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Sulla via di Roma – Il concilio Vaticano II
“Venne un uomo chiamato Giovanni” (Vangelo secondo Giovanni, 1:6). Con questa concisa citazione evangelica ci affacciamo su un evento che certo coinvolge Joseph Ratzinger, ma che soprattutto costituisce un capitolo fondamentale nella storia della Chiesa cattolica, il più significativo del XX secolo.
L’uomo che nel gennaio 1959 annuncia il grande evento ecclesiale è Angelo Roncalli (1881-1963), eletto papa tre mesi prima e che ha assunto il nome di Giovanni XXIII.
Nella sua autobiografia Ratzinger non dedica al concilio uno spazio molto ampio, se raffrontato ad altri eventi, importanti per lui ma assai meno in un quadro generale.
Può parere sorprendente che, nella sua autobiografia, egli accenni appena a papa Giovanni e nomini Paolo VI, quasi incidentalmente, come il “grande papa del concilio”. Non si pensi che egli sottovaluti queste due personalità; su di loro torna, con grande deferenza e ammirazione in diversi interventi successivi: ne citeremo più avanti qualcuno.
Rimane sullo sfondo il predecessore immediato di papa Giovanni, ossia Pio XII. Venerato e amato da molti, non solo entro i confini del cattolicesimo (non sono mancati p.es. attestati di gratitudine e stima da parte di ebrei che non dimenticano le sue iniziative in loro difesa durante il secondo conflitto mondiale), ma anche detestato e dileggiato. Lo si ricorda spesso per l’avversione intransigente al socialcomunismo, considerato incompatibile, sia come ideologia sia nella prassi, con la civiltà cristiana.
Forse è ancora più caratteristico il suo autentico culto della bellezza verginale: è lui che proclama il dogma di Maria assunta in cielo ed è lui che innalza all’onore degli altari, fra gli altri, un sacerdote fondatore di una nuova famiglia religiosa, quale il francese Luigi Grignon de Monfort, il papa Pio X nonché Gemma Galgani e Maria Goretti.
Ritengo che la storia debba ancora, prima o poi, rendere giustizia alla grandezza tragica, perché spesso solitaria e incompresa, di quest’uomo colto, purificato dalla lunga pratica ascetica e innamorato del gregge a lui affidato. La definizione di “pastor angelicus” condensa bene i tratti della sua personalità.
Una pagina nuova si apre con Giovanni XXIII, per lo stile di governo e per l’amabilità del tratto, che lo porta a dialogare con tutti, ossia con chi è nella Chiesa, con chi è cristiano non cattolico, con i credenti di altre fedi, con le persone di buona volontà.
La vita illibata sin dall’adolescenza, il concorso di tante belle qualità, come si evince dalle pagine del suo “Giornale dell’anima”, la serena e incrollabile confidenza in Dio gli assicurano il consenso di molta parte dell’opinione pubblica mondiale, che va al di là dei fedeli cattolici.
Non risulta che il giovane Ratzinger abbia incontrato direttamente papa Giovanni al tempo del concilio, ma ciò non toglie che lo ammiri molto, come si evince dal seguente brano:
“La grande figura di papa Giovanni rappresenta per molti versi un enigma. Con la sua idea dell’aggiornamento ha creato un nuovo modello conciliare e ha dato una svolta fino ad allora impensabile alla storia della Chiesa del ventesimo secolo. Ma da quali fonti scaturiva questo impulso? Prevale largamente l’impressione che in realtà si sia trattato più che altro di uno sviluppo casuale, del quale il semplice e buon sacerdote di Sotto il Monte non poteva ignorare l’importanza.
Il fatto che lui stesso si sia definito un sacco vuoto che lo Spirito Santo ha riempito improvvisamente di forza, sembra come una conferma diretta di questa teoria dalla sua stessa bocca. Ma quale tra i suoi predecessori avrebbe potuto avere il coraggio, l’autodistacco e l’autoironia, la libertà e la sovranità interiore dinanzi alle pressanti esigenze del ministero papale, per parlare di sé in questi termini, senza temere di compromettere se stesso o il proprio ministero?
Chi di loro, senza l’accuratezza del modo di parlare curiale o teologico, avrebbe potuto esprimere con un’immagine tanto diretta e vigorosa l’esperienza della sola gratia, che qui non viene ripetuta solo perché la si è appresa dai libri, ma viene detta in modo nuovo con vivacità, a partire dall’esperienza personale più matura, evitando tutte le teorie, e che pertanto è talmente emozionante da essere riconosciuta come verità?
Chi riesce a parlare in modo tanto diretto, tanto personale e tanto libero, non è un parroco di campagna portato improvvisamente in alto da un caso della storia, che non sa ciò che fa, ma fa parte dei pochi che sono veramente grandi, i quali, superando tutti gli schemi, sperimentano di persona in modo creativamente nuovo ciò che è all’origine, la verità stessa, e riescono a porlo nuovamente in rilievo.” (Benedetto XVI, Corriere della sera, 25/04/2014)
A Giovanni XXIII, il “papa Buono”, come viene spesso, affettuosamente chiamato, succede un altro lombardo, precisamente un bresciano, Giovanni Battista Montini (1897-1978), arcivescovo di Milano dal 1954 e cardinale, che papa Giovanni tiene in grande considerazione. D’indole riservata, prudente, formatosi nell’ambiente romano e curiale, riceve dal predecessore l’eredità gravosa di un concilio, che egli, come apprendiamo da qualche testimonianza, non avrebbe convocato. Paolo VI si dimostra un timoniere coraggioso della barca di Pietro.
Imitando l’”apostolo delle genti”, del quale assume il nome come vescovo di Roma, intraprende numerosi viaggi apostolici in paesi europei ed extraeuropei. Prende posizione con interventi ed encicliche su problemi diversi e di portata universale: così nella “Populorum progressio” si pronuncia sulla questione della giustizia sociale su scala planetaria, mentre nella “Humanae Vitae” difende una sessualità orientata alla vita: è di volta in volta giudicato progressista e conservatore, mentre in un caso e nell’altro è semplicemente fedele al Vangelo. Salva il concilio dagl’impulsi opposti, cioè sia dalle resistenze ai nuovi compiti dei cristiani, p. es. nel rapporto con una società via via più secolarizzata, sia dalle fughe in avanti. Durante i quindici anni del suo pontificato sono numerosi coloro che abbandonano il sacerdozio e la vita religiosa, soprattutto nei paesi di antica evangelizzazione, anche se nell’ultimo periodo si avverte un risveglio proprio in questo campo.
Il giovane Ratzinger, per quanto partecipi al Concilio, non incontra direttamente il Papa. Tuttavia è proprio Paolo VI che nel 1977 gli affida la cura pastorale della diocesi di Monaco e Frisinga, creandolo al contempo cardinale. Ecco uno stralcio di un’intervista al cardinale Giovanni Battista Re, pubblicata su “L’osservatore romano”:
“”Sovrumano”: così Benedetto XVI ha definito il 3 agosto dello scorso anno, “il merito di Paolo VI nel presiedere l’assise conciliare, nel condurla felicemente a termine e nel governare la movimentata fase del post-Concilio”. Dal canto suo Paolo VI definì Ratzinger “insigne maestro di teologia”. Quando è nato questo feeling tra i due Pontefici?
Dopo il concilio Vaticano II. Infatti, anche se il professor Ratzinger fu presente al concilio come perito, non risulta che Paolo VI lo abbia incontrato in quel periodo. (…) Paolo VI cominciò soltanto dopo a seguire il lavoro teologico dell’allora professor Ratzinger. Nella biblioteca personale di Montini vi era, dal 1970, per esempio, il volume Introduzione al cristianesimo di Joseph Ratzinger. (…) Il 25 marzo 1977, Paolo VI nominò il professor Ratzinger arcivescovo di Monaco e Frisinga e lo creò cardinale nel Concistoro del 27 giugno seguente, qualificandolo – nelle parole espresse in quell’occasione – come “insigne maestro di teologia”. Questo a dimostrazione della sua profonda ammirazione.
(…)
Come formazione i due Pontefici sembrano molto diversi l’uno dall’altro.
Effettivamente provengono da radici, da ambienti formativi, da tradizioni ed esperienze alquanto diverse. Sono due personalità molto differenti ma ambedue di eccezionale intelligenza e profonda spiritualità, impegnate nel confronto con la modernità. Il giovane prelato bresciano aveva esercitato a Roma il ministero sacerdotale negli ambienti universitari della Fuci, riuscendo in seguito a mantenere, nonostante il crescere delle responsabilità, una cerchia di amici appartenenti al mondo della cultura, con i quali condivideva un appassionato approfondimento della verità, in un costante sforzo di dialogo col mondo contemporaneo con un linguaggio aperto ai grandi interrogativi dell’umanità.
Così, il rapporto del professor Joseph Ratzinger con i suoi numerosi studenti universitari fu certamente ispirato dallo stesso amore per lo studio e dal medesimo desiderio di veder crescere nel cuore dei giovani allievi il germe della verità che rende liberi.
Sgorga da qui un tratto singolare comune a entrambi i Papi: la loro cultura e la loro apertura al dialogo. Paolo VI apprezzò profondamente gli uomini di cultura e gli artisti e cercò di aprire il dialogo anche con quanti di essi erano lontani dalla fede cattolica. Egli ha amato intensamente il nostro mondo moderno, circa il quale nel testamento dirà: “Non si creda di giovare al mondo assumendone i pensieri, i costumi e i gusti, ma studiandolo, amandolo, servendolo”. La sua prima enciclica sarà proprio dedicata in ampia parte al dialogo; un dialogo ispirato da una profonda ansia pastorale.
Così è anche Benedetto XVI. È un uomo di cultura superiore, aperto al dialogo col mondo, che ha vissuto per anni nelle aule universitarie. In una conferenza del 1982 il teologo Ratzinger disse: “Ma cos’è effettivamente il dialogo? Il dialogo non si realizza semplicemente per il fatto che si parla: le mere chiacchiere rappresentano lo svilimento e il fallimento del dialogo. Il dialogo nasce soltanto dove non c’è solo il parlare, ma anche l’ascoltare e dove nell’ascoltare si compie l’incontro, nell’incontro la relazione e nella relazione la comprensione quale approfondimento e trasformazione dell’esistenza”.
In che cosa si può identificare la continuità tra i loro due pontificati?
Ambedue i Pontefici spiccano per la fedeltà al concilio Vaticano II e per l’impegno nel difendere il vero spirito del concilio. Nell’allocuzione alla Curia romana, in occasione del Natale 2005, Benedetto XVI, affrontando il tema della recezione del concilio e parlando dell’ermeneutica della continuità e della discontinuità, confermava di fatto l’interpretazione del concilio Vaticano II data a suo tempo da Paolo VI: continuità nel rinnovamento.
Questa sollecitudine per la giusta interpretazione del concilio mostra il grande amore dei due Papi per la Chiesa, chiamata a custodire e trasmettere il depositum fidei e ad essere comunità unita dall’amore. Paolo VI, nella sua prima enciclica Ecclesiam suam, presentando il volto della Chiesa, nella parte riguardante il suo rinnovamento, si soffermò sulla carità, ponendo la domanda: “Non è forse la carità la scoperta sempre più luminosa e più gaudiosa che la teologia da un lato, la pietà dall’altro, vanno facendo nella incessante meditazione dei tesori scritturali e sacramentali, di cui la Chiesa è l’erede, la custode, la maestra e la dispensatrice?”. E concludeva chiedendosi: “Non è forse questa l’ora della carità?”.
(Osservatore Romano, 4 novembre 2009, Mario Ponzi intervista il cardinale Giovanni Battista Re)
“C’è un tratto inconfondibile”, scrive Valente nel volume “Ratzinger al Vaticano II”, che analizza e descrive il ruolo di Ratzinger, dapprima consulente dell’arcivescovo di Colonia quindi perito, durante tutte le sessioni conciliari. «Come una nota di fondo che risuona da più di cinquant’anni nei pensieri, nelle parole e nelle iniziative concrete che Joseph Ratzinger ha rivolto e continua a dedicare al Concilio Vaticano II: la Chiesa è di Cristo. Vive nel mondo come riflesso della Sua luce. Cresce nel mondo in forza della Sua grazia. Era questo il volto più intimo della Chiesa che il Concilio voleva riproporre al mondo, nel suo intento di aggiornamento”. (Famiglia cristiana, 15/02/2013)