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Quesito
Caro Padre
Lei è la prima persona in assoluto con cui mi confido in merito.
Il mio cuore è diviso tra il servire il Signore nel matrimonio (conosco una ragazza che è molto religiosa, che è molto saggia e con la quale mi trovo bene nel parlare, nella preghiera, ecc.) o capire se la mia strada è il sacerdozio.
Una domanda mi pongo continuamente, (e l’ho chiesta pure durante la novena a s. Tommaso d’Aquino e durante tutte le mie preghiere): qual’è la mia vocazione; come arriva una vocazione, una chiamata?
Parlando con un sacerdote della mia diocesi, sacerdote che stimo tantissimo per la serietà, l’umiltà e la fede con cui svolge il suo apostolato, mi ha parlato della sua vocazione (io non gli ho mai espresso i miei sentimenti, neanche in confessione), mi ha detto di una voce che ha sentito diversi anni fa durante un’adorazione eucaristica e per lui lasciare la professione che esercitava e dedicarsi al sacerdozio non è stato molto complicato.
Non so se pecco di modestia, ma credo che la chiamata, se tale deve essere, non può che arrivare nel modo simile a questo amico sacerdote di cui sopra.
Io non credo alle chiamate che "si sentono" quando te lo dicono persone a te vicine (e sa, diverse persone mi hanno detto nel mio grazioso dialetto: perchè non ti fai Padre?).
Mi sembra che certe altre chiamate possano essere anche tentazioni o autosfide del tipo: faccio il prete e posso "comandare una parrocchia", faccio il sacerdote ed ho "il mio bel ruolo nella società", e simili.
Per me il sacerdozio è qualcosa di straordinario e va fatto al massimo, più del massimo.
Mi chiedo quale la risposta: "lanciarsi" senza una chiamata diretta, forse per soddisfare traguardi personali, protagonismo, o aspettare una indicazione precisa e chiara del Sommo Bene?
O sposarmi e vivere la fede nella chiesa domestica?
Mi scusi se sono stato lungo.
La ringrazio per la pazienza che ha nei miei confronti.
La ricordo nella preghiera.
Risposta del sacerdote
Carissimo,
1. la chiamata di Dio avviene in maniera misteriosa.
Quando dico misteriosa intendo dire che non si può classificare.
Penso ad una grande chiamata: quella di Abramo. Si legge nel testo sacro: “Il Signore disse ad Abram: «Vàttene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione” (Gen 12,1-2).
Se noti, il testo dice che Dio ha parlato ad Abramo, ma non in quale maniera.
E questo è interessante, perché Dio parla in tante maniere. Si fa sentire come si è fatto sentire nel sonno da Samuele, oppure con una voce che veniva direttamente dal cielo, come nel caso di Paolo.
Altre volte, e questo è il caso più comune, il Signore chiama in maniera silenziosa, creando un certo trasporto verso il sacerdozio o la vita consacrata.
Il tuo confessore dice di aver sentito una voce durante un’adorazione eucaristica. Direi che anche in questo caso la vocazione si è fatta sentire in maniera straordinaria.
Ma generalmente non avviene così.
Un grande domenicano francese, il Padre Sertillanges, diceva che la vocazione è quello che uno è. La vocazione nasce da quello che uno è nelle sue doti di natura e di grazia. Si direbbe che uno si sente fatto o tagliato per quella strada. Come quando si va in un negozio di vestiti e se ne incontra uno che è fatto proprio sulla nostra misura e secondo il nostro gradimento.
Ora da quel poco che ti conosco posso dire che probabilmente sei fatto per il sacerdozio e forse anche per qualcosa d’altro.
Anche il fatto che tu non accetti il modo di pensare di alcuni (con il sacerdozio si acquista una posizione sociale) è un buon segno.
Forse anche per questo il Signore ti sta chiamando, perché non vuole che tu pensi al sacerdozio in quel modo, per "comandare una parrocchia" o per avere "il tuo bel ruolo nella società". A uno che pensasse in questo modo, io direi che questo è sufficiente per dirgli che non è fatto per il sacerdozio.
Tu scrivi: “Per me il sacerdozio è qualcosa di straordinario e va fatto al massimo, più del massimo”. Sì, è vero. Il sacerdozio va pensato e vissuto così. Non è come la chiamata ad una professione. È la chiamata a stare con il Signore, a diventargli intimo, compenetrato da Lui, al punto che la gente, vedendolo e contattandolo, possa dire quello che diceva del santo Curato d’Ars: che aveva visto Dio che viveva in un uomo.
2. Mi dici anche che diverse persone ti hanno detto: perchè non ti fai Padre?
Penso che l’espressione, certamente bella, voglia dire: perché non ti fai Padre? Con questo termine la vostra gente va dritta alla realtà del sacerdozio, che è la chiamata ad una vera paternità, che assomiglia in modo particolare a quella di Dio, tutta spirituale e soprannaturale, e dalla quale ogni altra paternità prende nome.
Tuttavia il fatto che diverse persone ti abbiano parlato così mi fa pensare ancor più ad una tua chiamata.
Certo non si diventa sacerdoti perché la gente pensa o vuole così di noi. Ma Dio si può servire anche di queste impressioni e di questi desideri dei suoi figli.
A questo punto mi sono ricordato di quanto ha scritto Giovanni Paolo II, in Dono e Mistero, scritto per il 50° del suo sacerdozio: “In quel periodo della mia vita la vocazione sacerdotale non era ancora matura, anche se intorno a me non pochi erano del parere che dovessi entrare in seminario. E forse qualcuno avrà supposto che, se un giovane con così chiare inclinazioni religiose non entrava in seminario, era segno che in gioco v’erano altri amori o predilezioni” (p. 10).
Poco più avanti Giovanni Paolo II ricorda che, scoppiata la seconda guerra mondiale, andò a lavorare come operaio in una cava di pietra. Scrive: “I responsabili della cava, che erano polacchi, cercavano di risparmiare a noi studenti i lavori più pesanti. A me, per esempio, assegnarono il compito di aiutante del cosiddetto brillatore: si chiamava Francisek Labus. Lo ricordo perché, qualche volta, si rivolgeva a me con parole di questo genere. “Karol, tu dovresti fare il prete, canterai bene, perché hai una bella voce e starai ben…”. Lo diceva con tutta semplicità, esprimendo così una convinzione abbastanza diffusa nella società circa la condizione del sacerdote. Le parole del vecchio operaio mi sono impresse nella memoria” (pp. 15-16). Al di là di alcuni convincimenti popolari, che certamente il futuro Papa non approvava, si faceva sentire attraverso un umile figlio del popolo la chiamata del Signore.
3. Scrivi ancora: “Mi chiedo quale la risposta: "lanciarsi" senza una chiamata diretta, forse per soddisfare traguardi personali, protagonismo, o aspettare una indicazione precisa e chiara del Sommo Bene?
O sposarmi e vivere la fede nella chiesa domestica?”
Carissimo, non devi aspettare una chiamata diretta. Sarebbe come tentare Dio e costringerlo a manifestarsi attraverso vie determinate da noi.
Non puoi neanche lanciarti fino a quando non sei certo che il Signore ti chiama.
Intanto prega e conservati retto. Sono certo che il Signore, attraverso vie del tutto impreviste, ti farà sentire sensim sine sensu (sensibilmente, sebbene senza la percezione sensoriale) quanto ha sentito il giovane Isaia: “Poi io udii la voce del Signore che diceva: «Chi manderò e chi andrà per noi?». E io risposi: «Eccomi, manda me!» (Is 6,8).
Se Isaia ha pregato così: «Eccomi, Signore, chiama me e manda me!», perché non lo puoi fare anche tu?
Non senti anche tu l’ansia del Signore che dice: «Chi manderò e chi andrà per noi?».
4. Anche la simpatia che provi per una brava ragazza mi fa pensare bene. La tua eventuale chiamata al sacerdozio non sarebbe una fuga, un ripiego. Ma un lasciare qualcosa per andare dietro al Signore.
Ti seguo con la preghiera, soprattutto nella celebrazione della Santa Messa, che ripresenta sull’altare il sacrificio e la vita di Gesù, compresa la chiamata a seguirlo rivolta agli apostoli.
Ti saluto cordialmente e ti benedico.
Padre Angelo