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Gli anni di formazione di Joseph Ratzinger

1 – a) Nel maggio 1945, con la resa incondizionata della Germania, l’immane conflitto che chiamiamo “seconda guerra mondiale” si conclude ufficialmente in Europa. In Estremo Oriente invece esso dura sino all’agosto successivo, allorché anche il Giappone, dopo le bombe atomiche che colpiscono due importanti città con conseguenze devastanti, depone le armi.

Se la guerra fra gli stati è finita, la pace non è certo sbocciata. Di lì a alcuni anni comincia la “guerra fredda”, che oppone il mondo comunista, che si riconosce nel modello e nella guida dell’Unione Sovietica, e l’insieme di paesi che hanno come comune denominatore l’avversione al comunismo, anche se i loro regimi non sono tutti improntati alla democrazia liberale. Un certo numero di paesi, non riconoscendosi in nessuno dei due blocchi, darà vita al cosiddetto Terzo Mondo.

L’Europa, in cui il conflitto è cominciato e in cui si è combattuto più che in altre parti del mondo, è un cumulo di rovine.

In alcune aree d’Europa conflitti alimentati da antichi risentimenti fra le diverse nazionalità insanguinano regioni a popolazione mista. Talvolta le ostilità nascono da contrasti ideologici, come in Italia, fra il settembre 1943 e la primavera 1945, e ancor più in Grecia, ove la guerra civile dura ben oltre il 1945.

Non si dimentichi poi che durante la seconda guerra mondiale, molto più che in conflitti precedenti, non si verificano solo guerre civili all’interno di un medesimo stato (il caso più clamoroso è quello della Jugoslavia), ma anche guerre contro i civili, ossia violenze di ogni specie commesse da soldati di eserciti regolari o da uomini delle formazioni paramilitari contro non combattenti, compresi i bambini e le donne.

b) Quanto alla Germania, essa è a pezzi ed è considerata la maggior responsabile del tremendo conflitto, per cui le deliberazioni della conferenza di pace svoltasi a Parigi tra il luglio 1946 e il febbraio 1947 sono imposte ai Tedeschi. I governi dei paesi vincitori non tengono in nessun conto i movimenti di resistenza al nazismo costituiti da Tedeschi, che hanno pagato molto spesso con la morte la loro opposizione.

Ampie regioni a Est del corso dei fiumi Oder e Neisse, ossia la Pomerania, che si affaccia sul mar Baltico, con la città di Danzica, la Slesia, più a Sud, ricca di risorse minerarie, con la città di Breslavia, sono annesse alla Polonia; la Prussia orientale, con la città di Königsberg, è annessa all’Unione Sovietica.

Milioni di Tedeschi abbandonano, per evitare vessazioni, i territori sopra nominati, e oltre a questi anche la Boemia e la Moravia: anche se in tutte queste regioni essi risiedono da secoli, preferiscono rifugiarsi in Germania e in grande maggioranza nella Germania ovest. Si tratta complessivamente di circa 10 milioni di persone. In diversi casi sono cacciati con la forza, in quanto indesiderati, tanto più dopo i soprusi e gli eccidi che Tedeschi in uniforme hanno compiuto sui popoli slavi a partire dal 1939. Un numero cospicuo di loro, circa 2 milioni, muore per gli stenti, le malattie i maltrattamenti.

La Germania, già ridimensionata rispetto all’anteguerra, deve subire l’occupazione militare delle truppe dei paesi vincitori. Americani, Britannici e Francesi controllano la Germania occidentale, mentre l’Armata Rossa sovietica controlla la Germania orientale. Si formano così due stati:

la Repubblica federale di Germania, retta secondo un regime democratico o quasi, e la Repubblica democratica di Germania, che ha un regime comunista e sarà per circa quattro decenni un satellite docile ai voleri di Mosca.

c) Più ancora della disfatta militare, con le conseguenti mutilazioni territoriali, più ancora della divisione della patria in due stati, c’è qualcosa che ferisce i Tedeschi che abbiano una coscienza morale: vengono alla luce i crimini compiuti durante gli anni di guerra da reparti speciali (p. es. le SS), più raramente dall’esercito. Si è calcolato che circa 11 milioni di persone, per lo più anziani, donne, bambini sono uccisi nei luoghi della morte dai nomi sinistri: Auschwitz, Buchenwald, Bergen-Bersen, … Oltre la metà delle vittime dello sterminio è costituita da Israeliti. Gli Ebrei sono additati da Hitler come i nemici più irriducibili della nazione e i corruttori del sangue tedesco. La maggior parte di queste vittime della “soluzione finale” proviene dall’Europa centro-orientale.

Altre persone, in numero cospicuo, ma inferiore alle vittime dello sterminio programmato, muoiono non nelle camere a gas o nei forni crematori, ma nei campi di concentramento che contengono milioni di prigionieri di guerra. La Chiesa cattolica ha elevato all’onore degli altari uomini e donne uccisi per la loro testimonianza evangelica. Tra essi ricordiamo il frate minore conventuale polacco Massimiliano Kolbe e il sacerdote carmelitano olandese Tito Brandsma. Anche i Tedeschi hanno avuto i loro martiri; tra questi Edith Stein, di origine israelita, divenuta carmelitana con il nome di Teresa Benedetta della Croce, il sacerdote Bernhard Lichtenberg e il pastore protestante Dietrich Bonhoeffer. Anche i domenicani hanno dato un contributo di sangue: padre Michele Czartoryski, la religiosa Giulia Rodzinska e, a noi più noto, l’italiano padre Giuseppe Girotti.

d) L’evento più clamoroso dell’immediato dopoguerra riguardante i Tedeschi è il processo di Norimberga. Un certo numero di alti gerarchi del regime nazista è chiamato a rispondere di reati molto gravi: crimini contro la pace, crimini di guerra, crimini contro l’umanità. L’aver individuato questi crimini come gravissime violazioni dei diritti umani più elementari e dell’ordine internazionale costituisce un progresso notevole e irreversibile della civiltà giuridica.

Teniamo presente che cinque dei maggiori responsabili di quei crimini sfuggono al processo. Quattro di loro si tolgono la vita negli ultimi giorni di guerra o al momento dell’arresto o nei primi giorni del processo: si tratta di Hitler, di Goebbels, ministro della propaganda, di Ley, ministro del lavoro e responsabile per i milioni di prigionieri costretti a lavorare per la Germania e Himmler, organizzatore delle SS e maggior responsabile dello sterminio; inoltre sfugge all’arresto e quindi al processo Bormann, l’ultimo delfino di Hitler. Le condanne a morte sono dodici, dieci quelle eseguite, in quanto Goring si toglie la vita poche ore prima dell’esecuzione e Bormann risulta contumace. Altri imputati sono condannati a pene detentive, più o meno lunghe; tre sono dichiarati non colpevoli.

Il processo di Norimberga e gli altri successivi, che riguardano imputati meno famosi, aprono gli occhi agl’ignari e agl’increduli. È difficile stabilire il grado di colpevolezza o di complicità nella colpa dei cittadini del Terzo Reich.

Il filosofo esistenzialista tedesco Karl Jaspers (1883-1969), in un libro pubblicato nel 1946, intitolato “La questione della colpa”, tenta di farlo, dimostrando coraggio e franchezza. In effetti è verosimile che molti Tedeschi, soprattutto coloro che vivono in campagna o in piccoli centri, fossero all’oscuro di quanto accadeva. Gli Ebrei non sono nella Germania degli anni ‘30 una minoranza considerevole, come in Polonia, nella quale costituiscono nello stesso periodo circa il 10% della popolazione, o anche in altri paesi, come l’Ucraina, la Lituania, l’Ungheria …In Germania, alla metà degli anni ’30 sono circa lo 0,7% – 0,8%, ma molti emigrano dopo le leggi di Norimberga (1935), fortemente discriminatorie nei loro confronti. Inoltre gl’Israeliti, che fra l’altro in Germania, come in altri paesi dell’Europa occidentale, sono ben inseriti nella società, considerano la terra in cui risiedono da tanto tempo come la loro patria. Essi risiedono, come peraltro in tutti i paesi del mondo, in città grandi e medie, quasi mai in campagna o in piccoli centri.

2 – Quali sentimenti, quali pensieri si agitano nell’animo di molti giovani e più specificamente di Joseph Ratzinger? Non saremo lontani dal vero supponendo che egli provi dolore per il disastro della Germania, provocato da una cricca di criminali, e tristezza nell’avvertire che i Tedeschi sono ormai additati collettivamente, quasi che tutti siano colpevoli, come una razza spregevole, come carnefici disumani.

La famiglia Ratzinger si ricompone allorché sia Joseph, in primavera, poi anche Georg, in luglio, tornano a casa. Nell’autobiografia Joseph afferma che quei mesi, seguiti al ritorno a casa di Georg, per il quale si era in ansia, sono tra “i ricordi più belli” della sua vita. Questo non significa che l’orizzonte del futuro sacerdote e vescovo sia limitato alla sfera domestica e anche sociale, ma circoscritta a un piccolo mondo di conoscenti e amici.

È ragionevole pensare che Joseph e non solo lui provi orrore per quei crimini, risultato estremo di un veleno iniettato nelle menti, specialmente dei giovani, e insieme con quell’orrore la compassione per le vittime.

Invero la sua autobiografia non contiene diretti ed espliciti riferimenti a questo stato d’animo; lo possiamo evincere tuttavia dall’insieme della sua vita e del suo magistero.

I fratelli Ratzinger rientrano nel seminario, quello di Frisinga, ove si trovano insieme ben centoventi aspiranti sacerdoti di età molto diversa: dai quarantenni, che hanno combattuto e sono passati attraverso prove assai dure e orrori, sino a chi non ha ancora vent’anni e fra questi ultimi è Joseph.

Prima di descrivere quegli anni fecondi trascorsi in seminario egli fa questa osservazione: “Durante le feste di Natale (il Natale del 1945) riuscimmo a combinare un incontro tra i nostri compagni di classe. Molti erano caduti e a maggior ragione i reduci erano riconoscenti per il dono della vita e per la speranza che rinasceva, pur in mezzo a tutte le distruzioni”.

Egli ricorda con gioia questo periodo. “Malgrado la grande differenza di esperienze e di orizzonti – scrive ancora nell’autobiografia – ci teneva insieme una grande riconoscenza, per il fatto di essere usciti dall’abisso di quegli anni difficili. Da questa riconoscenza nasceva la volontà determinata di recuperare il tempo perso e di servire Cristo nella sua Chiesa, per un tempo nuovo e migliore, per una Germania migliore, per un mondo migliore. Nessuno dubitava che la Chiesa fosse il luogo delle nostre speranze. Malgrado le molte debolezze umane, essa era stata il polo di opposizione all’ideologia distruttiva della dittatura nazista. Essa era rimasta in piedi nell’inferno, che pure aveva ingoiato i potenti, grazie alla sua forza proveniente dall’eternità. (…) Potevamo anche vedere con i nostri occhi che la casa costruita sulla roccia si era mantenuta salda”. A questi sentimenti “si aggiungeva una fame di conoscenza, che era andata crescendo negli anni della desolazione, in cui eravamo stati esposti al moloch del potere, cui erano estranei la cultura e lo spirito”.

Tra gli autori che attirano l’interesse dei seminaristi, oltre ai testi di contenuto specificamente religioso, egli cita alcuni autori, come il romanziere russo Dostoevskij, alcuni scrittori e scrittrici tedeschi più vicini nel tempo e inoltre “i grandi francesi” come Claudel, Bernanos e Mauriac.

Ci s’interessa anche degli sviluppi delle scienze naturali, specie della fisica: “si riteneva – osserva Ratzinger – che con la svolta impressa da Plank, Eisenberg, Einstein, la scienza fosse di nuovo sulla via di Dio”. Si pensa cioè che lo scientismo proprio del secondo ‘800, per il quale l’unica conoscenza valida è quella delle scienze e l’unico modello dell’universo è il rigido determinismo, che non lascia posto alla libertà, al nuovo, a ciò che non può essere previsto e predeterminato, sia al tramonto.

Tra i pensatori religiosi ne sono citati diversi. Forse l’unico noto a qualche lettore italiano è l’italo-tedesco Romano Guardini.

Ratzinger ricorda pure con gratitudine il teologo Alfred Läpple, il “prefetto della sala di studio”, un teologo rientrato da poco dalla prigionia, studioso tra l’altro del problema della coscienza in Newman. Osserva ancora Ratzinger: “La sua presenza si rivelò per noi particolarmente stimolante, grazie all’ampiezza delle sue conoscenze di storia della filosofia e per il suo gusto per il dibattito”. Egli cita anche l’influsso esercitato su di lui dalla lettura dei due volumi “dedicati alla fondazione della teologia morale” di Theodor Steinbüchel, in cui trova “soprattutto un’eccellente introduzione al pensiero di Heidegger e Jaspers come anche alle filosofie di Nietzsche, Klages e Bergson”. Ancora più importante per lui è la lettura di un altro testo di Steinbüchel, ossia “La svolta del pensiero”, in cui l’Autore s’impegna per un ritorno alla metafisica e per una concezione che valorizza la persona. “L’incontro con il personalismo – osserva ancora Ratzinger – che poi trovammo esplicitato con grande forza persuasiva nel grande pensatore ebreo Martin Buber, fu un evento che segnò profondamente il mio cammino spirituale; anche se il personalismo, nel mio caso, si legò quasi da sé con il pensiero di Agostino, nelle “Confessioni” mi venne incontro con tutta la sua passionalità e profondità umane”.

Al suo interesse per la filosofia contribuisce il corso di un docente ancora giovane, Jacob Fellmaier, “che riuscì a trasmetterci una visione d’insieme completa su tutta la grande ricerca dello spirito umano, da Socrate e dai presocratici fino al presente, offrendoci così dieci fondamenti, di cui io ancor oggi sono grato”.

Al clima di famigliarità che Joseph trova nel seminario di Frisinga contribuisce – lo riconosce lui stesso – anche la personalità benevola e cordiale del rettore, Michael Höck, che non a caso i seminaristi chiamano padre: si tratta di un uomo che ha trascorso cinque anni nel campo di concentramento di Dachau.

Si possono fare qui due considerazioni. Innanzitutto Joseph Ratzinger ha sempre parole gentili e in qualche caso accenti di schietta ammirazione e riconoscenza per l’ambiente in cui si è formato e per le singole persone, in questo caso i maestri e le guide spirituali che egli ha trovato sul suo cammino.

In secondo luogo egli ha scoperto in Agostino un pensatore, un ispiratore nel suo itinerario che lo porterà al sacerdozio e a salire verso le vette della teologia. La dichiarazione d’amore e di venerazione che Dante, all’inizio del suo poema, fa nei confronti di Virgilio si può ripetere anche per il rapporto del futuro papa con il vescovo d’Ippona: “Tu se’ lo mio maestro, lo mio autore” (Inferno, I, 85).

3 – Dopo questo periodo, piuttosto breve ma molto intenso, Joseph Ratzinger entra nel seminario di Monaco per continuare e approfondire gli studi teologici e prepararsi al grande passo.

 Ci soffermeremo solo su alcuni suoi maestri, tutti sacerdoti e docenti esperti in questo o quell’altro ramo della scienza sacra. Egli ricorda con speciale venerazione Joseph Pascher, originario della Renania: la sua cultura spazia dalla matematica alle lingue orientali, dalla filosofia delle religioni alla pedagogia; arriva poi, passando per la teologia pastorale, alla liturgia, che negli anni di Monaco diviene “il suo vero campo di lavoro”. “Come direttore del “Georgianum” era responsabile della nostra formazione umana e sacerdotale – scrive Ratzinger -. Questo docente “sapeva spesso arrivare al nostro cuore con le sue vivissime conferenze spirituali, in cui si rivolgeva a noi in modo molto personale (…). Nel suo sistema educativo tutto si fondava sulla celebrazione quotidiana della santa messa…Grazie alle lezioni di Pascher e alla solennità con la quale c’insegnava a celebrare la liturgia, secondo il suo spirito più profondo, anch’io divenni un sostenitore del movimento liturgico. Come avevo imparato a comprendere il Nuovo Testamento, quale anima di tutta la teologia, così capii che la liturgia ne era il fondamento vitale, senza di cui essa finisce per inaridirsi”.

Non dimentichiamo che Joseph sente il fascino delle celebrazioni liturgiche sin dalla fanciullezza, quindi molto prima di trovare nel pio sacerdote Pascher un autentico innamorato.

Il riferimento al Nuovo Testamento fa pensare al docente, che, nonostante l’età piuttosto avanzata, riscuote la maggiore popolarità da parte dei seminaristi. Si tratta di Friedrich Wilhelm Maier. Questi, docente fin dai primi anni del ‘900, deve lasciare l’insegnamento, in quanto sospettato di modernismo per le sue idee circa la genesi dei Vangeli; diviene cappellano militare durante la guerra 1914-18 e poi cappellano in carcere; ritorna all’insegnamento negli anni ’20, in un nuovo clima spirituale e culturale. Egli riesce a conciliare l’esegesi critica, propria della teologia liberale, da cui proviene, e il sincero rispetto del dogma. “”Ecco perché durante i sei semestri dei miei studi teologici – osserva a distanza di tanto tempo Ratzinger – ascoltai con grande attenzione tutte le lezioni di Maier, facendole oggetto di rielaborazione personale. Per me l’esegesi è sempre rimasta il centro del mio lavoro teologico; è merito di Maier se da noi la Sacra Scrittura era diventata l’anima del nostro studio teologico, come esige il concilio Vaticano II”.

Anche per Gottlieb Söhngen il suo allievo che diverrà un eccelso teologo ha parole di sincera deferenza. Söhngen si dedica inizialmente alla filosofia, seguendo un neotomismo aperto al confronto con il pensiero moderno. Nato da un matrimonio misto, egli è sensibile all’ecumenismo, che in Germania significa soprattutto dialogo fra cattolici e luterani. Quel che è divenuto normale con il concilio Vaticano II, non lo era negli anni ’40 e ’50. “…Ciò che più caratterizzava il metodo di Söhngen – osserva ancora Ratzinger – era che egli pensava sempre a partire dalle fonti stesse, a cominciare da Aristotele e Platone, passando per Clemente e Agostino, fino ad Anselmo, Bonaventura e Tommaso, Lutero e la scuola teologica di Tubinga del secolo scorso” (il XIX). Anche Pascal e Newman erano tra i suoi autori preferiti.

Joseph Ratzinger, guardando retrospettivamente gli anni della sua formazione, si meraviglia di ciò che in seguito si è pensato della Chiesa preconciliare. “Il dogma non era sentito come un vincolo esteriore, ma come la sorgente vitale che rendeva possibili nuove conoscenze. La Chiesa per noi era viva soprattutto nella liturgia e nella grande ricchezza della tradizione teologica. Non abbiamo preso alla leggera l’esigenza del celibato, ma eravamo comunque convinti di poterci fidare dell’esperienza secolare della Chiesa e che quella rinuncia, che essa ci chiedeva e che penetrava fin nel profondo di noi, sarebbe divenuta feconda”.

Joseph comincia a preparare, dall’estate 1950 – egli ha ventitré anni – una dissertazione assegnata da Söhngen ai laureandi; il titolo è: “Popolo e casa di Dio nell’insegnamento di sant’Agostino sulla Chiesa”.

Joseph si lancia in quest’avventura più spirituale che intellettuale, facendo tesoro anche della lettura di un libro che un suo docente di Frisinga gli ha proprio allora regalato. Si tratta dell’opera “Cattolicesimo” di Henri De Lubac, un teologo gesuita francese, tra i maggiori di tutto il Novecento. “Questo libro è divenuto per me una lettura di riferimento. (…) La fede era, qui, una visione interiore divenuta nuovamente attuale proprio pensando insieme con i padri. In quel libro si percepiva il tacito confronto con il liberalismo e con il marxismo, la drammatica lotta del cattolicesimo francese per aprire una nuova breccia alla fede nella vita culturale del nostro tempo. De Lubac accompagnava il suo lettore da un modo individualistico e angustamente moralistico di credere verso il largo di una fede pensata e vissuta socialmente, comunitariamente nella sua stessa essenza, ad una fede che proprio perché era per sua stessa natura speranza investiva la totalità della storia, non si limitava a promettere al singolo la sua beatitudine privata”. Questo giudizio, tratto ancora dall’autobiografia, ci fa conoscere ancora meglio l’animo del giovane Joseph.

La dissertazione, presentata nella primavera del 1951, è giudicata meritevole del massimo dei voti (“summa cum laude”). Egli può prepararsi serenamente all’ordinazione sacerdotale, che avviene il 29 giugno seguente.