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Quesito
Carissimo Padre Angelo,
Scrivo dall’Inghilterra. Leggo spesso le Sue risposte e La ringrazio per il servizio che sta rendendo a molti fedeli e alla Chiesa.
Le scrivo per sottoporle un quesito, che mi sta letteralmente tormentando, e che mi sta facendo sorgere dubbi (contro la mia volontà) riguardo alla fede.
Vengo al dunque: si sa che la Chiesa richiede l’integrità dell’accusa nel confessionale.
Nello specifico, la Chiesa ritiene che è necessario accusare ogni peccato nel numero e nella specie.
Ora mi chiedo, la parola ‘necessario’ (che si trova nel documenti del Concilio di Trento e che e’ ribadita nell’esortazione Misericordia Dei di Giovanni Paolo II) sta qui ad indicare la disciplina del sacramento o una condizione oggettiva di validità? La differenza può apparire sottile ma e’ enorme: nel primo caso si fissa una disciplina: il credente e’ tenuto a confessare i peccati gravi nel numero e nella specie (per diritto divino). Nel secondo caso si dice che chi non accusa anche il numero (oltre la specie) dei peccati in modo integrale, anche se la sua contrizione e’ genuina e anche se cerca sinceramente di riconciliarsi con Dio, non otterrebbe comunque il perdono perche’ mancherebbe un elemento essenziale.
Le conseguenze sono enormi perche’ se fosse vera la seconda interpretazione la maggior parte delle confessioni che avvengono oggi sarebbero invalide: molti infatti non sanno del requisito del numero, e tantissimi non sanno che l’accusa deve riguardare anche i peccati indirettamente rimessi in confessioni precedenti.
Ho letto uno scritto di un moralista inglese che mi pare dica che la violazione della legge dell’integrita’ dell’accusa rende il sacramento invalido pero’ solo nella misura in cui questa violazione rivela la mancanza di sufficiente contrizione (perche’ e’ questo l’elemento essenziale). Di conseguenza, chi si confessa con contrizione e buona fede viene assolto. Inoltre dalla Sue risposte ai lettori – Padre – che manifestano dubbi circa la validita’ di confessioni passate ‘imperfette’ mi pare di capire la prima interpretazione sia quella valida.
Buon senso e infinita Misericordia di Dio (che – immagino – non tollererebbe che la maggior parte dei fedeli si ingannino circa il perdono dei propri peccati) sembrano suggerire la validita’ della prima interpretazione, ma Le chiederei a proposito una conferma.
Ci sarebbe un’altra domanda: mi pare di capire che anche per l’attrizione che dispone alla confessione e’ richiesto che si provi dolore ‘‘sommo’ per i peccati. In alcune Sue risposte pubblicate sul sito Lei specifica che non e’ necessario che vi sia un coinvolgimento sensibile ma e’ sufficiente dolore ‘‘appretiative’ sommo. Lei scrive che questo dolore ‘‘dispone il credente a subire qualunque male e a rinunziare a qualunque bene piuttosto che peccare gravemente’ e che tramite esso ‘‘il peccato viene considerato come il male più grande e la più grande disgrazia che possa capitare’.
Sono parole molto chiare ma mi fanno sorgere il dubbio circa la sufficienza del mio pentimento (e di quello di molti che si rivolgono al Sacramento della Penitenza). Per quanto mi riguarda, c’e’ una volonta’ ferma di non peccare piu’ mortalmente, ma se mi esamino con sincerita’ – siccome non sono perfetto – vedo che esistono certi mali di fronte a cui la mia volonta’ tentenna.
Per esempio immagino una sorta di test: poniamo che qualcuno venga a casa mia, prenda in ostaggio la mia famiglia e minacci di torturare mio figlio di 8 mesi a morte se non acconsento – per esempio – a fare un disegno osceno su un foglio di carta, o a derubare una certa signora.
Essendo onesto le dico che non credo resisterei.
Le sarei molto grado se mi aiutasse a capire perche’ questo dolore ‘‘appretiative sommo’ non e’ un ideale irraggiungibile ma qualcosa alla portata di tutti, secondo le intenzioni di Dio che vuole che tutti si salvino.
Mi fermo qui, lo prometto. Grazie di cuore per la Sua disponibilita’ e la Sua pazienza.
Che Dio la Benedica. La prego di dire una preghiera per me e per la mia famiglia.
Lorenzo
Risposta del sacerdote
Caro Lorenzo,
1. devo anzitutto precisare il significato dei termini.
Quando si parla di disciplina del sacramento ci si riferisce in genere alla normativa ecclesiastica, che è importante, ma in genere non essenziale per la validità del sacramento.
Fa parte della disciplina far recitare l’atto di dolore, pronunciare integralmente la formula dell’assoluzione, confessarsi possibilmente nel luogo adatto per le confessioni, ecc…
La disciplina è importante, ma può essere rimediata nelle singole circostante in vari modi.
Ciò che invece riguarda la validità del sacramento è decisamente molto più importante, perché se si omette volutamente qualche cosa non si celebra il sacramento.
Come vedi, nella spiegazione del significato dei termini mi discosto dalla tua distinzione che non è del tutto chiara.
2. Vengo adesso all’integrità dell’accusa.
La confessione è integra quando vengono accusati tutti i peccati gravi.
In via ordinaria solo per mezzo del sacramento della Penitenza viene ricuperata la grazia ed è per questo che la confessione è stata definita come un secondo battesimo.
Non è necessaria invece l’integrità dell’accusa per i peccati veniali perché questi possono essere rimessi anche per altre vie e soprattutto perché non fanno perdere la grazia.
3. L’integrità dell’accusa dei peccati viene richiesta dalla natura stessa del Sacramento che Gesù ha istituto la sera del giorno della sua risurrezione quando ha detto: “A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati” (Gv 29,22).
Come si può bene vedere dalle parole usate dal Signore, questo sacramento è ordinato alla remissione dei peccati.
Tuttavia va notato che Gesù non ha detto semplicemente: “Perdonate i peccati”, ma ha disgiunto la sua affermazione dicendo: “a chi perdonerete i peccati saranno rimessi, a chi non li perdonerete non saranno perdonati”.
In altre parole il Signore chiede a coloro ai quali ha conferito questo potere di esaminare quali siano i peccati, se vi sia il pentimento e se vi sia la volontà di porvi rimedio.
4. L’integrità dell’accusa dei peccati è richiesta per un duplice motivo, legato alla natura stessa del sacramento.
Innanzitutto per la finalità medicinale del sacramento. Il sacerdote non potrebbe suggerire i rimedi al peccato se non ne conosce la natura, la consistenza, la frequenza…
E poi per la finalità giudiciale del sacramento: il sacerdote compirebbe un atto irresponsabile se non sapesse che cosa perdona, se vi siano nel soggetto le condizioni per ricevere la grazia (il pentimento) e poter fare la Santa Comunione.
5. Per questi motivi è necessario che i peccati vengano dichiarati nel modo in cui hanno inquinato l’anima. Ad esempio, diverso è il caso di chi non abbia santificato la festa per una volta da chi abitualmente non la santifichi oppure vi provveda di tanto in tanto.
6. L’integrità dell’accusa dei peccati è di diritto divino, come ha affermato Trento: “Se qualcuno dirà che nel sacramento della Penitenza non è necessario per disposizione divina (ex iure divino) confessare tutti e singoli i peccati mortali di cui si ha la consapevolezza dopo debita e diligente riflessione, anche occulti e commessi contro i due ultimi precetti del decalogo, ed anche le circostanze che mutano la specie del peccato; o dirà che la confessione è utile soltanto ad istruire e consolare il penitente, e che un tempo fu osservata solo per imporre la penitenza canonica; o che quelli che si studiano di confessare tutti i peccati non intendono lasciar nulla alla divina misericordia perché lo perdoni; o finalmente che non è lecito confessare i peccati veniali, sia anatema” (DS 1707).
Giovanni Paolo II in Reconciliatio et Paenitentia ha ricordato che “la confessione individuale e integra dei peccati con l’assoluzione egualmente individuale costituisce l’unico modo ordinario con cui il fedele consapevole di peccato grave è riconciliato con Dio e con la Chiesa. Da questa riconferma dell’insegnamento della Chiesa risulta chiaramente che ogni peccato grave deve essere sempre dichiarato con le sue circostanze determinanti in una confessione individuale” (RP 33).
7. Sulla necessità di confessare anche la specie e le circostanze che la mutano, Trento dice: “Si deduce inoltre che devono essere spiegate in confessione anche le circostanze che mutano la specie del peccato, perché senza di esse gli stessi peccati non sono esposti integralmente dai penitenti, né appaiono ai giudici, per cui essi non possono giudicare rettamente della gravità dei crimini ed imporre ai penitenti la pena ad essa corrispondente. Perciò è contrario alla ragione insegnare che una sola circostanza debba essere confessata, e cioè di aver peccato contro i fratelli” (DS 1682).
Il si deduce e tutti e singoli i peccati mortali fa capire che le precisazioni “specie e circostanze che mutano la specie” vi sono incluse: un conto infatti è rubare ad una persona ricca (che rimane sempre peccato) e un conto è rubare a chi è nell’estrema indigenza (circostanze che mutano la specie).
Un conto è posteggiare dove c’è divieto ma non si causa nessun inconveniente, un altro contro invece è aver posteggiato in luogo di divieto e aver impedito il passaggio dell’ambulanza, causando la morte di un malato o un peggioramento delle sue condizioni.
8. Per evitare angosce nei penitenti la Chiesa nel Concilio di Trento ha detto che è sufficiente accusare quanto uno in quel momento ricorda dopo aver fatto un diligente esame di coscienza.
“Tutti gli altri peccati che non tornano alla memoria di chi ha riflettuto diligentemente, s’intendono inclusi complessivamente nella medesima confessione; per essi diciamo col Profeta: “Assolvimi dalle colpe che non vedo” (Sal 18,13)” (DS 1682).
Questa è quella i teologi chiamano integrità soggettiva, perché è quella presente nel soggetto che ricorda i peccati da accusare.
E si distingue dall’integrità oggettiva o materiale che non tutti sul momento riescono ad avere, soprattutto se è da tanto tempo che non si confessano.
Per la tranquillità delle coscienze la Chiesa chiede l’integrità soggettiva, non quella materiale.
Con questa distinzione vengono eliminati i dubbi che ti vengono sulla validità delle confessioni dei fedeli.
9. Giovanni Paolo II, in un messaggio alla Penitenzieria (22.3.1996) ha ribadito che “la confessione deve essere integra, nel senso che deve enunciare tutti i peccati mortali” (cfr. Trento, sess. XIV, cap. 5) e che questa necessità non è “semplice prescrizione disciplinare della Chiesa”, ma “di diritto divino, perché nella stessa istituzione del sacramento così il Signore ha stabilito”.
Il Papa poi prosegue: “Purtroppo oggi non pochi fedeli accostandosi al sacramento della penitenza non fanno l’accusa completa dei peccati mortali, nel senso ora ricordato del Concilio Tridentino e, talvolta, reagiscono al sacerdote confessore, che doverosamente interroga in ordine alla necessaria completezza, quasi che egli si permettesse una indebita intrusione nel sacrario della coscienza.
Mi auguro e prego affinché questi fedeli poco illuminati restino convinti, anche in forza di questo presente insegnamento, che la norma per cui si esige la completezza specifica e numerica, per quanto la memoria onestamente interrogata consente di conoscere, non è un peso imposto ad essi arbitrariamente, ma un mezzo di liberazione e di serenità”.
10. Tra le varie caratteristiche del pentimento si richiede anche che sia sommo, e si precisa subito: non nell’intensità dei sentimenti, ma nel giudizio di coscienza.
Tu mi chiedi se questo debba esserci anche nell’attrizione che è il pentimento dei propri peccati causato dal timore di andare all’inferno in caso di morte improvvisa.
Ebbene questo è un dolore imperfetto dei propri peccati.
Ma questo dolore viene perfezionato nella confessione stessa dalla contrizione cui si giunge mediante l’atto di dolore, soprattutto quando si giunge a dire: “e molto più perché ho offeso te, infinitamente buone e degno di essere amato sopra ogni cosa” e “propongo di non offenderti mai più e di fuggire le occasione prossime del peccato” e l’assoluzione del sacerdote.
Se non si esce dalla confessione con questi sentimenti di contrizione si può parlare di riconciliazione, di vera comunione? Evidentemente no.
È vero che si può temere qualche tentennamento sul proprio futuro.
Ma quanto la Chiesa chiede è che sul momento in cui si viene riconciliati ci sia almeno nel giudizio di coscienza la consapevolezza di aver compiuto un grande male, cooperando con altri alla crocifissione di Nostro Signore.
In passato si diceva che un buon confessore sa portare il penitente dall’attrizione alla contrizione vera.
Con l’augurio di aver sempre un buon confessore a tua portata di mano, ti ricordo al Signore e ti benedico.
Padre Angelo