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Quesito
Rev. mo Padre Angelo,
le reco un ulteriore disturbo per chiedere la sua opinione su una questione non nuova per gli utenti del sito, che però vorrei “rievocare” sotto un’angolatura leggermente diversa rispetto a quella già proposta da altri visitatori.
Si tratta della questione relativa all’accanimento terapeutico.
Il quesito che le pongo parte dalla seguente ottica: provo a pormi nei panni di un giudice chiamato a decidere sulla qualificazione giuridica di un atto analogo a quello perpetrato nei confronti di Piergiorgio Welby (distacco del respiratore). Oppure, nei panni del legislatore che dovrà regolamentare l’arduo tema.
Ciò che mi chiedo (e le chiedo) è: risulterebbe, a suo parere, così distante dall’insegnamento della Chiesa parlare (nell’ottica giuridica che le propongo) di accanimento terapeutico laddove ricorrano – cumulativamente – le seguenti tre condizioni:
1) sussistenza di una patologia dalla prognosi certamente infausta;
2) sostituzione delle funzioni di un organo vitale, divenuto incapace di autonomo funzionamento, con un meccanismo sostitutivo artificiale nei cui confronti il paziente vive, dunque, una relazione di totale dipendenza (ad es., il respiratore artificiale);
3) manifestazione della volontà del paziente contraria alla prosecuzione del “trattamento” di cui al precedente punto?
So che Giovanni Paolo II, nella Evangelium Vitae, ha ricollegato il concetto di accanimento terapeutico alla “imminenza” della morte. Ma tale concetto di “imminenza”, di assoluta comprensibilità sul piano della valutazione morale del gesto, è per converso poco utile per l’ordinamento giuridico di uno Stato, perché “fattualmente” piuttosto vago e difficilmente “quantificabile”.
Per converso, il catechismo della Chiesa Cattolica (par. 2278) parla di “rinuncia all’accanimento terapeutico” laddove vi sia l’interruzione di “procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi”, chiarendo altresì che – nel rispetto di tali paletti – “le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità”. Alla luce di questo specifico inquadramento, non mi pare così distante dal concetto – così chiarito – di “accanimento terapeutico” l’ipotesi di un trattamento artificiale, integralmente sostitutivo di una funzione vitale e privo di prospettive autenticamente “terapeutiche” data la prognosi sicuramente infausta, che venga posto in essere nonostante il cosciente rifiuto da parte del paziente.
Il fatto è che percepisco, nell’ottica dell’affermazione di un giusto equilibrio nel rapporto fra Stato ed Etica, l’esigenza di individuare una giusta via mediana fra due estremi.
Da un lato, inorridisco dinanzi all’avanzare di una logica “dell’autodeterminazione” che si traduce nell’affermazione egocentrica della propria illimitabile libertà di azione a discapito di qualsivoglia vincolo di relazione. E quindi, la volontà del paziente – pure se importante – non può senz’altro ergersi a unico e arbitrario parametro della liceità o meno dell’agire del medico: pena la riconduzione di quest’ultimo a mero “erogatore automatico di servizi sanitari a gettone”, e l’adesione dello Stato ad una logica contrattualistica pura, priva di finalità super-individuale (e quindi, sostanzialmente, priva di un reale senso). L’accanimento terapeutico “chiama” un contenuto che vada al di là della mera volontà del paziente, e che sia riconducibile a dati naturalistici accertabili.
Dall’altro lato, però, se la prognosi è infausta, e se la macchina è chiamata a sostituirsi ad un organo vitale il cui autonomo funzionamento è ormai definitivamente compromesso, davvero mi sorge il dubbio che – con riguardo al paziente non più desideroso di proseguire il “trattamento” – si stia solamente rifiutando l’idea di non poter impedire la morte. Percepisco, in altri termini, il rischio dell’uomo quale mera “continuità” della macchina. D’altro canto, nessun medico potrebbe certamente coartare la volontà del paziente con interventi contrari ad essa se – a monte – il paziente stesso, a fronte di una prognosi infausta, rifiutasse “in nuce” l’applicazione del respiratore artificiale: cosicché, mi risulterebbe difficile comprendere la ragione per la quale – a valle – la medesima volontà, sostenuta dagli stessi presupposti di fatto cumulativamente sussistenti (prognosi infausta e compromissione dell’organo vitale) non possa essere parimenti valorizzata.
Uno Stato che traducesse in norma tali ragionamenti, sarebbe distante dall’insegnamento della Chiesa?
Mi scuso con lei per la lunghezza della mia domanda, ma mi stava a cuore cercare di spiegarle con completezza le “radici” del mio dubbio.
Naturalmente, come sempre, con convinzione “occupo l’ultimo posto alla mensa”, chiedendole di rispondermi solo se e quando dovesse avere tempo e voglia di farlo.
Da parte mia, le assicuro la mia povera preghiera, e le rinnovo la mia profonda gratitudine.
Antonio C.
Risposta del sacerdote
Caro Antonio,
1. in data 30 luglio ho risposto ad un quesito abbastanza simile al tuo.
Non è stato ancora pubblicato, perché in genere rispettiamo l’ordine cronologico delle e-mail.
Ti invio in ante prima la parte centrale della risposta, tratta da un editoriale della rivista Medicina e Morale (2007/1), scritto da Angelo Fiori.
“La morte è avvenuta, in una fase non terminale, per il concorrere della malattia stessa con la somministrazione di un sedativo e l’interruzione dell’erogazione di ossigeno. È probabile che il farmaco iniettato dal medico non fosse in dose letale perché altrimenti il decesso sarebbe avvenuto in pochi minuti anziché in quaranta, come si è appreso. Nel contempo è tuttavia ragionevole ritenere che il farmaco, per la sua stessa natura, abbia concorso a produrre depressione respiratoria mentre la sospensione dell’ossigeno ha avuto un ruolo probabilmente preminente ma non immediato indicando che forse una residua capacità respiratoria spontanea esisteva. È noto che la soppressione totale dell’ossigeno porta a morte in qualche minuto, come avviene nei casi di annegamento o di ingresso in ambiente totalmente anaerobico, evento che non di rado avviene a danno di operai.
La causa della morte è dunque identificabile sicuramente nella grave ipossia (insufficiente ossigenazione del sangue) prodotta congiuntamente dalla malattia di base e dalla soppressione dell’ossigeno, con il contributo non quantificabile del farmaco sedativo.
(…)
Il concetto di eutanasia è semplice, tanto che lo si può rinvenire nei comuni dizionari come il Devoto Oli che la definisce "morte serena e indolore" e "teoria medico-giuridica secondo cui è lecito dare una morte tranquilla, a mezzo di narcotici, agli infermi atrocemente sofferenti e inguaribile, inammissibile dal punto di vista del diritto positivo e della morale cristiana
In realtà i modi per attuarla – con azioni od omissioni deliberate – sono molteplici a seconda dei casi. Ciò che li accomuna è la finalità di provocare la morte, poco rilevando, sotto questo profilo, le motivazioni di chi la chiede e di chi la provoca (spesso non richiesto), le quali possono essere varie e costituire talora cause di parziale giustificazione per il richiedente.
Il caso di Piergiorgio Welby ha tutti i caratteri che configurano un atto eutanasico, in quanto il paziente, cosciente e lucido, non giunto ad una fase terminale della sua malattia, chiedeva la morte e l’opera del medico intervenuto è stata finalizzata a realizzare il progetto del paziente sopprimendo la sua sofferenza attraverso la soppressione della vita. L’interruzione del sostegno vitale è stato un mezzo per provocare la morte richiesta, non un fine. Si tratta nient’altro che di eutanasia, in questo caso "attiva" – perché attuata con una duplice condotta di azione, l’iniezione del farmaco ed il distacco dell’erogatore di ossigeno – ed è, dal punto di vista materiale e giuridico, l’uccisione di un consenziente diversa, nelle modalità ma non nell’intento, dal suicidio assistito” (pp.10-11).
2. Tu tocchi anche altri argomenti.
Ad esempio domandi se: sia così distante dall’insegnamento della Chiesa parlare di accanimento terapeutico laddove ricorrano – cumulativamente – le seguenti tre condizioni: 1) sussistenza di una patologia dalla prognosi certamente infausta; 2) sostituzione delle funzioni di un organo vitale, divenuto incapace di autonomo funzionamento, con un meccanismo sostitutivo artificiale nei cui confronti il paziente vive, dunque, una relazione di totale dipendenza (ad es., il respiratore artificiale); 3) manifestazione della volontà del paziente contraria alla prosecuzione del “trattamento” di cui al precedente punto?
Se mi soffermassi solo ai criteri da te esposti, dovrei dire che ad esempio la sostituzione di valvole attorno al cuore con apparecchi artificiali si configuri come accanimento terapeutico. Penso che questo nessuno lo possa sostenere.
Gli studiosi sono d’accordo nel presentare l’accanimento terapeutico come quell’insieme di iniziative clinico assistenziali di carattere piuttosto eccezionale che vengono attuate intorno a un malato terminale, cioè in condizioni gravissime e già piuttosto prossimo alla fine. Lo scopo, nelle intenzioni dei sanitari, è la volontà di rallentare a ogni costo l’approssimarsi della fine, pur sapendo che ormai non dispongono più di vere terapie, capaci di migliorare le condizioni sanitarie o di bloccare il male.
Si tratta di un’ostinazione «futile» a proseguire terapie, che si sono dimostrate inutili o sproporzionatamente gravose per il malato, per il fatto che non migliorano la sua condizione né impediscono la morte per un tempo ragionevole, e, anzi, di un’ostinazione dannosa per il paziente che viene inutilmente sottoposto a gravi sofferenze.
È più giusto pertanto usare il linguaggio del CCC il quale parla di rinuncia a “procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi”.
3. Sono d’accordo nel dire che Welby aveva diritto a non sottoporsi ad un intervento chirurgico che non voleva e che considerava sproporzionato.
Ma quell’intervento è stato compiuto.
Non entro in merito alla questione di chi abbia preso la decisione di intervenire.
Possiamo pensare però che chi ha preso tale decisione non abbia considerato sproporzionato l’intervento e che fosse sicuro di rendere un servizio prezioso a Piergiorgio.
Ma in questo come in altri casi, una volta compiuto l’intervento e salvata una persona da una morte imminente, non si può poi procedere ad un intervento eutanasico, perché la vita ricuperata non si presenta secondo le attese.
L’intervento chirurgico forse poteva essere considerato sproporzionato. E qui, ripeto, andava tenuta nel debito conto la volontà di Welby.
Ma la sua sopravvivenza con il respiratore artificiale non costituiva un intervento sproporzionato. Non era un malato terminale. La sua morte non era giudicata prossima.
Certo sotto il profilo biologico viveva in condizioni molto precarie. Ma la sua intelligenza e la sua capacità decisionale è stata vivissima fino alla fine.
4. Tu ti domandi: se la prognosi è infausta, e se la macchina è chiamata a sostituirsi ad un organo vitale il cui autonomo funzionamento è ormai definitivamente compromesso, davvero mi sorge il dubbio che – con riguardo al paziente non più desideroso di proseguire il “trattamento” – si stia solamente rifiutando l’idea di non poter impedire la morte.
Anche qui bisogna esser cauti, perché anche quelli che sono in trattamento di insulina, lasciati a se stessi, sono esposti ad una prognosi infausta. E vivono nella continua dipendenza di un prodotto artificiale.
Tu mi dirai: un prodotto non è un organo. È vero, ma lo stesso discorso si potrebbe fare per coloro che sono in dialisi permanente. E come sai vanno avanti per decine di anni. Lasciati a se stessi, nel giorno di qualche giorno morirebbero.
E che dire di quelli che devono vivere continuamente con la bomboletta di ossigeno? E andando avanti, se un giorno si potesse sostituire un cuore ormai non più funzionante con un cuore artificiale?
Nel caso di Welby, assistito con un respiratore artificiale, non si trattava semplicemente di allontanare la morte da un corpo che ormai era quasi morto, ma di dargli una sopravvivenza che, se fosse stata accompagnata diversamente, avrebbe potuto dire e dare molte cose buone. Si pensi semplicemente a Giovanna Benzi, che per moltissimi anni è stata rinchiusa in un polmone d’acciaio.
Ti ringrazio di aver attirato l’attenzione su questi problemi, che tra breve saranno di nuovo soggetti a discussione a motivo del cosiddetto testamento bioloigco.
Ti assicuro una mia preghiera e ti benedico.
Padre Angelo