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Buongiorno padre Angelo,
prima di tutto vorrei complimentarmi con lei e tutti gli Amici Domenicani per il nuovo sito, grazie per la vostra opera instancabile.
Le ho già scritto in passato e la seguo quotidianamente da qualche anno. Ho cercato e letto alcune sue risposte sullo Spirito Santo, l’inabitazione (presenza personale della Santissima Trinità, le scrissi su questo nel 2016 e mi rispose), l’essere in grazia; avrei bisogno di un ulteriore chiarimento e aiuto.
Una piccola premessa. Innanzitutto vorrei chiederle qual è la differenza tra “dono” e “frutto” dello Spirito Santo; non riesco a percepirla, mi sembra che sia gli uni che gli altri siano qualcosa che riceviamo, che siano merito dello Spirito Santo che li produce in noi, eppure nel NT gli uni vengono distinti dagli altri. Non le sto chiedendo di spiegarli singolarmente (lo ha già fatto in altre risposte) ma di aiutarmi a comprendere la distinzione di base delle due categorie.
Carissima,
1. i doni dello Spirito Santo sono degli habitus soprannaturali come le virtù teologali e pertanto tengono l’anima unita a Dio.
2. La loro funzione è duplice.
La prima consiste nel rendere pronta una persona che vive in grazia a captare le mozioni che vengono direttamente dallo Spirito Santo.
Sono pertanto come delle antenne soprannaturali che ci fanno agire in comunione diretta con il Cielo.
3. La seconda consiste nel dare una modalità divina di agire alle virtù sia morali o cardinali che teologali.
San Tommaso in termini brevi e densi dice che “le virtù perfezionano a compiere atti in modo umano, i doni invece in modo ultra umano”, e cioè divino (III Sent., dist. 34, 1, 1). Su questo motivo si fonda la loro superiorità sulle virtù.
E ancora: “Poiché i doni sono dati per agire in modo sovraumano, è necessario che le operazioni dei doni siano governate da quel criterio diverso da quello umano, che è la stessa Divinità partecipata dall’uomo secondo il suo modo, affinché questi agisca non più umanamente, ma come uno che è fatto Dio per partecipazione” (Ib., dist. 34, 1, 3)..
I doni pertanto “abilitano l’uomo ad atti più nobili degli atti comandati dalle virtù” (Somma teologica, I-II, 68, 1).
4. I frutti invece sono quelle particolari e varie esperienze di dolcezza che accompagnano ordinariamente una persona che vive in grazia e nella quale le virtù sono ormai mature.
San Tommaso dice che come “il frutto sensibile è l’ultimo prodotto della pianta e viene consumato con una certa soavità” (Somma teologica, I-II, 70, 1) così analogamente “qualunque azione virtuosa compiuta con gioia è un frutto” (Somma teologica, I-II, 70, 2).
5. S. Ambrogio dice che si chiamano frutti perché riempiono l’anima di una dolcezza pura e santa.
Nell’ordine spirituale i frutti dello Spirito sono il prodotto finale della grazia, e cioè gli atti perfetti o maturi di virtù.
6. A differenza dei doni dello Spirito santo, non sono degli habitus, ma atti che da essi fioriscono, sebbene S. Paolo li indichi col nome di alcune virtù (pazienza, mitezza…).
Per meritare il nome di frutti, questi atti devono essere accompagnati da una certa soavità.
Se inizialmente comportano qualche difficoltà, analoga all’acerbità di un frutto immaturo, alla fine però non ne comportano alcuna. Anzi, l’esercizio virtuoso diventa connaturale e delizioso. Solo il peccato viene sentito come cosa innaturale e fastidiosa.
7. San Paolo menziona i frutti dello Spirito Santo in Gal 5,22. Ne enumera nove: “Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, benevolenza, pazienza, bontà, fedeltà, mitezza e dominio di sé”.
Secondo la traduzione della Volgata Clementina sarebbero 12 perché alla pazienza viene aggiunta la longanimità, alla mitezza la modestia, al dominio di sé la castità.
8. Per spiegare ancor più concretamente in che cosa consista questa esperienza di dolcezza spirituale giova riportare quanto afferma San Francesco di Sales:
“Il glorioso san Paolo dice: Il frutto dello Spirito è la carità, la gioia, la pace, la pazienza, la benignità, la bontà, la longanimità, la mansuetudine, la fede, la modestia, la continenza, la castità (Gal 5,22).
Ma fa’ attenzione, Teotimo, che quel divino Apostolo, enumerando i dodici frutti dello Spirito Santo, li considera come un solo frutto; infatti non dice: I frutti dello Spirito sono la carità, la gioia, ma soltanto: Il frutto dello Spirito è la carità, la gioia.
Ora, ecco il mistero insito in questo modo di esprimersi.
La carità di Dio è diffusa nei nostri cuori dallo Spirito Santo che ci è dato (Rm 5,5).
Senza dubbio, la carità è l’unico frutto dello Spirito Santo, ma siccome questo frutto possiede un’infinità di qualità eccellenti, l’Apostolo, che ne vuole presentare qualcuna come campione, parla di quest’unico frutto come se fossero molti, a motivo della moltitudine delle proprietà che racchiude nella sua unità, e viceversa parla di tutti questi frutti come di uno solo, a motivo dell’unità nella quale si racchiude tale varietà.
Così, chi dicesse: il frutto della vigna è l’uva, il mosto, il vino, l’acquavite, il liquore che rallegra il cuore dell’uomo (Sal 104,15), la bevanda che fa bene allo stomaco, con ciò non vorrebbe dire che questi siano frutti di diversa specie, ma soltanto che, pur essendo un sol frutto, tuttavia possiede diverse proprietà, a seconda dell’uso che se ne fa.
L’Apostolo non vuol dire altro se non che il frutto dello Spirito Santo è la carità, che è gioiosa, pacifica, paziente, benigna, buona, longanime, dolce, fedele, modesta, continente, casta, ossia che l’amore divino ci dà una gioia ed una consolazione interna, con una grande pace del cuore che viene conservata tra le avversità dalla pazienza e ci rende disponibili e pronti ad aiutare il prossimo con una cordiale bontà verso di lui.
Questa bontà non è mutevole, ma costante e perseverante, in quanto ci dà un grande coraggio per mezzo del quale diventiamo dolci, affabili e condiscendenti verso tutti, sopportandone gli umori e le imperfezioni e conservando verso tutti una assoluta fedeltà, manifestando una semplicità accompagnata da fiducia, sia nelle nostre parole che nelle nostre azioni, vivendo con modestia e umiltà, troncando ogni superfluità e ogni disordine nel bere, nel mangiare, nel vestire, nel dormire, nei giochi, nei passatempi e in altre simili cose piacevoli, per mezzo di una santa continenza, e soprattutto controllando le inclinazioni e le ribellioni della carne con una rigorosa castità: affinché tutta la nostra persona venga coinvolta nella divina dilezione, sia interiormente, per mezzo della gioia, della pace, della pazienza, della longanimità, della bontà e della fedeltà; sia esteriormente, per mezzo della benignità, della mansuetudine, della modestia, della continenza, della castità” (Teotimo, lib.11, cap. 19).
Con l’augurio che la tua vita sia sempre piena dei doni dello Spirito Santo e della variegata dolcezza del suo frutto ti ricordo al Signore e ti benedico.
Padre Angelo
ps.
Ecco il testo delle altre tue specifiche domande:
La domanda vera e propria invece è la seguente, e si articola nei due seguenti punti sotto: leggendo sue precedenti risposte, ho compreso che se una persona è in grazia, viene ad essere abitata dalla Santissima Trinità e questo determina che nella varietà delle situazioni della vita, in una qualche misura e modo, godrà in se stessa e manifesterà visibili agli altri i frutti dello Spirito Santo (di cui accennavo all’inizio) come effetto e conseguenza della presenza personale di Dio in sé.
Ora mi chiedo e le chiedo:
1. se una persona è in stato di peccato mortale non è possibile che venga ad essere abitata dal Signore con i frutti che ne conseguono, giusto? L’inabitazione è quindi incompatibile con l’essere in peccato mortale; ma se una persona cerca sinceramente di avere una relazione con Dio, si è esaminata, confessata, si impegna nella preghiera e nei Sacramenti ed è soggettivamente convinta di avere la coscienza a posto, ma, oggettivamente (solo oggettivamente, quindi lei non se ne rende conto), ha invece ancora delle colpe che non ha confessato, per inavvertenza, per dimenticanza, per ignoranza personale…, questa persona è o non è in peccato mortale?
Per il peccato si richiede la piena avvertenza, che questa persona quindi non avrebbe; mi verrebbe da concludere che quindi non è in peccato mortale e quindi è ancora unita a Dio, può portarlo dentro di sè, può unirsi a Lui, allo stesso modo quindi di chi anche oggettivamente (non solo soggettivamente) è senza peccato.
Tuttavia: lei più volte ha usato la metafora che se si beve del veleno, convinti che sia del buon liquore, non per questo esso non avrà effetti dannosi. Quindi: questa persona ha fatto, sebbene inconsapevolemente (cioè quando lo ha fatto non se ne è resa conto e in seguito non è venuto a galla nella sua coscienza) il male e il male, danneggia sempre se stessi ed è incompatibile con Dio che è bene e la sua presenza in noi, ne deduco che quella persona non potrà che essere separata da Dio anche se è convinta di non avere peccati. Perciò mi verrebbe da concludere che essendo separata da Lui, è in peccato mortale.
Chiedo a lei: è o non è in peccato mortale? Che poi è la stessa cosa che chiedere: ha o non ha la presenza di Dio in sé? (o non è la stessa cosa?)
2. Prendiamo una persona, mettiamoci nei suoi panni, questo è ciò che sta vivendo: ella cerca sinceramente Dio, studia e cerca di formare la propria coscienze, prega, sta nei Sacramenti… da parte sua è convinta di star facendo tutto e di star facendolo al meglio che può, rivolgendosi già a Dio, più di così non saprebbe cos’altro e come altro farlo, vorrebbe tanto vivere la presenza personale di Dio nel proprio cuore, una qualche consolazione in mezzo alle prove da cui è oppressa, un aiuto, se non fossero consolazioni almeno il sentirsi abitata da Lui anzichè da inquietudini, brutti sentimenti e pensieri. Eppure, a differenza di tanti altri fedeli, quando esce dal confessionale non “sente” niente di quegli effetti sensibili del perdono che tutti gli altri dicono di sperimentare, non sente niente nella preghiera, niente nella Comunione… e allora, un giorno, riflette: “se l’essere nel peccato impedisce di gustare la presenza personale di Dio nel proprio cuore, e a me non accade mai, allora probabilmente significa che mi trovo nel peccato… se infatti fossi davvero in grazia sperimenterei i frutti dello Spirito Santo. Se quando mi trovo nella prova o nelle contrarietà della vita, anzichè percepire nel mio cuore Amore, Gioia, Pace, Pazienza, Benevolenza, Bontà, Fedeltà, Mitezza, Dominio di sè, sperimento di essere abitata dal loro opposto (e inevitabilmente prima o poi di “buttarli” fuori, finendo quindi per dare una contro testimonianza dell’essere cristiani) allora, anche se di cuore esprimo la mia devozione all’Adorazione Eucaristica, prego, mi confesso, curo la formazione della mia coscienza, mi comunico, allora in realtà da qualche parte che non so “ho ancora del veleno convinta che sia del buon liquore”, sono separata da Lui, sono in peccato in qualche modo, diversamente infatti se fossi in grazia vivrei la sua presenza e i suoi frutti”.
Sempre dalle sue risposte so che esiste anche la cosiddetta “notte dello spirito” per cui alcuni Santi hanno vissuto momenti più o meno lunghi (Santa Madre Teresa di Calcutta sembrerebbe tutta la vita) di completa aridità spirituale, di silenzio da parte di Dio. Mi chiedo allora come percepissero queste persone che vivevano questa separazione da Lui di essere invece unite a Lui, lei ne ha idea?
Considero poi che magari vivevano dentro di loro il silenzio da parte di Dio ma ciò nonostante hanno testimoniato attraverso il loro comportamento che i sentimenti che avevano in cuore erano quelli dello Spirito Santo, i Suoi frutti, invece la persona di cui ho scritto sopra è animata spesso da inquietudine e il Bene che fa, lo fa per impegno, per forza di volontà (sempre unendola alla preghiera e chiedendola nella preghiera) ma i suoi sentimenti interiori sono spesso contrari ai frutti dello Spirito Santo e presto o tardi non mancano di palesarsi anche all’esterno (cosa che a chi è davvero unito a Lui come Madre Teresa non accadeva). Ciò mi porta a dedurre che il silenzio che vive questa persona non rientri neanche sotto la “notte dello Spirito”, che il bene che riesce a fare quando lo fa sia il risultato di tanto impegno ma impegno umano imperfetto se poi nel cuore è accompagnato anche a tanti altri pensieri contrari all’amore; poi mi dica lei se invece potrebbe essere comunque anche questo il caso. Cosa deve fare questa persona per poter sperimentare i frutti dello Spirito Santo, la presenza personale di Dio nel proprio cuore?
Rimarrò in attesa delle sue risposte e nel frattempo pregherò per il suo ministero, che Dio la benedica.
Alessia
Cara Alessia,
ecco la risposta scheletrica al tuo già abbastanza lungo scritto:
1. è necessario ricordare che insieme ad una ignoranza incolpevole ve ne è anche una colpevole.
2. Inoltre bisogna tener presente che non si può avere la certezza apodittica dello stato di grazia come ricorda il Concilio di Trento: “nessuno sa con certezza di fede, incompatibile con ogni errore, se sia in stato di grazia” (DS 1534).
3. L’assenza della consolazione interiore non è sinonimo di assenza della grazia.
Come giustamente ricordi, vi sono anche le notti oscure dei sensi e dello spirito.
4. Molto più di frequente l’assenza della consolazione interiore è provocata dal peccato veniale e dall’imperfetta corrispondenza alle ispirazioni di Dio.
5. Per poter sperimentare i frutti dello Spirito Santo e la presenza personale di Dio nel proprio cuore è necessario essere perfetti nell’esercizio delle virtù e cioè essere santi.
Ciò nondimeno il Signore comunica già nella vita presente qualche assaggio di tale dolcezza anche se non si è perfetti nelle virtù.
Padre Angelo