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Nell’ottobre del 1998 fu chiesto a p. Pietro Lippini, esperto di spiritualità domenicana, di presentare ai caterinati di Genova i motivi per cui Santa Caterina da Siena volle essere domenicana. Siamo contenti di poter presentare in brevi puntate lo studio veramente pregevole del caro padre, morto all’età di 80 anni nell’anno 2000.
SANTA CATERINA DA SIENA
fedele interprete del carisma e della spiritualità domenicana
“Nacque in lei l’incontenibile brama di far parte di quell’Ordine e di unirsi così ai frati nel giovare alle anime”
PRESENTAZIONE
Ringrazio il Padre Angelo Bellon O.P. per avermi invitato, a nome dei Caterinati di Genova, a parlare della Spiritualità domenicana e di come la visse S. Caterina da Siena, alla “Cattedra Cateriniana” di questa città. Invito questo che è stato per me un grande onore, ma che mi impone un doveroso atto di umiltà: perché, se della spiritualità domenicana in genere mi sono sempre interessato fin dagli anni ’50 quando la scelsi come soggetto della tesi di laurea, di quella cateriniana ho invece una minore conoscenza. Per cui la mia trattazione potrebbe risultare imprecisa e senz’altro incompleta. Doverne poi trattare a dei Caterinati, cioè a degli specialisti di spiritualità cateriniana, mi espone sicuramente a fare una brutta figura. E di questo vi chiedo in anticipo scusa.
Dopo aver inizialmente accennato all’amore non casuale della Santa per S. Domenico e per il suo Ordine, vorrei innanzitutto fare vedere in una prima parte della mia conferenza di stasera, che S. Caterina, in quanto Terziaria dell’Ordine, fu giuridicamente una vera domenicana; in una seconda parte, che ella seppe perfettamente interpretare ed attuare il carisma di S. Domenico; e in una terza, infine, come ella dell’Ordine domenicano visse integralmente anche la spiritualità. E nel finire vorrei anche far vedere brevemente come il carisma e la spiritualità di S. Domenico, perfettamente imitati e vissuti da Caterina, siano ancor oggi attualissimi ed imitabili anche dai laici. Al termine i vostri eventuali interventi potranno chiarire ed integrare quanto io avessi detto male o tralasciato di dire.
Nota: ai tempi di Santa Caterina da Siena venivano detti “caterinati”, per disprezzo, i suoi discepoli spirituali.
Prima di morire, ad essi la Santa fece questa lusinghiera promessa: “Figliuoli carissimi, non rattristatevi se io muoio, ma piuttosto dovete gioire con me e con me rallegrarvi, perchè lascio un luogo di pene per andare a riposarmi in un oceano di pace, in Dio eterno. Vi dò la mia parola: dopo la mia morte, vi sarò più utile di quel che non vi sia stata o non abbia potuto esserlo mentre stavo con voi in questa vita tenebrosa e piena di miserie”.
I – La domenicanità giuridica di S. Caterina da Siena
1. La casa paterna di Caterina sorgeva non lontano dal convento dei Domenicani; e dal suo frequentare la loro chiesa e dal contatto con loro, soprattutto con fra Tommaso della Fonte, congiunto in parentela coi Benincasa, imparò certamente a conoscere il loro Fondatore e a stimare la regola di perfezione ch’egli aveva loro lasciata. Questo fa certamente da sfondo all’attrazione che Caterina subì per l’abito e la vocazione domenicana.
Ma ciò non vuol dire – come faceva giustamente notare il Padre D’Urso1 – che siano state soltanto le circostanze esterne, casuali, a determinare la sua scelta. Ciò pensando, si verrebbe a negare l’esistenza di un piano provvidenziale di Dio, che dispone le cose in modo da determinare, pur nel rispetto della libertà degli uomini, l’affermarsi dei suoi disegni nei loro riguardi, e si verrebbe per assurdo ad ammettere implicitamente che Caterina sarebbe stata ugualmente quella grande donna, quella santa, quel “Dottore della Chiesa” che noi conosciamo anche se, posta in circostanze diverse, fosse entrata in un Ordine diverso da quello domenicano.
Dio, ancor prima di crearci ha dei progetti su ciascuno di noi, e nel crearci ci pone nelle condizioni ottimali perché noi li possiamo attuare. Anche per Caterina non fu quindi il caso, ma la Divina Provvidenza a volerla domenicana, perché solo appartenendo a un Ordine votato alla salvezza delle anime mediante la predicazione e l’insegnamento, avrebbe avuto la possibilità, lei donna, di esercitare nella società del suo tempo, con la parola e con gli scritti, quella intensa attività che l’ha resa unica nella storia della Chiesa.
Sta di fatto che quando, dopo la visione del Redentore apparsole in abiti pontificali sull’alto della Chiesa di S. Domenico2 nacque in lei il desiderio di una vita più perfetta di
quella che comunemente si vive nel mondo, si sentì attratta ad imitare la forma di vita che conducevano i Domenicani del vicino convento; e il loro Fondatore, di cui tante volte
aveva in casa e da loro sentito parlare, diventerà il suo patrono e modello, tanto che una notte sognerà – ma i sogni si dice che realizzino i desideri dello stato di veglia – tre santi fondatori che le offrono il loro abito, ma sarà a quello di S. Domenico che ella darà la
preferenza3.
Caterina, dopo aver lottato con la madre che si ostinava a negarle il permesso di vestire l’abito domenicano, giunse fino al punto di ricattarla, prospettandole l’ipotesi che Dio e San Domenico l’avrebbero fatta morire della malattia di cui stava soffrendo se ella avesse continuato nel sui diniego; e dopo aver fatto ricorso a tutti i mezzi per convincere le Terziarie di Siena – le cosiddette Mantellate per la cappa nera portata sulla bianca tonaca della loro divisa – ad accoglierla tra loro nonostante la sua giovane età e la sua avvenenza, giudicata troppo pericolosa per una Terziaria; ottenuto anche il nulla osta delle autorità dell’Ordine da cui le Mantellate dipendevano, poté finalmente venire rivestita nella chiesa di S. Domenico di Siena dell’abito bianco e nero che faceva di lei una domenicana4.
2. Ma occorre un chiarimento.
Parlando di S. Caterina si afferma sempre, e giustamente, che era una Terziaria, anche se poi il vederla vestita da domenicana fa pensare a molti che ella fosse una suora dell’Ordine.
Con la concezione che comunemente si ha oggi di chi è Terziario di un Ordine, ch’egli sia cioè un laico come tutti gli altri, che come tutti gli altri ha una famiglia e vive nel mondo, e che dagli altri cristiani si differenzia solo per qualche pratica devozionale impostagli dalla Regola che professa, dire che Caterina era una Terziaria, la sua domenicanità verrebbe ridotta a ben poca cosa. E dire di lei che era una suora, si dice una cosa inesatta.
Fino al secolo XVIII, per una donna che avesse voluto consacrarsi al Signore, l’unica via era quella della clausura, perché la Chiesa non permetteva che una consacrata, legata cioè a Dio da voti allora ritenuti non dispensabili neppure dal Papa, vivesse nel mondo esponendosi alla loro violazione. Non esistevano perciò suore come le tante che vediamo
oggi, dedite alle opere caritative e sociali, astrette a voti – i cosiddetti voti semplici, in contrapposizione a quelli detti solenni delle monache di clausura – approvati pubblicamente dalla Chiesa, ma con legami più facilmente scindibili.
Ma lo Spirito Santo, che ha sempre più fantasia della Chiesa ufficiale, con la nascita dei due grandi Ordini Mendicanti, quello dei Domenicani e quello dei Francescani, aveva aperto anche ai laici dei due sessi, e quindi anche alle donne desiderose di vivere una vita di perfezione senza doversi legare alla clausura, una forma nuova di vita religiosa che si ispirava al carisma e alla spiritualità dei due nuovi Ordini, quella cioè, che per distinguerla da quella dei frati e delle monache fu detta Terz’Ordine. Chi, ad esempio, desiderava entrare in una Fraternita del Terz’Ordine domenicano, doveva esservi accettato, oltre che dai membri di essa, dalle autorità dell’Ordine alle quali prometteva obbedienza, impegnandosi ad osservare scrupolosamente la Regola allora detta dei “Fratelli e delle Sorelle della Penitenza di S. Domenico”, promulgata nel 1285 dal Maestro dell’Ordine Munione di Zamora5.
Si trattava di una Regola molto impegnativa, che prescriveva, ad esempio, l’uso dell’abito domenicano, la recita quotidiana delle Ore canoniche o di preghiere sostitutive, la partecipazione all’Ufficio sia diurno che notturno coi frati nelle domeniche e negli altri giorni festivi, il digiuno in Avvento e in Quaresima e l’astinenza dalle carni quattro volte alla settimana, l’uso moderato dei propri beni patrimoniali secondo lo spirito evangelico, una condotta cristiana ineccepibile e addirittura di chiedere volta per volta il permesso per partecipare a balli e festini e per allontanarsi dalla propria città o paese. E dopo aver
affermato che il Terziario “come figlio prediletto di S. Domenico” doveva essere “emulatore e ardente difensore, secondo il suo stato, della Verità della fede cattolica”, concludeva col dire: “Vogliamo e stabiliamo che tutti i Fratelli e le Sorelle della Penitenza del beato Domenico, dovunque si trovino, siano sottoposti alla direzione e correzione del Maestro dell’Ordine e del Priore provinciale della loro Provincia di appartenenza, ubbidendo totalmente ad essi in ciò che riguarda la conservazione e il progresso della vita spirituale”6. Chi entrava nel Terz’Ordine – e ciò vale anche per i Terziari o Laici Domenicani di oggi – diventava e diventa giuridicamente a tutti gli effetti membro dell’Ordine dei Frati Predicatori, sia pure inserito in esso con osservanze diverse, ma analoghe, a quelle dei frati e delle monache dell’Ordine.
Quando poi, come qua e là non di rado succedeva, delle Terziarie sceglievano anche di vivere in comune, o semplicemente di legarsi all’osservanza della Regola anche con voti, esse potevano venire considerate e considerarsi di fatto Suore Domenicane, anche se in un senso diverso dall’attuale, perché i loro voti non erano accettati ufficialmente dalla Chiesa e venivano emessi nelle mani dei superiori dell’Ordine.
Che S. Caterina fosse giuridicamente, e in che senso, domenicana, è perciò un dato innegabile. E ne è prova tra l’altro il fatto che, quando qualcuno cominciò ad insinuare riserve sulla sua azione e sulla sua dottrina, a quanto si dice fu convocata per discolparsi dal supremo organo dell’Ordine, il Capitolo Generale di Firenze del 1374.
II – S. Caterina fedele interprete ed imitatrice del carisma domenicano
3. Alcuni autori, però, forse ingannati dalla carica affettiva, tutta femminile, messa nelle sue imprese e di cui sono impregnate le sue opere, o per certe affermazioni o modi di esprimerle della sua teologia, arrivarono ad affermare che Caterina “fu domenicana nell’abito, ma francescana nel cuore”. Ma una simile tesi non si può onestamente sostenere.
Se è vero, infatti, che dei due grandi Fondatori, Francesco e Domenico, Dante poteva giustamente affermare che “l’un fu tutto serafico in ardore, l’altro fu di cherubica luce uno splendore”7, è altrettanto vero che volontarismo e intellettualismo sono sì due caratteristiche diverse rispettivamente della scuola e della spiritualità francescana e di quella domenicana, ma non ne esprimono certamente l’essenza. Per cui, nulla vieterà ad un francescano di essere un intellettuale e ad una domenicana come Caterina di sentire l’unione con Dio e l’apostolato che ne deriva, come lei stessa si esprime, ansietatamente, ossia con tutta la carica affettiva della sua femminilità.
Ma S. Caterina non fu domenicana solo giuridicamente, in quanto cioè come Terziaria apparteneva all’Ordine e ne portava l’abito, ma lo fu anche affettivamente e integralmente, perché del suo Ordine comprese e visse in pieno il carisma e la spiritualità.
I due termini, anche se spesso usati indifferentemente, non sono sinonimi. Il termine greco carisma, che in S. Paolo aveva prevalentemente il significato specifico di dono soprannaturale straordinario, – come lo sono, ad esempio, il dono delle lingue, quello del profetizzare o di operare miracoli – concesso dallo Spirito Santo ad una persona non tanto per la propria santificazione personale, quanto perché essa ne usi a beneficio del Corpo mistico di Cristo8, spogliato di questa sua eccezionalità di significato, viene ora usato nella Chiesa postconciliare per indicare una grazia speciale, una intuizione geniale, frutto non tanto di logica umana quanto di una speciale illuminazione dello Spirito Santo, in forza della quale il beneficiano sente di dover imitare Cristo, accettandone un suo insegnamento o un suo particolare esempio di vita, mettendosi secondo le proprie possibilità al servizio dell’umanità e della Chiesa in una maniera nuova, adatta alle necessità dell’epoca e dell’ambiente in cui vive. Quando poi questo carisma personale viene partecipato e imitato da altri, legati a chi ne ha avuto l’intuizione da vincoli di professione religiosa, si parla allora di “carisma del Fondatore o carisma dell’Istituto da lui fondato”. Il Fondatore, però, nel fondare un Ordine non si limita ad indicare ai suoi primi seguaci, e a quanti in seguito lo seguiranno, quella sua prima intuizione, o carisma, che lo indusse alla fondazione, ma fissa anche quei mezzi che a suo avviso sono indispensabili per la sua attuazione; e d’altra parte l’Istituto da lui fondato non è un organismo morto ma vivente, che si arricchisce perciò, con gli anni e con gli apporti dei suoi figli più illustri, di nuovi elementi e di nuove esperienze, sia pure sempre vissute nello spirito del Fondatore, del cui carisma iniziale sono come un logico sviluppo. Ne nasce così la spiritualità dell’Istituto: espressione questa che ha quindi un campo di significato più vasto di quella di carisma del Fondatore o di carisma dell’Istituto, che esprime soltanto la intuizione e l’esperienza-tipo che è all’origine dell’Istituto e che della spiritualità di esso è solo il nucleo centrale e la matrice9.
4. Ciò premesso, vediamo innanzitutto come Caterina interpretò e fece proprio il carisma domenicano.
In alcuni dei miei scritti io ho spesso affermato, con una frase certamente ad effetto, che l’Ordine domenicano fu concepito in una osteria.
Le circostanze di quel concepimento vi sono certamente note. Il vescovo di Osma, incaricato dal suo re di una missione diplomatica in Danimarca, si era preso come accompagnatore il sottopriore dei suoi canonici Domenico di Guzman. Quando in terra di Francia chiesero ospitalità per la notte, Domenico si accorse che il loro albergatore era un eretico albigese, membro cioè di una perniciosa setta catara che stava ormai invadendo tutto il meridione della Francia10. Incurante della stanchezza accumulata quel giorno e del viaggio che lo attendeva all’indomani, Domenico passò la notte in discussione con lui, felice nel costatare che al comparire delle luci del giorno l’albergatore tornava alla luce della vera fede11. Ma in quella notte a convertirsi non fu solo l’oste. Dal dibattito con lui Domenico si era convinto che la grande massa dei Catari era tale solo per ignoranza e che non sarebbe stato difficile riportarli alla vera fede se la Chiesa cattolica avesse potuto contrapporre agli zelanti predicatori dell’eresia altrettanti predicatori, come loro austeri, poveri e casti, che a imitazione di quanto avevano fatto gli Apostoli, percorressero le vie del mondo ripredicando l’autentico Vangelo.
Non poteva soddisfare questa esigenza il monachesimo, che con le sue molteplici diversificazioni era allora la forma di vita religiosa più largamente diffusa nella Chiesa, perché la vocazione primaria del monaco era quella di pensare alla propria santificazione, non a quella degli altri. Non potevano soddisfarla i sacerdoti diocesani che, non esistendo ancora i seminari, erano molto spesso degli impreparati e, per il sistema feudale ancora vigente, si erano spesso ridotti ad essere degli amministratori di beni materiali anziché dei curatori di anime. Non potevano soddisfarla neppure quei gruppi di sacerdoti zelanti, i cosiddetti canonici, che i vescovi tentavano qua e là di costituire, perché la loro azione era localizzata attorno alla cattedrale. Fu così che in quella notte forse balenò nella mente di Domenico l’idea della fondazione di un Ordine, dotto e mendicante, tutto dedito alla predicazione e alla salvezza delle anime, per combattere le eresie esistenti, ma soprattutto impedire che ne sorgessero di nuove, un Ordine che, rivivendo la vita itinerante degli Apostoli, ripercorresse come loro le vie del mondo per portarvi la parola di Dio. Questo forse intuì, anche se in forma ancora vaga e imprecisa il canonico Domenico di Guzman in quell’ostello tolosano, e che da quella notte abbandonò di fatto la vita di canonico fino allora vissuta per iniziare quella del predicatore mendicante. Fu questa l’idea nuova e geniale, il carisma cioè, sul quale fonderà in seguito quell’Ordine che vorrà “fosse di nome e di fatto un Ordine di Predicatori”12.
5. Orbene, nella biografia della vita di S. Caterina e nel suo Dialogo della Divina Provvidenza troviamo due passi che ci dimostrano indiscutibilmente che la sua scelta dell’abito domenicano, prima presagita nel sogno di cui si è detto e poi voluta con tanta insistenza nella realtà, fu una scelta ponderata, dopo aver ben compreso il carisma di San Domenico ed aver voluto condividerne gli impegni.
Nella Legenda Major13 il beato Raimondo narra di una visione raccontatagli da fra Bartolomeo Dominici, che ne aveva avuto la confidenza dalla Santa in persona – poi da lui confermata al Processo Castellano14 e ripresa anche da fra Tommaso Caffarini15 – in cui Caterina, in una vigilia della festa di S. Domenico aveva visto l’Eterno Padre nell’atto di generare dalla bocca il Verbo a Lui coeterno, e contemporaneamente aveva scorto uscirgli dal petto come figlio adottivo il Fondatore dei Frati Predicatori. E di fronte alla sua meraviglia per quanto stava vedendo, l’Eterno Padre le aveva dato questa spiegazione:
“Come questo Figlio secondo natura, Verbo Eterno della mia bocca, predicò al mondo quelle cose che gli furono da me comandate, e rese testimonianza alla Verità, come egli disse a Filato, così il figlio mio adottivo Domenico predicò la verità delle mie parole al mondo, fra gli eretici e fra i cattolici; e… non solo mentre visse, ma anche pei suoi successori per mezzo dei quali seguita a predicare e predicherà ancora. Perché come mio Figlio naturale mandò i suoi discepoli, così questo adottivo mandò i suoi frati; per cui, come il Figlio naturale è il mio Verbo, così questo adottivo è banditore e portatore del mio Verbo… Di più, come il Figlio naturale ordinò tutta la sua vita e tutte le sue azioni alla salute delle anime, così il figlio mio adottivo Domenico pose tutto il suo studio e tutte le sue forze per liberare le anime dalle insidie dell’errore e dai vizi. Questa è la principale intenzione per la quale egli fondò e coltivò il suo Ordine: lo zelo per le anime”.
Di questa visione, così testimoniata, non possiamo dubitare. Il beato Raimondo la definisce visione immaginativa, cioè verificatasi, a suo dire, nella immaginazione della Santa. Checché ne sia la natura, essa dimostra però molto chiaramente quale concetto ella avesse del carisma di S. Domenico.
E la conferma la troviamo in quello che lei stessa ha scritto nel Dialogo, dove nel mettere in bocca all’Eterno Padre l’elogio del dolce spagnolo – come affettuosamente ella chiama S. Domenico – si sente l’eco della visione su riferita e dove, meglio che in essa, precisa chiaramente quale sia il di lui carisma e quello dell’Ordine da lui fondato.
“Se tu pensi alla navicella del padre tuo Domenico, mio figlio diletto, egli l’ha ordinata perfettamente, perché volle che i suoi attendessero solo all’onore mio e alla salvezza delle anime col lume della scienza. Su questo lume egli volle porre il suo principio, non togliendo però la povertà vera e volontaria… Ma quale obiettivo più specifico egli scelse il lume della scienza per estirpare gli errori che in quel tempo si erano diffusi. Egli assunse adunque l’ufficio del Verbo unigenito mio Figlio. Addirittura un apostolo egli sembrava nel mondo, tanta era la verità e il lume con cui seminava la mia parola, togliendo via le tenebre e donando la luce. Egli fu un lume che io offrii al mondo per mezzo di Maria, posto nel corpo mistico della santa Chiesa come estirpatore di eresie”16.
Parlando di S. Francesco ne aveva poco prima caratterizzato il carisma nell’aver
scelto la povertà come virtù principale del suo cammino spirituale. Si noti invece, che
parlando di S. Domenico, dopo aver ricordato che anch’egli aveva voluto la povertà per sè e
per il suo Ordine ma come mezzo al raggiungimento del suo fine, Caterina ne sintetizza in
maniera stupenda il carisma, affermando “ch’egli prese l’ufficio del Verbo”, quello cioè –
come ella stessa precisa in molte sue lettere17, – di manifestare al mondo le Verità del
Padre, ossia quello la predicazione evangelica.
6. E questo carisma domenicano della predicazione, dopo averlo capito e
interpretato meravigliosamente, Caterina in quanto domenicana si sforzò di attuare ed attuò
di fatto in una maniera che, dato il suo sesso e l’epoca in cui ella visse, ha del miracoloso.
Si può predicare in maniera indiretta, con la testimonianza della propria vita e con la
preghiera che ottiene soprannaturalmente efficacia alla predicazione fatta da altri. E questo
tutti i santi lo hanno sempre fatto e fanno. Ma Caterina benché donna – e ben possiamo
immaginare quanti ostacoli abbia dovuto superare per il suo sesso, lei donna del ‘300 –
predicò anche in maniera diretta. Diciamo di più: fece della predicazione e della diffusione del messaggio cristiano la ragione d’essere di tutta la sua vita. E questo nessuna altra donna
prima di lei aveva mai fatto e farà per molti secoli ancora dopo di lei. Ed è con ciò che ella
dimostra di aver vissuto in pieno il carisma di quel suo Ordine che non per nulla ebbe dalla
Chiesa il titolo ufficiale di Ordine dei Predicatori.
Inizia la sua predicazione quasi timidamente a Siena, evangelizzando i poveri,
vegliando gli ammalati, visitando i carcerati. La conversione di Nicolò di Tuldo, di cui
raccoglie in grembo, sul patibolo, la testa insanguinata, di questo apostolato è l’episodio più
celebre, ma ben lungi dall’essere unico. Poi estende la sua azione alla Toscana, all’Italia che
percorre ambasciatrice di pace civile ma soprattutto annunciatrice delle eterne verità.
Predicatrice più tardi alla corte di Avignone, dove convince il Papa al gran ritorno. E più
tardi, a Roma, quando l’unità della Chiesa viene infranta dal grande scisma dell’Occidente, si
fa predicatrice instancabile dell’unità della Chiesa fino a morirne di dolore.
E dove non arriva lei personalmente, arrivano le sue lettere infocate d’amore,
dirette a Papi e a cardinali, a regnanti e a popolani, a religiosi e a laici. E quello che non può
fare lei perché donna, lo faranno per suo incarico le schiere dei suoi discepoli, sacerdoti e
religiosi, che la seguiranno ovunque per raccogliere, mediante l’amministrazione dei
sacramenti, quello che lei aveva seminato abbondantemente con la sua parola.
III – Caterina si nutrì e visse integralmente anche la spiritualità del suo Ordine
7. S. Domenico – come si è detto – una volta intuito quello che lo Spirito Santo
e i bisogni della Chiesa gli richiedevano, non si limitò a fondare un Ordine che avesse come
suo carisma la predicazione, ma con l’esempio prima e poi dando ad esso una legislazione,
gli indicò e fissò anche i mezzi principali per attuano: volle che la predicazione dei suoi figli
fosse alimentata e resa efficace da una intensa vita di studio e di preghiera.
Nei suoi primi dieci anni di apostolato duro e spesso infruttuoso svolto tra i Catari
della Linguadoca, egli infatti aveva fatto personale esperienza che, per predicare ad eretici
non digiuni di teologia e cavillosi nella interpretazione della Sacra Scrittura, occorreva
essere ben preparati sia dottrinalmente che spiritualmente. Poteva ricavare frutti dal proprio
lavoro solo un predicatore dotto e che, secondo la bella espressione usata spesso nei
racconti del Vitae Fratrum, fosse anche grazioso, ossia pieno e apportatore di
grazia18. Convinzione questa che S. Domenico esprimeva nell’esortazione ch’egli ripeteva
continuamente ai suoi frati e “volle che fosse messa anche nelle sue Costituzioni: parlate
sempre con Dio o di Dio”19.
Ecco perché S. Domenico si preoccupò a Tolosa di portare subito a scuola di
teologia dal Maestro Alessandro Stavensby i suoi primi compagni20; quando più tardi
divisò di disperderli nel mondo, ne inviò un primo gruppo a Parigi e poi in seguito un altro a
Bologna, perché vi studiassero in quelle due celebri Università21; e volle inserire nelle prime
Costituzioni dell’Ordine, “che di giorno e di notte, in casa e per strada i frati leggessero e meditassero sempre qualcosa”22, permettendo che essi potessero venire dispensati da ogni
altra pratica conventuale per motivi di studio23, facendo così dello studio, al posto del
lavoro monacale, uno dei mezzi ascetici del nuovo Ordine.
Orbene, S. Caterina dimostra di essere ben consapevole dell’importanza data allo studio da S. Domenico quando, nel brano sopra citato del Dialogo, ricorda ch’egli “scelse il lume della scienza per estirpare gli errori che in quel tempo si erano diffusi” e vede in
questa sua scelta la differenza specifica tra la sua spiritualità e quella di S. Francesco: Francesco e Domenico sono state due colonne della santa Chiesa: Francesco con la
povertà che in modo particolare gli è propria e Domenico con la scienza”24.
Ed ella in un primo tempo, quando era ancora analfabeta, poté imitare il suo santo
Fondatore anche nell’amore allo studio, approfittando degli insegnamenti che le venivano
dal suo dotto direttore spirituale il beato Raimondo e dalle letture che le venivano fatte; e in
seguito, dopo aver imparato miracolosamente a leggere, “impendendo tutto l’altro tempo
del dì – come scrive di lei un anonimo fiorentino – a leggere libri”25.
S. Domenico, a chi un giorno gli aveva chiesto quale fosse la fonte principale della
sua dottrina, aveva risposto: “Ho studiato sul libro della carità più che in ogni altro”26. E
a questa sua fonte pare alluda, condividendola, anche Caterina, quando ancora nel Dialogo
scrive di lui: “Su quale mensa egli fa nutrire i suoi figli col lume della scienza? Alla mensa
della croce… egli non vuole che i suoi figli ad altro attendano che stare su questa mensa
col lume della scienza”27. E anche Caterina, studiando soprattutto in questo libro – anche
in questo perfetta imitatrice del suo padre Domenico – acquisì quella scienza, che al dire
della Bolla di canonizzazione di Pio II, “fu più infusa che acquisita” e che ha fatto di lei,
alla pari dei confratelli Alberto e Tommaso, un Dottore della Chiesa”.
Non lo sarebbe probabilmente diventata se, invece che Domenico, avesse avuto
come modello un S. Francesco, tanto ostile a ogni forma di scienza, da vedere nello studio
una tentazione alla vita spirituale e da proibire ai suoi frati di avere libri, oltre il salterio28.
8. Quanto poi alla preghiera, – questo secondo essenziale elemento della spiritualità
domenicana – della quale S. Domenico fu personalmente assiduo sia di giorno che di
notte29 e della quale conosciamo anche i nove atteggiamenti da lui adottati nel pregare30 – la riscontriamo con ancor più evidenza nella vita e negli scritti di S. Caterina.
Tomisticamente convinta che Dio è il primo motore immobile, causa prima di ogni
avvenimento umano, e che quindi tutto dipende dalla sua divina volontà, troviamo sparso
qua e là nel Dialogo e nelle sue lettere un vero trattato sull’orazione, di cui definisce la
natura, dimostra la necessità, descrive la maniera, sollecita la continuità. Ma anche per lei,
come l’aveva vista e praticata S. Domenico, la preghiera non è solo “madre che concepisce
e partorisce la virtù”, ma è soprattutto mezzo per ottenere da Dio, per mezzo di Cristo
tramezzatore, efficacia all’azione apostolica.
E quanto questa sua convinzione abbia inciso sulla sua vita è ben agevolmente
dimostrabile.
Caterina inizia la sua attività a venti anni (1367), ma ad essa si era preparata da
tempo con una intensa vita interiore. Ancora bambina fugge di casa per poter vivere in una
grotta una sorta di vita monacale. Ricondotta a casa, vi cerca i luoghi più riposti per potervi
pregare in pace; e gli stessi molti gradini della scala di casa le forniscono l’occasione per
elevare la mente a Dio. Privata della sua cameretta per essersi tagliate le trecce, escogita la
dottrina della celletta interiore, mediante la quale impara ad estraniarsi dalle cose
circostanti, per concentrarsi tutta in preghiera. Non ancora Terziaria regola la propria
giornata al suono della campana del vicino convento domenicano, in modo da passare in
preghiera le ore nelle quali i frati sono chiamati allo studio o al riposo, e di riposare invece
quando essi scendono al Coro, instaurando così con loro una specie di ciclo perpetuo di
preghiera.
Ma, entrata nell’Ordine, vuole maggiormente uniformarsi alla sua spiritualità, la
quale, pur non escludendo, anzi sollecitando ogni altra forma di preghiera, dà la sua
preferenza a quella corale31. Ed ecco allora Caterina pronta a mezzanotte e all’alba alle porte
della chiesa, aspettandone l’apertura, per poter partecipare coi religiosi alla recita solenne
delle Ore canoniche. Che poi nel suo pregare veda Cristo come ponte gettato tra la terra e il
cielo e dia tanto valore al suo Sangue redentore, sono accidentalità del suo sentire e del suo
dire che non incrinano la sua appartenenza alla spiritualità dell’Ordine, anzi possono
facilmente entrare a farne parte, esplicitando e integrando le ardenti preghiere diurne e
notturne di Domenico a Cristo crocefisso, per impetrare da lui tra le lacrime la salvezza di
peccatori32. In tal modo sarà preparata anche spiritualmente, oltre che intellettualmente, –
cioè veramente graziosa, come la spiritualità domenicana vorrebbe fosse ogni predicatore –
quando il Signore, dopo averle miracolosamente infuso il dono della scienza, la chiamerà a
quell’intenso lavoro a favore delle anime e della Chiesa, che la renderà celebre nel mondo.
9. Il discorso della preghiera, sia personale che corale, vista anche da S. Caterina,
come l’aveva vista S. Domenico, come preparazione e mezzo per rendere fruttuosa la
predicazione, mi introduce a fare un accenno, per quanto brevissimo, anche al ruolo che la
contemplazione ha nella vita domenicana e di conseguenza in quella di S. Caterina.
La divisione della vita in contemplativa e attiva risale ai filosofi greci, per i quali la
prima era quella dei sapienti o filosofi, che consacrano tutta la loro vita allo studio o
contemplazione della verità; mentre la seconda è quella degli uomini politici, dei commercianti, dei soldati, quella cioè che dedicano la loro vita alle attività di ordine
materiale. Quando S. Tommaso volle applicare tale distinzione agli Ordini religiosi, definì
contemplativi quelli, come il monachesimo, dedicati principalmente alla preghiera e alle
opere di santificazione personale, ossia alla contemplazione della Verità eterna di Dio.
Definì come Ordini attivi quelli che si dedicano invece a questa o a quella delle attività
compiute a servizio del prossimo al di fuori della propria comunità. Essendo la vita umana
specificata dalla sua facoltà più nobile, l’intelletto, e dividendosi questo in attivo o pratico e
in contemplativo o speculativo, questa distinzione della vita umana in attiva e contemplativa
risulta adeguata; per cui non è possibile l’esistenza di un terzo tipo di vita, specificamente e
formalmente distinto dalle precedenti. Chi parla di una vita mista forse è colpito dal fatto
che in certe forme di vita religiosa i due elementi contemplazione ed azione si fondono e
convivono insieme in una certa proporzione; ma non avverte che anche in tale forma di vita
uno degli elementi è necessariamente non solo prevalente, ma – non essendo possibile che
un moto sia specificato da due termini – è il fine al quale l’altro è necessariamente ordinato o
del quale è l’effetto.
Stando così le cose, l’Ordine domenicano, avendo come proprio fine la predicazione
e l’insegnamento della verità, che sono attività ad alios e quindi azioni di vita attiva, S.
Tommaso avrebbe dovuto annoverare il suo Ordine – dato che egli esclude Ordini misti –
tra gli Ordini attivi. Ma egli vide che la predicazione e l’insegnamento delle verità divine
appartengono alla vita attiva soltanto per parte della parola da essi richiesta, ma non per
parte del soggetto o tema svolto predicando e insegnando. Il predicare e l’insegnare hanno
infatti sempre due oggetti: gli uditori e la dottrina da impartire, per cui l’atto con quale si
impartisce è certamente atto di vita attiva, ma la dottrina da impartire è invece oggetto di
contemplazione. In altre parole, se si guarda a coloro ai quali si predica, il predicatore
compie un’azione esterna, come la compie ad esempio una infermiera rispetto all’ammalato
che assiste; ma se si bada alla dottrina che il predicatore impartisce, questa non arricchisce
solo chi ascolta ma anche chi la impartisce33.
Un Ordine finalizzato dal contemplari et contemplata aliis tradere, come quello che
ha come suo carisma la predicazione e l’insegnamento delle verità divine, secondo S.
Tommaso è perciò da annoverarsi tra gli Ordini contemplativi, perché la sua finalità non
solo non distoglie dalla contemplazione ma ne è anzi un esercizio, in quanto il predicatore
per poterle insegnare agli altri deve averle prima studiate e meditate a lungo e mentre le
insegna, se non vuole essere un disco, continua a meditarle. Anzi, siccome “illuminare è più
che risplendere soltanto, e comunicare agli altri le verità contemplate è più che solo
contemplarle”34, un Ordine sì fatto è più contemplativo di quelli che tradizionalmente
passano per tali; sicchè, per usare una formula nota ai teologi, esso lo è eminenter.
S. Tommaso non lo nomina esplicitamente, ma l’Ordine domenicano vide se stesso
descritto nella definizione del suo illustre confratello e con lui e dopo di lui il motto
contemplata aliis tradere fu visto come la più bella sintesi della propria spiritualità, che
veniva così a tradurre con una formula più teologica l’analogo motto di S. Domenico:
“Parlate sempre con Dio o di Dio”35.
Orbene, S. Caterina, come domenicana, ben conosceva questo pensiero del
confratello Tommaso al riguardo, ed era anche personalmente convinta che il parlare di Dio
agli uomini non interrompe il colloquio con Dio. Ecco perché Caterina, la santa che ha
stupito il mondo, lei donna, per l’intensità di un apostolato fino allora precluso al suo sesso,
lo ha stupito anche per l’abbondanza della sua contemplazione e dei doni mistici connessi.
D’altra parte non dovremmo stupirci più di tanto, se pensiamo: da un lato – come abbiamo visto – che la contemplazione non è necessariamente legata, contrariamente a quanto spesso
erroneamente si crede, alla vita di clausura di cui questa non ne è che un mezzo, ma la si
può vivere anche conducendo la più intensa vita di apostolato; e dall’altro, che secondo la
dottrina tomista, i cosiddetti dono mistici non sono doni straordinari per il fatto che Dio li
riservi a pochi, ma solo per il fatto che pochi sviluppano al massimo il Dono della Sapienza
al quale sono collegati e che ogni cristiano possiede quando è in grazia di Dio. Perciò, se le
stimmate, il cambiamento di cuore con Cristo, le mistiche nozze con lui sono gli episodi
della sua vita che più hanno colpito la nostra memoria, non dovremmo dimenticare che essi
furono in Caterina il punto di arrivo della sua spiritualità, che, in vista della salvezza delle
anime, la portava a vivere quotidianamente la più intensa vita di unione con Dio. Anche gli
straordinari suoi doni mistici furono cioè in lei il frutto del contemplata aliis tradere della
spiritualità del suo Ordine.
Conclusione
Al termine di questa rapida sintesi, mi pare perciò di poter concludere che S. Caterina fu
domenicana non solo giuridicamente in quanto Terziaria e quindi membro effettivo
dell’Ordine, ma io fu anche per il carisma e la spiritualità dei quali comprese appieno la
bellezza e che, compatibilmente con la sua condizione di laica, attuò pienamente: carisma e
spiritualità che abbiamo sintetizzato nelle tre parole care al suo confratello Tommaso:
“Contemplata aliis tradere”: carisma e spiritualità che crediamo più che mai adatti al tempo
nostro, come lo furono in quello di Caterina.
In questo mondo ormai quasi totalmente secolarizzato ed ateo, nel quale dal
Vaticano II in poi si è riscoperta la necessità di un apostolato non riservato al clero, ma
aperto a tutti, donne non escluse; in questa nostra epoca in cui tanti movimenti femminili
cercano una uguaglianza con l’uomo anche in settori in cui uguaglianza non ci potrà mai
essere; Caterina con la sua vita e con i suoi scritti dice a tutti, uomini e donne, che tutti
dobbiamo e possiamo essere apostoli, in forza di quel mandato che a tutti viene dato alla
ricezione del Battesimo. E la donna non deve trovare preclusioni o remore nell’affiancarsi
all’uomo anche in forme dirette di apostolato, non strettamente legate all’Ordine sacro, che
un tempo sembravano riservate al solo clero e solo agli uomini.
Ma Caterina come domenicana avverte però tutti, in questa epoca in cui alle volte le
opere sociali e della carità materiale sembrano prevalere fino a far dimenticare quelle della
carità spirituale, che se è un grande atto di carità sovvenire ai bisogni materiali dei nostri
fratelli e non lasciarli morire di fame, è però un atto di carità incomparabilmente più grande
quello di sovvenire ai loro bisogni spirituali, per non esporli alla morte eterna dell’anima.
E, in questa nostra epoca, il cui attivismo fa spesso sottovalutare i valori dello
spirito, Caterina, come domenicana, dà anche a coloro che oggi non sono sordi al richiamo
dell’apostolato un prezioso avvertimento: che l’anima di ogni apostolato è la vita interiore
Il tempo che essi passeranno in preghiera non sarà tempo perso per la salvezza delle anime,
ma quello speso meglio, perché nell’opera della conversione l’apostolo non è che uno
strumento nella mani di Dio, strumento che si condanna ad una inevitabile sterilità se si
sottrae al contatto divino.
Ed è questo a mio avviso il messaggio che Caterina, dottore della Chiesa e patrona
della nostra patria, rivolge a noi e al mondo all’alba di questo terzo millennio.
Fra Pietro Lippini O.P.
Genova, 7 ottobre 1998
NOTE
1D’URSO G., S. Domenico visto da S. Caterina, in Quaderni Cateriniani, Siena, 1972. p.3.
2“Legenda Major” o Vita di S. Caterina, scritta dal suo confessore beato Raimondo da Capua, trad. di
P. Tinagli, 3 ed., Siena 1969, n.53.
3Ivi, n. 53.
4Ivi, nn. 72-75.
5Regola dei Fratelli e delle Sorelle della Penitenza di S. Domenico, Fondatore e Padre dei Frati
dell’Ordine dei Predicatori, edizione Bollettino di S. Domenico, Bologna, 1985.
6Regola, nn. 1 e 58.
7Paradiso, XI, 37-39.
8Questo termine si trova 16 volte in S. Paolo ed una in S. Pietro (1 Pt. 4,10). Talvolta ha il senso
generico di dono gratuito, che può quindi venire applicato anche alla grazia santificante, ma altrove (1 Cor.
12,7) assume invece il significato specifico di dono soprannaturale straordinario, concesso – come si è
detto – non per l’utilità propria ma per l’altrui. Nella dottrina di S. Tommaso questi doni venivano
chiamati, con identico significato, Gratiae gratis datae, per distinguerli dalla grazia santificante o Gratia
gratum faciens.
9Cf. Spirito, Spiritualità e Carisma, in Lippini P., La Spiritualità domenicana, ESD, Bologna, 1987,
pp. 15-18.
10Il mezzogiorno della Francia, e in special modo la contea di Tolosa, erano allora infestati da tutta una
serie di sette eretiche, riunite sotto la denominazione geografica di Albigesi, anche se la diocesi di Albi non
ne era più infetta delle altre. Accanto ai Valdesi o Poveri di Lione, imperversavano soprattutto i Catari.
Ricollegandosi con fili misteriosi alle correnti dualistiche precristiane dell’Oriente e allo gnosticismo del
secondo secolo, il catarismo, per spiegare la coesistenza del bene e del male nel mondo, insegnava
l’esistenza di due dei in lotta fra loro, identificati, quello del bene nel Dio del Vangelo, quello del male nel Dio dell’Antico Testamento. Le anime sono angeli rinchiusi nella materia, sotto il dominio del dio del male.
Una estrema austerità, una assoluta castità, una totale povertà dei cosiddetti perfetti,, ai quali era interdetto
il matrimonio e qualunque attività che significasse collaborazione col mondo della materia, facevano presa
sulle masse dei cristiani, propensi a vedere in essi – a differenza di quanto qualche volta non si scorgeva
nei pastori cattolici – dei veri seguaci della dottrina evangelica. In realtà i Catari del cristianesimo
avevano conservato ben poco: Gesù Cristo non era per loro un salvatore ma soltanto un maestro: il suo
corpo e la sua morte erano solo apparenti, e la croce non era un segno di salvezza ma di scandalo. Cf.
Lippini P., S. Domenico visto dai suoi contemporanei, ESD, Bologna, 1998, nota 43, p.83.
11Libelius de initio Ordinis Fratrum Praedicatorum, del beato Giordano di Sassonia, in Lippini P., San Domenico visto dai suoi contemporanei, 1. c, n. 15 e note 45,46, pp. 83-84.
12Libellus, l.c. n. 40, p.113 e nota 87, p.119.
13Libellus, l.c. nn. 204-205.
14Processo Castellano, a cura di M.-H. Laurent, vol. IX delle Fontes vitae S. Catharinae Senensis historici, Milano, F.lli Bocca 1942: Deposizione di fra Bartolomeo Dominici, pp.308-309.
15Supplementum di fra Tommaso d’Antonio Nacci, detto Caffarini, da Siena, tradotto da P. G Tinagli
quanto alla prima e alla seconda parte e pubblicato col titolo Vita di S. Caterina da Siena. Vita intima, con
prefazione del Padre Giacinto Laurent, ed. Cantagalli, Siena, 1938, libro II, cap. 2, pp. 10 1-104.
16Dialogo della Divina Provvidenza, versione in italiano corrente a cura di M. Adelaide Raschini, ESD,
Bologna, 1998, n.158, pp. 433-434.
17Cf Ad esempio la lettera 193.
18Il termine non esclude che il predicatore possa rendere più efficace e accetta su un piano umano la
parola di Dio quando la riveste di una certa eloquenza e lui, fisicamente e per il suo modo di esporla sia
gradito agli ascoltatori, ma si riferisce soprattutto al fatto che la predicazione è una specie di sacramentale
che è reso soprannaturalmente più efficace dalla grazia di cui il predicatore deve essere portatore. Cf.
Lippini P., Storie e leggende medievali. Le “Vitae Fratrum” di Geraldo di Frachet O.P., ESD, Bologna,
1988, Episodi 42 e ss.
19Cf. Atti del processo di Bologna, in Lippini P., S. Domenico visto dai suoi contemporanei, l.c. nn., 13,
29, 32, 3 7,41, 47, e Atti del processo di Tolosa odi Linguadoca, ivi n.18.
20Legenda Sancti Dominici, auctore Humberto de Romanis, ed. Walz, MOPH XVI (1935), n. 40.
21Libellus, l.c. nn.51,58.
22Prime Costituzioni dell’Ordine dei Frati Predicatori, in Lippini P., La vita quotidiana di un convento medievale. Gli ambienti, le regole e le mansioni dei Frati Domenicani del tredicesimo secolo, ESD,
Bologna, 1990, II, 13 p. 365.
23Ivi, Prologo, p. 365.
24Dialogo, l.c. p.436.
25Anonimo fiorentino, I miracoli di Caterina, di Jacopo da Siena.
26Lippini P., Storie e leggende medievali. Il Vitae Fratrum di Geraldo di Frachet, ESD, Bologna 1988,
Episodio 82.
27Dialogo, l.c. 434.
28Si vedano al riguardo i quasi incredibili episodi narrati nella Leggenda Perugina, nn.72-74 (Fonti
Francescane, Seconda ristampa, Assisi 1978, 1626-1628), nello Specchio di perfezione del Frate Minore, n.
44 ( FF. 1683), e riportati in “2 Celano, n. 62, 195 ( FF. 648, 782 ). Lo stesso Celano scrive del suo
Fondatore, che pur avendo un grande rispetto per i teologi (“2 Celano, 163, FF. 747); e pur avendo dato
a S. Antonio il permesso di insegnare teologia (FF.52), per la scienza e gli uomini di cultura nutriva una
certa prevenzione: “la scienza rende numerose persone restie alla perfezione, perché dona loro una certa
rigidità che non si piega agli insegnamenti umili“, per cui “un uomo di grande cultura, se vuole entrare
nell’Ordine, deve rinunciare in qualche modo anche alla scienza, per offrirsi nudo alle braccia del
crocifisso, dopo essersi espropriato di questa forma di possesso” (FF. 780). E diceva ancora: “I miei frati
che si lasciano attrarre dalla curiosità della scienza, si troveranno le mani vuote nel giorno della
retribuzione” (FF. 781).
29Cf. Per il suo spirito di preghiera: Libellus, nn. 13, 105; per le sue veglie notturne, ivi 105 e soprattutto le numerose deposizioni dei testi sia del Processo di Bologna che di quello di Linguadoca, riportate anch’esse in Lippini P. San Domenico… l.c. pp. 436-512.
30Le nove maniere di pregare di S. Domenico, riportate in Lippini P., San Domenico… pp. 333-353.
31“Per volontà esplicita di S. Domenico, la celebrazione comunitaria e solenne della liturgia è da annoverarsi tra i doveri principali della nostra vocazione” (LCO, 57). Le prime Costituzioni dell’Ordine
iniziavano infatti proprio descrivendo nei suoi dettagli l’obbligo e il rituale della celebrazione delle Ore
canoniche (I, 1,4 ) venendone così implicitamente ad affermare il valore primario.
32S. Domenico mescola il pianto alla preghiera (Cf Libellus, 13, 105; Processo di Bologna, 11,20,29,31,42,47; Processo di Linguadoca, 6, 18 ). Piange mentre celebra la Messa (Libellus, 105; Processo di Bologna, 6,38). “Quando era in preghiera gemeva così forte che lo sentivano da ogni parte.
Gemendo diceva: Signore abbi pietà del tuo popolo. Cosa ne sarà dei peccatori?” (Processo di
Linguadoca, 18).
33II-II, q. 181, a. 3.
34II-II, q. 188, a. 6.
35Nota 18.