Questo articolo è disponibile anche in: Italiano
Caro Padre Angelo,
le scrivo per una questione che è sorta e alla quale vorrei avere da Lei una risposta.
Mi sono chiesto ultimamente quanto il “sottostrato” culturale della nostra cultura influisca sulla nostra fede. Mi sono trovato a testimoniare la mia fede ai miei amici e mi sono accorto che loro sono troppo influenzati dalla “mentalità generale” per comprenderla. Questa è la mentalità comune di oggi: che ognuno può sostenere quello che vuole, che nessuna posizione vale più di altre, che i valori sono relativi e “verità” è un brutto termine, le religioni sono un fatto privato di chi le abbraccia e non sono politiche e pubbliche, che ci sono tante religioni ma in fondo dicono la stessa cosa e che sono tutte da rispettare.
Penso che sia per questo che l’evangelizzazione moderna non è efficace: con un approccio tomista è come parlare due lingue diverse. Noi ci esprimiamo in termini di metafisica, essere e ragione. Loro parlano di relativismo, tolleranza e libertà. Io mi sono trovato a usare le loro stesse categorie per cercare di comunicare la fede e il risultato è una fede meno solida, ben distante da quel robusto rigore dottrinale che mi ero proposto di seguire. Non mi piace l’idea di credere senza basi razionali, ma mi sento come le basi teologiche che la Chiesa mi da non siano più applicabili al mondo di oggi.
Volendo una fede che non prescinde dalla ragione, che cosa mi conviene fare?
Carissimo,
1. sono diversi i motivi per cui il Vangelo non penetra in alcuni terreni.
Certamente c’è il clima relativista, ma non è solo questo.
Più a monte c’è il motivo che genera il relativismo ed è quello menzionato dal Signore quando ha detto: “la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie” (Gv 3,19).
2. Giovanni Paolo II in Reconciliatio et Penitentia a proposito del peccato che danneggia sempre colui che lo compie ha detto: “Atto della persona, il peccato ha le sue prime e più importanti conseguenze sul peccatore stesso: cioè nella relazione di questi con Dio, che è il fondamento stesso della vita umana; nel suo spirito, indebolendone la volontà ed oscurandone l’intelligenza” (RP 16), e così, offendendo gravemente Dio, “finisce col rivolgersi contro l’uomo stesso, con un’oscura e potente forza di distruzione” (RP 17).
3. Tra gli effetti del peccato dunque c’è anche l’oscuramento dell’intelligenza.
Già l’antico filosofo Aristotele osservava che il compimento del male non lede tanto la capacità dell’intelligenza di applicarsi allo studio delle scienze, ma piuttosto corrompe il giudizio de agendis, e cioè il giudizio della coscienza (Etica a Nicomaco, Lib. 6, cap. 5).
Ecco da dove nasce il relativismo.
4. Se poi vogliamo vedere ancor più da vicino quali peccati offuschino il giudizio di coscienza un particolare posto viene occupato dalla lussuria.
S. Tommaso ne porta la motivazione: “Il piacere corrompe il giudizio della coscienza e specialmente il piacere venereo, che assorbe tutta l’anima e la trascina al piacere sensibile, mentre la perfezione della coscienza e di qualsiasi altra virtù intellettuale consiste in un’astrazione dalle realtà sensibili” (Somma teologica, II-II, 53, 6).
E afferma che “i difetti della precipitazione, dell’inconsiderazione e dell’incostanza, che guastano il giudizio della coscienza, derivano soprattutto dalla lussuria” (Ib., II-II, 53, 6).
E ancora: “Fra tutti i peccati di intemperanza i più riprovevoli sono i peccati sessuali, sia per la ribellione degli organi genitali, sia perché la ragione ne viene del tutto sopraffatta” (Somma teologica, II-II, 151, 4, ad 3).
A volte il giudizio di coscienza viene addirittura estinto (Ib., II-II, 53, 6, ad 3), come quando ci si abbrutisce al punto da chiamare bene il male e viceversa.
5. Allora l’insidia più grossa è data dal peccato più che dal relativismo.
Infatti il relativismo in quanto tale viene facilmente contraddetto dalla vita concreta della gente che nei rapporti con gli altri – soprattutto di compravendita – si appella a quello che è giusto in sé e non a quello che è giusto secondo i criteri personali.
Anche quando si va in tribunale per testimoniare, si testimonia secondo la verità dei fatti, chiamando ogni cosa con il proprio nome, e non come l’interpretazione del singolo.
6. È il peccato dunque che impedisce di accogliere la verità.
L’ha detto Gesù: “Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate” (Gv 3,20).
Finché non sarà rimosso tale ostacolo il Vangelo non potrà penetrare nella mente e nel cuore dell’uomo e portarlo a conversione.
7. Ora la rimozione di tale ostacolo richiede certamente l’annuncio della parola, ma nello stesso tempo anche un’altra cosa ancor più insostituibile.
È quella che il Signore ha indicato quando ha detto che “certa specie di demoni non si scaccia se non con la preghiera e il digiuno” (Mt 17,21).
Ti ricordo al Signore e ti benedico.
Padre Angelo