Questo articolo è disponibile anche in: Italiano

Quesito

Gentile padre Angelo,
Le pongo un quesito piuttosto semplice.
Se una persona si ravvede del proprio peccato, si pente, decide di cambiare vita e si ravvede, se rinnova il proposito di seguire Cristo e prende l’impegno di confessarsi appena possibile, può fare la comunione? Oppure deve comunque prima confessarsi? Le chiedo questo perché so che il pentimento e la conversione indicano comunque (se non sbaglio) che quell’uomo è già stato raggiunto dalla Grazia divina. Ebbene, se prende l’impegno (serio) di confessasi appena possibile, può accedere al sacramento dell’eucarestia?
grazie, buona giornata e buon…tutto ciò che fa!


Risposta del sacerdote

Carissimo,
1. è vero che il pentimento se è sincero è già frutto della grazia di Dio che ci ha raggiunti e che sempre lavora nel nostro cuore.
Quest’affermazione fa parte del magistero costante della Chiesa.
Tuttavia non è ancora sufficiente in via ordinaria per accostarsi alla Santa Comunione.

2. Cerco di spiegarmi con un esempio. Se io ti vengo addosso con la macchina e sfascio la tua, per quanto ti chieda subito scusa e tu mi accordi il perdono, non per questo il problema è risolto. È successo qualcosa di grave che va riparato.
Così ugualmente per i nostri peccati che offendono gravemente il Signore. Prima di dire che noi e Lui siamo la stessa cosa, è necessario riparare.

3. Ora nessuno di noi può riparare adeguatamente l’offesa fatta a Dio, la morte data a nostro Signore.
Solo Cristo, col suo Sangue, ci offre il prezzo della riparazione e dell’espiazione.
Per questo san Paolo dice: “Chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Ciascuno pertanto esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna. È per questo che tra voi ci sono molti ammalati e un buon numero sono morti” (1 Cor 11,27-30).
Per San Paolo prima uno deve esaminare se stesso e poi, nel caso che si trovi indegno, è sottinteso che deve fare quello che gli spetta e cioè deve passare attraverso il sacramento della penitenza.

4. L’istituzione del sacramento e il comando di esaminare se stessi portano alla logica conclusione che chi si trova in peccato grave deve accedere al Sacramento della Riconciliazione prima di accostarsi all’Eucaristia.
Negli ultimi anni del suo pontificato Giovanni Paolo II ha toccato questo argomento, affermando che la comunione visibile è segno della comunione invisibile del credente con Cristo e con la Chiesa.
Ora se uno non è riconciliato con Dio e con la Chiesa, cosa che avviene nel Sacramento, svuota la comunione visibile del suo significato.
Per questo ha affermato in termini molto forti che “l’integrità dei vincoli invisibili è un preciso dovere morale del cristiano che vuole partecipare pienamente all’Eucaristia comunicando al corpo e al sangue di Cristo. A questo dovere lo richiama lo stesso Apostolo con l’ammonizione: «Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice» (1 Cor 11,28)” (Ecclesia de Eucharistia 36).
Per questo, continua il Papa, “vige e vigerà sempre nella Chiesa la norma con cui il Concilio di Trento ha concretizzato la severa ammonizione dell’apostolo Paolo affermando che, al fine di una degna ricezione dell’Eucaristia, «si deve premettere la confessione dei peccati, quando uno è conscio di peccato mortale»” (Ecclesia de Eucharistia 36).
Il Papa prosegue citando San Giovanni Crisostomo, il quale con la forza della sua eloquenza, diceva ai fedeli: «Anch’io alzo la voce, supplico, prego e scongiuro di non accostarci a questa sacra Mensa con una coscienza macchiata e corrotta. Un tale accostamento, infatti, non potrà mai chiamarsi comunione, anche se tocchiamo mille volte il corpo del Signore, ma condanna, tormento e aumento di castighi» (Omelie su Isaia 6, 3).
San Giovanni Crisostomo non è esagerato. Dice con altre parole quello che ha detto San Paolo per coloro che si accostano indegnamente al sacro banchetto: “E’ per questo che tra voi ci sono molti ammalati e infermi, e un buon numero sono morti” (1Cor 11,30).

5. Va ricordato che la riparazione del male non avviene con la cessazione dell’opera cattiva, ma con un’azione riparatoria.
Ora la riparazione del peccato esige, sì, il pentimento o dolore perfetto, ma anche un’azione espiatoria che risulti soddisfacente per colui che è stato offeso.
E siccome nessun uomo può compiere un’azione espiatoria proporzionata all’offesa fatta a Dio, che è sempre in qualche modo infinita, non resta che riferirsi al sacrificio redentore di Gesù Cristo, alla cui virtù il penitente si congiunge nella celebrazione del Sacramento della Penitenza.
Solo nel Sacramento, dunque, si espia adeguatamente la colpa. Finché il penitente non lo celebra, per quanto possa essere già raggiunto dalla grazia preveniente, non è ancora pienamente riconciliato con Dio. Ha ancora un debito sospeso: quello della riparazione o espiazione.
“È necessario per la salvezza del peccatore che il peccato gli venga tolto. Ma questo non può avvenire senza il sacramento della Penitenza, nel quale agisce la forza della passione di Cristo in virtù dell’assoluzione data dal Sacerdote congiuntamente con l’azione del penitente che collabora con la grazia per la distruzione del peccato” (S. Tommaso, Somma Teologica, III, 84, 5).

6. La norma, pertanto, è questa.
Giovanni Paolo II dice che questo appartiene alla “consuetudine della Chiesa” (Reconciliatio et Paenitentia 27), radicata nell’affermazione di San Paolo.
Ora “la consuetudine della Chiesa, che sempre e in tutto deve essere seguita, ha la massima autorità. Poiché lo stesso insegnamento dei Santi Dottori Cattolici riceve la sua autorità dalla Chiesa. E quindi si deve stare più all’autorità della Chiesa, che a quella di S. Agostino, di S. Girolamo, o di qualunque altro dottore” (S. Tommaso, Somma teologica, II-II,10,12).
Il grande teologo Y. Congar ha detto che “i teologi hanno sempre considerato la Praxis Ecclesiae come normativa quando è costante ed implica una presa di posizione riguardante la fede” (La fede e la teologia, p.161).

6. Solo in via eccezionale, quando vi è urgenza di fare la S. Comunione e manchi la possibilità di confessarsi, ci si può accostare solo con la contrizione perfetta e il proposito di confessarsi al più presto.
Il can. 916 del Codice di diritto canonico afferma: “Colui che è consapevole di essere in peccato grave, non celebri la Messa né comunichi al corpo e al sangue del Signore senza premettere la confessione sacramentale, a meno che non vi sia una ragione grave e manchi l’opportunità di confessarsi; nel qual caso si ricordi che è tenuto a porre un atto di contrizione perfetta, che include il proposito di confessarsi quanto prima”.
Ma ordinariamente non vi è la ragione grave o l’urgenza di fare la Comunione, né dalle nostre parti manca la possibilità di confessarsi.
Se uno è così ansioso di fare la Santa Comunione, se per lui è un bene così importante, lo mostri conservandosi in grazia e, qualora la perdesse, di riconciliarsi adeguatamente con Do e con la Chiesa attraverso il sacramento della confessione.

7. Pensa poi a che cosa succederebbe se fosse giusto confessarsi dopo aver fatto la Comunione: perché confessarsi subito? Magari nel frattempo si compiono altri peccati. E così si va avanti, rimandando la confessione.
S. Agostino, su questo argomento, era stato perentorio e diceva che non si era mai sentito dire che nella Chiesa fosse possibile fare la Comunione prima della penitenza. E aggiungeva: “Dio allora avrebbe detto senza motivo: ‘‘ciò che scioglierete sulla terra sarà sciolto anche in cielo!’. Così come senza motivo avrebbe consegnato le chiavi del regno di Dio alla Chiesa! Si può rendere vano il Vangelo? Si possono rendere vane le parole di Cristo?” (Sermone 392, 3).

Ti ringrazio per aver attirato l’attenzione su un punto molto importante della vita cristiana.
Ti saluto, ti prometto un ricordo al Signore e ti benedico.
Padre Angelo