesche operanti in Italia fra il settembre 1943 e l’aprile 1945, e il futuro cancelliere Kurt Kiesinger.
Il cancelliere favorisce un’amnistia riguardante quasi ottocentomila persone, coinvolte col Terzo Reich, imputate di reati anche molto gravi, al fine di non suscitare un nazionalismo estremo e crescente tra i nostalgici del nazismo.
Egli è invece intransigente contro i comunisti, il cui partito (secondo i dati delle ultime elezioni a cui può partecipare, si attesta intorno al 5%) è messo fuori legge.
Nonostante queste decisioni, che incrinano alquanto il carattere democratico della nuova Germania, occorre riconoscere che Adenauer e i suoi sostenitori sono riusciti a garantire la stabilità interna al paese e, grazie alla laboriosità dei Tedeschi e alla competenza del ministro Ludwig Erhard, futuro cancelliere dopo il ritiro di Adenauer, a rilanciare l’economia.
Il cosiddetto “miracolo economico” moltiplica le occasioni di trovare un impiego, soprattutto nel settore industriale, tanto che la Germania diviene la terra promessa per centinaia di migliaia e nel corso degli anni di milioni d’immigrati, provenienti da paesi europei, fra cui la Polonia e l’Italia, da paesi del Medio Oriente, specialmente dalla Turchia, e anche da più lontano.
La politica economica segue il liberismo e il capitalismo, moderati tuttavia da un efficiente sistema previdenziale, che assicura anche ai meno ricchi un dignitoso tenore di vita.
Nel periodo che consideriamo Adenauer fa della Germania un alleato fedele degli Stati Uniti all’interno della NATO; si batte per la riconciliazione con la Francia e, in sintonia con De Gasperi e i suoi successori, con i francesi Robert Schuman, Jean Monnet e infine con Charles De Gaulle, si adopera per la costruzione di un’Europa economicamente unita e solidale, almeno in prospettiva.
Il 25 marzo 1957 è firmato a Roma il trattato che fonda la CEE (Comunità economica europea) o Mec (Mercato economico comune). Gli stati fondatori sono, oltre alla Germania, la Francia, l’Italia e i paesi del BENELUX (Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo).

Sebbene la Germania occidentale non sia il paradiso, numerosi cittadini della Germania Est tentano la fuga verso un mondo che per loro è sinonimo di libertà e non solo di benessere materiale. Questo esodo avviene secondo modalità differenti. Non mancano coloro che sfidano le fredde acque del Baltico per raggiungere il lembo della Germania Ovest che si affaccia su quel mare. Altri nei modi più diversi e in alcuni casi eroici valicano il confine tra Berlino est, soggetta al governo comunista, e Berlino ovest, che fa parte della Germania occidentale. Si è calcolato che nel periodo 1949-1961 abbiano lasciato la DDR per la BDR circa due milioni e mezzo di cittadini.
Per arrestare questa emorragia le autorità della Germania est decidono di costruire un muro che divida Berlino ovest (che è una “enclave” all’interno della Germania est) non solo dalla parte orientale, ma pure da tutto il territorio che la circonda, soggetto alla DDR (Repubblica democratica tedesca).
Nella notte fra il 12 e il 13 agosto 1961 si cominciano i lavori per edificare un muro che verrà completato negli anni successivi: quando la poderosa costruzione sarà ultimata, il muro risulterà lungo 155 km. e alto oltre 3,5 m.. Da quel momento le fughe saranno molto più difficili e quindi più rare, perché poliziotti armati vigilano per impedirle, anche a costo di aprire il fuoco. Le vittime sono più di 130, per restare su una stima approssimata per difetto: prevalgono gli uomini, ma sono numerose anche le donne; tentano la fuga per lo più i giovani, ma non mancano le persone avanti con gli anni; tra gli uccisi si contano anche bambini al di sotto dei dieci anni. Oltre che un gigantesco recinto, quel muro è anche il simbolo di un regime che trova un debole consenso nella popolazione e di un’Europa più che mai divisa. Ecco perché, quando sarà smantellato, a partire dal 9 novembre 1989, si ha la percezione che cominci una nuova epoca nella storia e non solo per la Germania. Neppure un anno dopo, nell’ottobre 1990, questo paese ritornerà unito.
Intanto in quegli anni la cultura tedesca continua a essere vivace, anche se non come nel primo ‘900.
Quanto al rapporto degl’intellettuali, alcuni, di convinzioni comuniste, optano per la Germania est, come il drammaturgo Bertold Brecht e il narratore Heinrich Mann. Altri, di convinzioni diverse, optano per la Germania ovest, come i filosofi Martin Heidegger e Jurgen Habermas. Altri ancora, non riconoscendosi in nessuno dei due regimi – è il caso del romanziere e saggista Thomas Mann, fratello di Heinrich, e del filosofo Karl Jaspers – si ritirano in volontario esilio in Svizzera. Altri intellettuali, scienziati e artisti emigrati durante il regime nazista non ritornano in patria, continuando a risiedere altrove, soprattutto negli Stati Uniti.
C’è qualcosa di comune tra le due Germanie? Il problema è mal posto – avrebbe risposto Adenauer – in quanto c’è una sola Germania. C’è più che qualcosa in comune. Innanzitutto la lingua, al di là delle parlate regionali. Per alcuni intellettuali tedeschi del tardo ‘700 e del primo ‘800, come Herder e Fichte, la lingua è un fattore potente di unità, che cementa la nazione. Un altro fattore è la fede religiosa; nel periodo storico che consideriamo, nonostante il processo di secolarizzazione, la fede cristiana è ancora forte sia nelle comunità cattoliche, sia in quelle protestanti.
Vi è ancora un altro elemento: la pratica e la passione sportiva. Fino alle olimpiadi di Tokyo del 1964 vi è una sola nazionale tedesca, che è tra quelle che raccolgono più medaglie. Un evento sportivo clamoroso è la vittoria nel mondiale di calcio del 1954, svoltosi in Svizzera. In finale la Germania batte la favoritissima Ungheria, la più forte compagine del periodo. Il calcio, allora come anche oggi, era molto seguito in Germania. Quella vittoria è vissuta come un parziale riscatto dopo tanti anni bui.

Verso la fine degli anni ‘60 anche la società tedesca, specialmente quella della Germania occidentale, è investita dal vento della contestazione giovanile e studentesca. Tutto un mondo di valori, talora di abitudini sociali consolidate, non sempre positive, viene messo in discussione. Anche la politica e la religione risentono di questo mutato clima. In politica le forze di sinistra o genericamente progressiste, alle quali va la simpatia di molti giovani, ne beneficiano, almeno in Germania, benché non accada sempre e dovunque così.
In Germania la SPD, salita al governo già nel 1966, in una “grande coalizione” insieme con la CDU e la CSU, vince le elezioni del 1969 e il suo presidente Willy Brandt diviene cancelliere, interrompendo l’egemonia dei partiti di centro o centro-destra. Dal già citato congresso di Bad Godesberg la SPD ha messo da parte, ossia non li considera più come caposaldi della sua politica, il marxismo, l’anticlericalismo, il classismo. Ormai la SPD è un partito socialdemocratico, che approva l’allineamento della Germania con la NATO.
Brandt ha già dimostrato competenza amministrativa come sindaco (per circa un decennio) di Berlino ovest. Brandt continua, sulla scia dei predecessori, la politica di alleanza con i paesi della NATO e nel solco dell’europeismo. Si differenzia dai precedenti governanti in quanto persegue una politica distensiva con i paesi del blocco comunista. Riconosce come stato la Germania orientale, allontanandosi dal principio “una sola Germania”, proprio di Adenauer e dei suoi seguaci; riconosce il confine con la Polonia, imposto dai vincitori alla Germania; migliorano anche i rapporti con l’Unione Sovietica. Questa Ostpolitik, ossia un atteggiamento conciliante verso i governi del mondo comunista, perseguito fra l’altro in quegli anni, durante il pontificato di Paolo VI, dalla diplomazia della Santa Sede, guidata dal segretario di stato Agostino Casaroli, attira a Brandt sia consensi sia critiche. Questa politica, insieme con l’esistenza avventurosa di Brandt, gli procurano l’avversione di chi vede in lui se non proprio un traditore, almeno un tiepido patriota.
C’è almeno un atto di Brandt che, a mio parere, valica gli steccati di partito e d’ideologia. Visitando Varsavia, nel dicembre 1970, egli s’inginocchia ai piedi del monumento eretto per ricordare gli Ebrei del ghetto di quella città, capitale di una nazione martire, uccisi dai Tedeschi durante la seconda guerra mondiale. Il gesto è un atto dovuto e un passo sulla via della “purificazione della memoria”, come Giovanni Paolo II avrebbe chiamato, qualche decennio dopo, il riconoscimento da parte della Chiesa cattolica dei propri errori e peccati.
Brandt si dimette dalla cancelleria nella primavera 1974. Da quel momento si alterneranno alla guida del governo esponenti dei due maggiori partiti, ossia la CDU e la SPD.

Che cosa si può dire circa l’atteggiamento di Joseph Ratzinger verso la politica e la società tedesca?
Dalle pagine dell’autobiografia non emerge molto. L’uomo Ratzinger non ha per la politica una speciale inclinazione, ma non è neppure concepibile che egli sia indifferente a questa dimensione dell’esistenza e della storia. La sua personalità è quella di un uomo moderato, alieno dagli estremismi. Senza tentennamenti è la condanna del nazismo e inequivocabile nella sua concisione è pure il giudizio sul regime della Germania orientale: “(…) la parte della nostra patria occupata dai Sovietici (…) si presentava davvero come un immenso carcere”. Più in là non possiamo andare. È probabile che egli inclini per i partiti d’ispirazione cristiana, anche se il carattere del futuro vescovo e poi papa, così delicato e mite, non ha molto in comune con quelli di Adenauer e Franz Joseph Strauss, il principale esponente, per un lungo periodo, della CSU bavarese.