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Joseph Ratzinger docente di teologia
1 – Dopo la lunga digressione, dedicata ad alcuni aspetti della storia della Germania, dai primi passi verso la democrazia nel secondo dopoguerra sino alla “caduta del muro” nel 1989, ritorniamo alla vicenda umana e spirituale di Joseph Ratzinger.
Divenuto dottore in teologia, il giovane Joseph ha ultimato l’itinerario scolastico, ma non è ancora abilitato a insegnare a sua volta. Per quanto le sue prime esperienze pastorali siano state gratificanti, egli si sente chiamato a far conoscere ai giovani la sacra dottrina, come la si chiamava in altri tempi, e a guidarli verso le vette della teologia.
Uno dei suoi più stimati e cari maestri, Gottlieb Söhngen, gli propone di studiare un nucleo tematico della teologia fondamentale, il concetto di rivelazione e la storia della salvezza, che in un certo senso è la naturale continuazione della sua tesi di laurea, dedicata all’ecclesiologia di Agostino. Ora Joseph Ratzinger deve cimentarsi con Bonaventura, un filosofo e teologo francescano del XIII secolo, assertore di un orientamento spiritualista, sulle orme di Agostino.
Joseph si mette al lavoro con spirito alacre, ma alcuni contrattempi e un ostacolo imprevisto mettono in forse la sua riuscita.
Egli non è fortunato – ammesso che esista la fortuna – nell’affidare il manoscritto a una dattilografa, che si dimostra non solo lenta, ma pure assai imprecisa. Neppure il lavoro di revisione, da lui stesso intrapreso, riesce a correggere tutte le inesattezze disseminate nel testo. Nonostante questo, Söhngen accoglie molto benevolmente lo scritto del suo giovane allievo. Senonché il correlatore, lui pure docente della medesima facoltà, il già citato Michael Schmaus, reagisce alquanto diversamente, riprovando le tesi esposte da Ratzinger e correggendo in lungo e in largo le prime due parti dello scritto, dedicate al concetto di rivelazione. Il parere negativo del correlatore è vincolante e sorprende Joseph come un fulmine a ciel sereno. Egli teme che sia compromesso il suo futuro di docente. Non gli rimane che attendere la decisione del consiglio di facoltà. Invero nel libro autobiografico più volte citato egli fa un onesto esame di coscienza. Biasima la propria presunzione nel criticare alcune posizioni teologiche, condivise anche da Schmaus, che egli giudica superate dai nuovi orientamenti.
“Con una durezza che certo poco si adattava a un principiante, nel mio testo criticavo quelle posizioni superate e per Schmaus doveva essere stato davvero troppo, tanto più che non riusciva nemmeno a capire come avessi potuto affrontare un tema medievale senza affidarmi alla sua guida.”
(“La mia vita”, pag. 95)
Ma c’è di più: “Avevo constatato che in Bonaventura (e, anzi, nei teologi del secolo XIII in generale) non c’era alcuna corrispondenza con il nostro concetto di “rivelazione”, che eravamo soliti usare per definire l’insieme dei contenuti rivelati, tanto che anche nel lessico si era introdotta l’abitudine di definire la Sacra Scrittura semplicemente come la “rivelazione”. Nel linguaggio medievale una tale identificazione sarebbe stata impensabile. In esso, infatti, la “rivelazione” è sempre un concetto di azione: il termine definisce l’atto con cui Dio si mostra, non il risultato oggettivizzato di questo atto. E dato che le cose stanno così, del concetto di “rivelazione” fa sempre parte anche il soggetto ricevente (…).
Questi concetti, acquisiti grazie ai miei studi su Bonaventura, sono poi divenuti molto importanti per me, quando nel corso del dibattito conciliare vennero affrontati i temi della Rivelazione, della Scrittura e della Tradizione. Perché se le cose stanno come le ho descritte, allora la Rivelazione precede la Scrittura e si riflette in essa, ma non è semplicemente identica ad essa. Questo significa inoltre che la Rivelazione è sempre più grande del solo scritto. (…) Ma intanto si trattava della tesi di abilitazione alla libera docenza, e Michael Schmaus, cui forse erano giunte da Frisinga delle voci irritate sulla modernità della mia teologia, non vedeva affatto in queste tesi una fedele ripresa del pensiero di Bonaventura (cosa di cui, al contrario, io sono ancor oggi convinto), ma un pericoloso modernismo”. (op.cit., pagg. 95-96)
La decisione del consiglio di facoltà ridà fiducia a Ratzinger, in quanto non boccia il suo lavoro. Esso gli viene restituito a Ratzinger affinché apporti le necessarie correzioni. Egli sceglie di non intervenire sulle due parti piene di correzioni, rinunciando a riproporle, e di lavorare sulla terza sezione, scevra di osservazioni critiche. Lo scritto risulta così assai più breve e concentrato sulla teologia della storia di Bonaventura. “Quel che avevo scritto sulla teologia della storia di Bonaventura era strettamente legato all’insieme del libro, ma possedeva comunque una sua autonomia; lo si poteva senza grossi problemi separare dal resto dell’opera (…). Con le sue duecento pagine un libro di questo genere era più breve della media delle tesi di abilitazione alla libera docenza, ma era, comunque, sufficientemente esteso per dimostrare la capacità di condurre autonomamente un’indagine teologica, e questo era, in definitiva, il vero scopo di quel genere di lavori” (op.cit. pag. 99).
Finalmente il giorno 11 febbraio 1957 Ratzinger apprende che la sua tesi, presentata nell’ottobre precedente, è stata accettata e che per il giorno 21 è fissata la pubblica discussione. Joseph confessa di essersi apprestato a quella giornata non senza preoccupazione, sia perché l’esito positivo non è automatico sia perché gl’impegni d’insegnamento gli lasciano poco tempo per prepararsi.
Nell’aula “stracolma” di persone, in un’atmosfera in cui si sente “una strana tensione quasi fisica” – sono parole dello stesso Ratzinger – il candidato tiene la sua lezione. Non andiamo lontano dal vero se lo immaginiamo emozionato. Dopo la sua lezione comincia “un’appassionata disputa” fra i professori che abbiamo nominato sopra, ossia il relatore e il correlatore. Ratzinger se ne sta in disparte senza essere interpellato. La riunione del consiglio di facoltà in cui si decide la sorte del candidato dura a lungo. Finalmente il decano gli comunica che ha superato l’esame ed è abilitato. “A poco a poco – confessa Ratzinger – si sciolse l’ansia che si era accumulata in me. Ora finalmente potevo continuare in pace il mio lavoro a Frisinga e non dovevo più temere di aver trascinato i miei genitori in una triste avventura”.
La “triste avventura” a cui si riferisce questa citazione è il trasloco di tutta la famiglia, a cominciare dai genitori, dalla casa in cui risiedono a Traunstein, dove la famiglia si era trasferita nel 1937, in una nuova dimora nella città di Frisinga, ove Joseph pensa di rimanere almeno fino al conseguimento dell’abilitazione. I genitori, nonostante il legame con la casa di Traunstein, prendono piuttosto bene l’invito di Joseph.
Qui sono necessarie alcune osservazioni.
Il “dramma della libera docenza”, come s’intitola il capitolo che stiamo esponendo, non deve suonare enfatico. Joseph tiene molto a conseguire quella che nelle università medioevali si chiama “licentia docendi”, perché per lui l’insegnamento della teologia non è un impiego come un altro, ma un’autentica vocazione, che fa quasi tutt’uno con quella di sacerdote. Inoltre egli non vuole dare agli anziani genitori (ambedue hanno superato i 70 anni) un dispiacere, dopo averli fatti venire presso di sé in una nuova dimora.
Conosciamo meglio in queste pagine il carattere di un giovane sentimentale, intensamente emotivo, timido ma non pusillanime, che si preoccupa e talora si deprime, che conosce la gioia e l’entusiasmo; un giovane serio, molto legato alle persone care come ai luoghi in cui è vissuto e fedele negli affetti.
Per lui anche le contrarietà rientrano nel piano della Provvidenza. Viene naturale richiamare quanto dichiara san Paolo: “Tutto concorre al bene per coloro che amano Dio” (Lettera ai Romani, 8, 28).
Joseph non coltiva risentimento per Michael Schmaus, che lo ha osteggiato ben al di là di una critica motivata da una divergenza dottrinale. I loro rapporti, inizialmente tesi, vanno via via migliorando negli anni ‘70, “fino a divenire amichevoli”. Egli riconosce che “la prova di quel difficile anno” è stata per lui “umanamente salutare”.
Uno dei frutti migliori di quella prova è riassunto in queste parole: “(…) mi restò il proposito di non consentire tanto facilmente alla ricusazione di tesi di laurea o di abilitazioni alla libera docenza, ma di prendere le parti del più debole, quando ve ne fossero state le ragioni” (op.cit. pag 101).
È un proposito che dovrebbe ispirare ogni educatore e ogni insegnante.
Dopo alcuni incarichi in Baviera, prima a Monaco, poi a Frisinga, nell’estate 1958 è invitato alla cattedra di teologia fondamentale a Bonn. Nella primavera dell’anno seguente comincia l’insegnamento, la prima volta lontano dal mondo bavarese, in cui è nato, si è formato e ha mosso i primi passi come sacerdote e come docente.
Di questa esperienza e di altre che le seguiranno si dirà un’altra volta.
2 – Qui vorrei sottolineare un aspetto dell’uomo Ratzinger: il suo senso dell’amicizia.
Joseph è piuttosto timido, ma non certo asociale. Non c’è quasi luogo o situazione che non rechi con sé anche il ricordo di un legame cordiale o di una amicizia.
A questo punto non sarà fuori luogo ricordare due pensatori, i più grandi dell’Occidente cristiano, che hanno vissuto l’amicizia come uomini e ne hanno scritto in più luoghi delle loro opere.
Il primo è Agostino (354-430), per il quale Joseph Ratzinger nutre una viva inclinazione sin dalla giovinezza. Il secondo è Tommaso d’Aquino (1225-1274).
Così si esprime il vescovo d’Ippona:
“Dei beni di questo mondo alcuni sono superflui, altri necessari. In questo mondo solo due cose sono necessarie: la salute e l’amico; queste le cose di grande importanza, quelle che non dobbiamo disprezzare. La salute e l’amico sono beni propri della natura umana. Dio ha creato l’uomo per l’esistenza e la vita: ecco la salute; ma, affinché non fosse solo, ecco l’esigenza dell’amicizia. L’amicizia, quindi, ha il suo principio nel coniuge e nei figli e si apre agli altri uomini. Ma considerando che noi abbiamo avuto soltanto un padre e una madre, chi sarà l’altro uomo? Ogni uomo è prossimo a ogni uomo.
Rivolgiti alla natura. È uno sconosciuto? È un uomo.
È un avversario? È un uomo. È un nemico? È un uomo.
È un amico? Resti amico. È un avversario? Diventi amico.” (Agostino, Discorsi, 299)
Sull’Aquinate lo stesso Benedetto XVI si esprime in una catechesi dedicata ai santi cristiani:
“Per la composizione dei suoi scritti, [Tommaso d’Aquino] era coadiuvato da alcuni segretari, tra i quali il confratello Reginaldo di Piperno, che lo seguì fedelmente e al quale fu legato da fraterna e sincera amicizia, caratterizzata da una grande confidenza e fiducia. È questa una caratteristica dei santi: coltivano l’amicizia, perché essa è una delle manifestazioni più nobili del cuore umano e ha in sé qualche cosa di divino, come Tommaso stesso ha spiegato in alcune quaestiones della Summa Theologiae, in cui scrive: “La carità è l’amicizia dell’uomo con Dio principalmente, e con gli esseri che a Lui appartengono” (Somma teologica, II, q. 23, a.1).”