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Quesito
Reverendo Padre Angelo;
Le scrivo nuovamente, come già ho fatto alcuni giorni fa (mi scusi, a proposito, se le scrivo subito di nuovo, prima ancora di ricevere una risposta alla mia precedente email), per porre un’altra domanda di bioetica, riguardante, nello specifico, il tema dell’aborto procurato.
In particolare, la domanda è questa: è lecito che uno Stato, nel proprio ordinamento, pur vietando e sanzionando l’aborto volontario, preveda una eccezione per l’aborto diretto effettuato in caso di pericolo per la vita della madre?
Discutendo con varie persone (tutti cattolici che, come me, si interessano di questi temi) o leggendo i pareri di varie personalità note del mondo cattolico (medici, giuristi, bioeticisti, ecc…), mi sono reso conto di come molti ritengano che in questo caso "estremo" di pericolo per la vita della donna, l’aborto volontario debba comunque essere legale.
Gli argomenti a sostegno di questa tesi sono vari (e, a mio parere, tutti "traballanti", se non del tutto infondati):
– alcuni ritengono che in questo caso l’aborto costituirebbe una "legittima difesa" da parte della donna (ma sappiamo che il nascituro non è un ingiusto aggressore e, se anche lo fosse, non sarebbe comunque lecito l’omicidio diretto…);
– altri affermano che negare l’aborto diretto in questi casi significherebbe imporre alla donna un atto di eroismo, facendole correre un rischio mortale – o, addirittura, costringendola a morire -, per cui la decisione se abortire o meno dovrebbe essere lasciata alla donna stessa (tuttavia, nessuno, nemmeno se in condizioni di estremo pericolo, può disporre della vita di un altro essere umano: è invece doveroso fornire alla madre delle terapie lecite);
– altri ancora affermano che, in questa circostanza, non si tratterebbe di legalizzazione, ma – analogamente a quanto avveniva prima della legge 194/78 – di non punibilità: lo Stato giudicherebbe comunque negativamente l’aborto diretto, ma, vista l’eccezionalità del caso e la gravità del pericolo, in questa circostanza rinuncerebbe a punire i responsabili (questo ragionamento mi sembra abbastanza capzioso: gli unici strumenti a disposizione dello Stato sono il porre divieti e lo stabilire sanzioni: affermare la negatività dell’aborto diretto "terapeutico", ma poi non vietarlo né sanzionarlo equivale, a mio parere, a renderlo legale);
– anche negli Stati aventi una legislazione molto restrittiva in materia di aborto (alcuni dicono perfino nello stesso Stato del Vaticano), la Chiesa non sarebbe mai intervenuta per chiedere che il divieto venisse esteso anche al caso del pericolo di vita della donna;
– e così via … .
Io, dunque, come già accennato, non sono d’accordo con questa ipotesi di legalizzazione "parziale": sappiamo che uccidere deliberatamente un essere umano non è lecito in nessuna circostanza; dunque lo Stato non può permettere che ciò avvenga impunemente: il bambino ha lo stesso diritto alla vita della madre.
Inoltre, sappiamo che il diritto positivo ha valore solo se fondato sul diritto naturale: ebbene, se la legge naturale afferma l’illiceità di ogni forma di omicidio diretto, la legge dello Stato non ha alcun potere di contraddire questo principio.
Io penso che una possibile soluzione potrebbe essere costituita da una introduzione, anche nell’ordinamento, di una distinzione tra aborto diretto – sempre illecito – e aborto indiretto – lecito a precise condizioni – come già avviene dal punto di vista morale e bioetico (ma non essendo io un esperto di questioni giuridiche, lascio valutare ai giuristi la fattibilità e i modi) .
Lei cosa ne pensa?
La legalità/non-punibilità dell’aborto diretto da parte dello Stato in queste circostanze è moralmente ammissibile?
In attesa di una Sua gentile risposta, La ringrazio anticipatamente e Le porgo cordiali saluti.
Luca
Risposta del sacerdote
Caro Luca,
1. la Chiesa ha espresso il no anche per l’aborto terapeutico con una dichiarazione del S. Ufficio del 24 luglio 1895, confermata dal papa il giorno successivo (DS 3298).
Ne ha parlato anche Pio XI nella Casti connubii nel 1930, come tra breve ti dirò.
2. Per aborto terapeutico s’intende quell’intervento che ha per oggetto la rimozione (e cioè l’uccisione) del bambino nel caso in cui la donna incinta corresse pericolo di vita.
È un atto di aborto diretto, procurato, distinto per la sua stessa tipologia dall’aborto indiretto, come si vedrà.
Fortunatamente sul piano scientifico non si pone più o quasi più il dilemma della salvezza della madre o del figlio. Da anni scienziati illustri affermano che non esiste una malattia della gestante che esiga in nome della sua guarigione o di una sua cura l’interruzione volontaria della gravidanza.
3. Il problema rimane ancora sul piano morale.
Allora innanzitutto bisogna dire che non è corretto porre il dilemma: salviamo la madre o il figlio, perché nessuno di noi ha questo potere sulla vita degli altri. Piuttosto si deve fare il possibile per salvare tutti e due.
In questo senso si è espresso Pio XI nella Casti connubii: “Per quanto riguarda la «indicazione medica e terapeutica» — per adoperare le loro stesse parole — già abbiamo detto, Venerabili Fratelli, quanta compassione Noi sentiamo per la madre, la quale, per ufficio di natura, si trova esposta a gravi pericoli, sia della salute, sia della stessa vita: ma quale ragione potrà mai aver forza da rendere scusabile, in qualsiasi modo, la diretta uccisione dell’innocente? Perché qui si tratta appunto di questa. Sia che essa si infligga alla madre, sia che si cagioni alla prole, è sempre contro il comando di Dio e la voce stessa della natura: «Non ammazzare!».
È infatti egualmente sacra la vita dell’una e dell’altra persona, a distruggere la quale non potrà mai concedersi potere alcuno, nemmeno all’autorità pubblica.
E, con somma leggerezza, questo potere si fa derivare, contro innocenti, dal diritto di spada, che vale solo contro i rei; né ha qui luogo il diritto di difesa, fino al sangue, contro l’ingiusto aggressore (chi, infatti, chiamerebbe ingiusto aggressore una innocente creaturina?); né può essere, in alcun modo, il diritto che dicono «diritto di estrema necessità», e che possa giungere fino all’uccisione diretta dell’innocente. Pertanto i medici probi e capaci si adoperano lodevolmente a difendere e conservare sia la vita della madre, sia quella della prole; per contro si farebbero conoscere indegnissimi del nobile titolo di medici coloro che, sotto il pretesto di usare l’arte medica, o per malintesa pietà, insidiassero alla vita della madre o della prole” (Pio XI, Casti connubii, EE, V, 509).
4. Ho voluto mettere in corsivo le parole del Papa “È infatti egualmente sacra la vita dell’una e dell’altra persona, a distruggere la quale non potrà mai concedersi potere alcuno, nemmeno all’autorità pubblica” per dire che non corrisponde al vero che la Chiesa non abbia condannato l’aborto terapeutico o che non abbia detto nulla sulla possibilità che lo stato lo conceda.
5. La motivazione è presentata in termini molto precisi da Pio XII nel famoso discorso alle ostetriche (29.X.1951): “Uomo è il bambino, anche non ancora nato; allo stesso grado e per lo stesso titolo che la madre. Inoltre ogni essere umano, anche il bambino nel seno della madre, ha il diritto alla vita, diritto che proviene immediatamente da Dio, non dai genitori, né da qualsiasi società e autorità umana. Quindi non vi è nessun uomo, nessuna autorità umana, nessuna scienza, nessuna indicazione medica, eugenica, sociale, economica, morale, che possa esibire o dare un valido titolo giuridico per una diretta, deliberata disposizione sopra una vita umana innocente, vale a dire una disposizione che miri alla sua distruzione”.
6. Né si può dire che si potrebbe sopprimere il bambino perché la Chiesa ha sempre insegnato che è lecito tutelarsi nel caso di ingiusta aggressione fino al punto da procurare la morte dell’aggressore.
Infatti il bambino nel grembo materno in nessun modo può essere considerato ingiusto aggressore.
E questo per tre motivi:
– non ha alcuna intenzione di recare danno alla madre;
– non si trova nell’utero della madre per volontà propria;
– non ha alcun interesse a danneggiare la salute della gestante, anzi, potendolo, avrebbe ogni interesse a salvaguardarla, perché da essa dipende il suo personale futuro.
7. Rifiutare l’aborto terapeutico certamente richiede per una donna l’accettazione di un grande sacrificio.
Ma nessuno ha il potere di sopprimere una vita umana innocente e indifesa. Questo potere non ce l’ha né la madre, né il padre, né il medico, né lo stato.
Pertanto la soluzione sta nel tentare di salvare tutti e due, perché tutti e due hanno il medesimo diritto alla vita. La madre non c’è l’ha più del figlio.
8. Si può essere d’accordo che lo stato rinunci a punire parzialmente l’aborto terapeutico.
Ma con questo non si viene a dire che l’aborto clandestino sia lecito.
Né si può dire che lo stato lo possa attuare nelle sue strutture perché non è padrone della vita delle persone, ma ne è servitore.
E come tale ha il dovere di proteggere soprattutto i più piccoli, i più indifesi, tanto più che sono innocenti.
9. Pertanto lo stato in nessun caso può legalizzare anche solo parzialmente l’aborto.
Tanto meno lo può garantire come un diritto per le donne accollandosene la spesa.
Rinunciare a punirlo parzialmente in determinati casi non è la stessa cosa che approvarlo.
10. Potrebbe invece garantire l’aborto indiretto, e cioè quell’intervento sulla madre per cui l’aborto sarebbe solo conseguenza magari anche prevista ma in nessun modo voluta?
Di per sé non c’è bisogno di garantirlo per legge, perché l’aborto indiretto propriamente non è l’obiettivo dell’intervento sul corpo della donna, ma solo la conseguenza di un atto assolutamente grave e urgente che si doveva attuare.
Pio XII ne aveva parlato come di un intervento sulla donna che si sarebbe compiuto “indipendentemente dall’essere incinta” qualora si “richiedesse con urgenza un’operazione chirurgica o un’altra terapia che avrebbe, come conseguenza secondaria, in nessun modo voluta o perseguita, ma inevitabile, la morte del feto” (26.XI.1951).
11. La legge, se fosse necessario, potrebbe ricordare quali siano i casi nei quali si configura l’aborto indiretto.
Essi sono i seguenti quattro:
– l’azione deve essere in se stessa buona o almeno indifferente;
– l’effetto buono deve essere raggiunto immediatamente e non mediante l’effetto cattivo. Non è lecito infatti fare il male perché ne venga fuori il bene (Rm 3,8);
– ci deve essere un motivo o un bene proporzionato all’effetto negativo previsto, e cioè il male che ne deriva non sia superiore al bene che si vuole raggiungere;
– deve essere l’unica via percorribile e con una vera necessità.
12. Pio XII aveva usato altre parole: “In queste condizioni, l’operazione può essere lecita, come sarebbero leciti interventi medici similari, purché si tratti di un bene di elevato valore, quale la vita, e che non sia possibile rimandare l’operazione a dopo la nascita del bambino, né far ricorso ad altro rimedio efficace”.
Ti ringrazio di avermi dato l’opportunità di puntualizzare la dottrina della Chiesa che sostanzialmente tu avevi già esposto ai tuoi interlocutori.
Ti auguro ogni bene, ti ricordo al Signore e ti benedico.
Padre Angelo