Questo articolo è disponibile anche in: Italiano
Il fondatore dell’Ordine dei Frati Predicatori, Domenico di Guzman, canonico della cattedrale di Osma, era nato a Caleruega (Castiglia, Spagna) in un anno tra il 1171 e il 1175, in una famiglia della nobiltà locale. Notevole influenza sul suo carattere ebbe la madre Giovanna Aza. Uno zio arciprete consigliò Palencia quale città adatta a completare gli studi di arti liberali. Domenico vi si recò, applicandosi per alcuni anni. Non sembra tuttavia che li portasse a termine, dedicandosi piuttosto agli studi sacri, oltre che ovviamente alla grammatica e alla dialettica. Non aveva infatti una predisposizione allo studio per lo studio, ma solo in vista di scopi più alti. Così si spiega anche l’episodio accaduto a Palencia e narrato da Giordano di Sassonia nel suo “Libretto sui primi tempi dell’Ordine dei Predicatori”: Scosso dalla miseria dei poveri e divorato dalla compassione, risolvette con un unico gesto di obbedire ai consigli evangelici e di alleviare nel modo che gli era possibile la miseria dei poveri che morivano. E vendette i libri che possedeva, libri a lui indispensabili fra l’altro, e tutte le sue suppellettili. Dando origine ad una elemosina, Domenico distribuì i suoi beni ai poveri. E secondo un altro testimone, al momento di vendere manoscritti e pergamene per dare il ricavato ai poveri, Domenico avrebbe detto: Non voglio certo studiare su pelli morte, mentre delle persone muoiono di fame.
Sul finire del suo soggiorno di studi a Palencia, Domenico fu avvicinato dal priore del capitolo di Osma, Diego de Acebés, che lo convinse a seguirlo e ad entrare in quel capitolo di canonici, il quale già da qualche decennio aveva intrapreso un cammino di riforma. Di conseguenza, pur trattandosi di chierici e sacerdoti secolari, avevano in parte condiviso alcune forme della vita religiosa. Dicevano l’ufficio divino in comune e parecchi di loro vivevano in abitazioni annesse alla chiesa. Entrato verso il 1198 nel capitolo della Cattedrale di Osma, ne divenne il sottopriore nel 1201, mentre Diego era elevato alla cattedra episcopale.
A don Diego fu affidata nel 1203 una delicata missione da Alfonso IX re di Castiglia, che voleva maritare suo figlio Ferdinando a una principessa reale di Danimarca. Durante il breve soggiorno a corte vennero a conoscenza dei popoli ancora pagani dell’Europa orientale e specialmente dei Cumani. Presi dal desiderio di andare ad evangelizzarli, mandarono un’ambasceria al re di Castiglia per informarlo sulla morte della fanciulla, e i due si recarono a Roma dal papa Innocenzo III. Questi però, dopo averli ascoltati, si rifiutò di accondiscendere alla loro richiesta. E’ ancora Giordano di Sassonia a descrivere l’incontro: il papa non accondiscese a quella richiesta. Non solo, ma non gli consentì nemmeno, nonostante che Diego lo supplicasse di ingiungerglielo in remissione dei propri peccati, di entrare nei confini dei Cumani, pur con la dignità episcopale: e ciò per occulto disegno di Dio che aveva disposto di volgere ad altra abbondante messe le fatiche di un uomo così eccezionale.
Intanto il passaggio per la Linguadoca rivelò ai due viaggiatori i tristi effetti che l’eresia degli Albigesi produceva in quelle regioni. In quelle contrade Domenico vide un campo d’azione per sé, e vi lavorò con ardore incredibile, dapprima insieme col vescovo, poi da solo, essendo questi tornato alla sua sede. Sebbene non gli mancassero aiuti, quali in Tolosa il conte di Montfort, e Folco, già lieto trovatore poi monaco cisterciense e infine vescovo di Tolosa, pure i nemici erano forti e parevano invincibili. L’eresia albigese aveva trovato ottimo terreno presso le donne.
Ed allora ecco che Innocenzo III orienta il loro zelo missionario verso quella predicazione nell’Albigese da lui ardentemente e autorevolmente promossa fin dal 1203. Fu qui che incontrarono un gruppo di ecclesiastici impegnati a discutere sui metodi per affrontare gli eretici, che ormai si erano addirittura organizzati ecclesiasticamente nella regione. Questi eretici erano i Catari (puri), detti anche Albigesi perché nella città di Albi avevano il loro quartier generale.
La forza trascinatrice dei movimenti ereticali nasceva dal fatto che proponevano un esempio di rigorosa povertà evangelica, che rigettava tutti i compromessi accettati dalla chiesa cattolica per fronteggiare le esigenze dei tempi. Un esempio era stato una quarantina d’anni prima Pietro Valdo (da cui i Valdesi), il ricco mercante di Lione che nel 1174 aveva abbandonato tutte le sue ricchezze per abbracciare una vita di povertà. I suoi seguaci si presentarono al concilio Lateranense del 1179, ricevendo un netto rifiuto alla loro richiesta di darsi alla predicazione, a meno che non ne fossero espressamente richiesti dai sacerdoti del luogo (nisi rogantibus sacerdotibus). L’aspetto istituzionale e dogmatico si sviluppò variamente e in tempi diversi. Come Valdo, anche i Patareni della Lombardia (noti anche come Umiliati o boni homines) erano interessati soprattutto ad una vita rigorosa, senza però il concetto dell’itineranza né di rinuncia ai beni.
A differenza dei Valdesi e degli Umiliati, i Catari o Albigesi si erano già organizzati ecclesiasticamente ed avevano elaborato un sistema dottrinale, il che faceva sì che la loro fosse una chiesa concorrente alla chiesa ufficiale. Bisogna ricercare nelle dottrine manichee (v.) le prime scaturigini del catarismo, detto perciò anche neo-manicheismo. Sua dottrina fondamentale è, infatti, la coesistenza di due principî sovrani, che si contrastano il dominio del mondo: il principio del bene e quello del male, Dio e Satana. Opera divina sono le creature angeliche e spirituali, sia che esse scaturiscano per via di emanazione e d’ipostasi dall’essenza divina e siano pertanto coeterne con Dio, sia che esse siano state tratte per virtù creativa dal nulla; opera demoniaca sono le creature materiali e terrene, sia che esse siano state prodotte per virtù demiurgica da Satana, cui Dio permise di organizzare la materia, separando e poi combinando diversamente i quattro elementi essenziali del caos: il fuoco, l’aria, l’acqua e la terra (Concorezziani e Bagnolesi), sia che esse siano state create dal nulla, dal principio del male (Albigesi e Albanesi). Nell’uomo, dotato d’una duplice natura, spirituale e materiale, s’incontrano e si oppongono i due principî supremi.
Il suo corpo, che è natura corruttibile, è opera di Satana e a lui soggetto; la sua anima, che è puro spirito, è opera e proprietà di Dio. Da questo dualismo, spiegato dagli eretici miticamente attraverso narrazioni diverse, deriva l’intima lotta che lacera la coscienza dell’uomo, la cui anima è schiava della materia. Mosso a compassione dell’uomo, Dio inviò nel mondo il Cristo, suo figlio, perché redimesse l’umanità dal giogo di Satana. Cristo, spirito e soltanto in apparenza rivestito di corpo, secondo l’antica concezione del docetismo gnostico, rivelò all’uomo, sino allora vissuto nell’ignoranza, la natura divina della sua anima, e come imprigionato nella materia potesse raggiungere la sua liberazione. Essendo il Cristo puro spirito e venendo sulla terra a liberare gli uomini senza assoggettarsi alla loro stessa schiavitù, il corpo ch’egli prese e gli atti materiali che compì, dall’incarnazione sino alla passione, non furono che pura apparenza. Anche la Vergine Madre fu puro spirito sotto l’aspetto umano e la sua maternità l’unione di due spiriti, il suo e quello del suo figlio divino. Il dualismo che è nell’uomo si riflette così sulla storia dell’umanità, la quale perciò si divide in due grandi periodi: quello precedente la venuta e rivelazione di Cristo, caratterizzato dall’ignoranza dell’uomo e dal dominio incontrastato di Satana, e quello che venne dopo Cristo, in cui la dottrina che sottrae le anime alla schiavitù corporale contrasta e limita il dominio satanico. A questi due periodi corrispondono i due Testamenti: l’Antico, che ha per centro Satana ed è la storia del suo dominio sul popolo ebreo; il Nuovo, che ha per centro Cristo e contiene la dottrina della salvezza. La redenzione, più che un’espiazione, fu una dottrina. Coloro che la conoscono e la praticano, adorando Dio in spirito e verità, sono i figli dello Spirito e formano la chiesa catara. Gli altri, ignorando la vera natura della missione di Cristo e il genuino significato del Nuovo Testamento, sono i figli di Satana e formano la chiesa cattolica. Lo stesso dualismo che era nella natura dell’uomo e nella storia dell’umanità si perpetuava cosi nel contrasto irreduttibile tra catarismo e cattolicismo.
Come conseguenza di queste loro dottrine, i catari negavano parecchi dogmi del cattolicismo, come la transustanziazione e il sacrificio della messa, il battesimo materiale, l’esistenza del purgatorio e l’utilità dei suffragi, la venerazione delle immagini e il culto delle chiese; conservarono però alcune delle grandi feste cristiane, come il Natale, la Pasqua e la Pentecoste. Da questa si apprende che lo spirito dell’uomo, se assimila la dottrina catara e riceve il Consolamentum, può liberarsi del corpo e tornare a Dio. Per rendere efficace il Consolamentum , cioè questo battesimo spirituale, è necessario fare i digiuni, osservare la castità, non uccidere né uomini né animali. Tutte cose, spesso buone, ma che spinte all’estremo comportavano conseguenze sociali disastrose, come ad esempio l’esaltazione della castità implicava la negazione del matrimonio, essendo questa della castità una strada che solo pochi possono battere e non un precetto per le masse.
Come si può vedere, non si trattava della negazione di questa o quella verità rivelata, come gli antichi eretici, ma di una visione mitica che, ispirandosi ad alcune narrazioni bibliche, proponeva un sistema dottrinale totalmente diverso da quello cristiano. Notoriamente tutti gli eretici partono dalla Bibbia, prendendo a scusa la sua autorità, ma non vogliono saperne di incanalare la sua interpretazione nel solco della Tradizione della Chiesa, che essendo discendenza di Cristo fa autorità al pari delle Scritture, che debbono appunto essere interpretate nel solco della Tradizione della Chiesa, come farà ad esempio Tommaso d’Aquino, quando nel commento ai Vangeli attinge a piene mani alle citazione dei Padri della Chiesa. Questa grande “distanza” dottrinale era forse la causa principale dell’insuccesso dei legati papali, vale a dire l’abate del famoso monastero di Citaux, Arnaldo Amaury, e i monaci di Fontfroide, Pietro di Castelnau e maestro Raoul, tutti col titolo di legati pontifici già da due anni. Gli insuccessi di quei due anni li avevano provati, per cui quando Diego propose di affrontare gli eretici secondo lo spirito apostolico, rinunciando cioè alle cavalcature, ne furono prosternati, ma accettarono il consiglio. Anzi, dato che l’abate di Citaux doveva assentarsi per presiedere il capitolo generale del suo Ordine, affidarono a Diego la guida della missione.
Da parte sua Domenico, seguendo anche qui una modalità cara agli eretici albigesi, fondò a Prouille una comunità femminile che con la preghiera e col loro servizio fungesse di appoggio alla predicazione.
Domenico accetta quindi la nuova consegna e rimarrà eroicamente sulla breccia anche quando si dissolverà la legazione pontificia, e l’improvvisa morte di Diego (30 dicembre 1207) lo lascerà solo di fronte ad un avversario implacabile e schiacciante. Pubblici dibattiti, colloqui personali, trattative, predicazione, opera di persuasione, preghiera e penitenza: così fino al 1215 quando Folco, vescovo di Tolosa, lo nomina predicatore della sua diocesi.
Intanto alcuni amici si stringono intorno a San Domenico che viene maturando un ardito piano: dare alla Predicazione forma stabile e organizzata. Insieme a Folco si reca quindi a Roma (1215) e sottopone il suo progetto a Innocenzo III che lo conferma. L’anno successivo, il 22 dicembre, Onorio III darà l’approvazione ufficiale della Predicazione di Tolosa.
Nello stesso tempo uomini valenti in lettere e scienze, e forniti di solida pietà, si unirono con Domenico; Pietro Cellani fu il primo, e gli donò la sua casa in Tolosa. Ma Domenico si sentiva attratto verso Roma. Sei volte valicò le Alpi. Un primo viaggio fece con Diego a Roma presso Innocenzo III, da cui fu conosciuta e incoraggiata l’opera loro nella Linguadoca. Un secondo viaggio compì col vescovo Folco, che vi si recò per il Concilio lateranense. Domenico parlò al papa Innocenzo ed ottenne da lui favori per la casa di Prouille; ma per la fondazione di un nuovo ordine di religiosi non ottenne per allora l’assenso. Tuttavia celesti segni riferiti dagli storici, fra i quali l’avere il papa visto il Laterano cadente che veniva sorretto da Domenico, indussero Innocenzo ad accordare ai nuovi religiosi un periodo d’esperimento; frattanto egli stesso diede loro il nome di “frati predicatori”. A questo secondo viaggio assegnano gli storici l’incontro di D. con S. Francesco d’Assisi. Un terzo viaggio fu presso Onorio III, che approvò il nuovo ordine il 22 dicembre 1216. Fu questo papa che a D. diede l’ufficio di “maestro del sacro Palazzo”, occupato fino ad oggi sempre da un religioso domenicano. Il nuovo ordine si stabilì in Roma prima a S. Sisto, poi a S. Sabina presso al palazzo del papa (Savelli), e a S. Sisto fu aperta la prima comunità di suore sotto la guida di alcune venute da Prouille. Intanto l’ordine si estendeva grandemente in Francia, Spagna e Germania; l’Italia, dopo il convento di Bologna fondato nel 1218, ebbe case di domenicani in tutte le città che possedevano università o erano centri fiorenti di studî. Nei capitoli generali, di cui i primi due, nel 1220 e nel 1221, furono tenuti a Bologna, furono date ai conventi, che già vivevano sotto la regola di S. Agostino adottata fin da principio, nuove norme o “costituzioni”, e stabilite osservanze per gli studî e la regolare disciplina vigenti ancora ai giorni nostri.
Nel giugno del 1221 il fondatore dell’Ordine era presente al secondo capitolo generale a Bologna (coi rappresentanti di una ventina di conventi). Rapidamente Domenico disseminò i suoi “figli” in Europa avviandoli a occupare i centri universitari, come Bologna e Parigi. Viaggiando senza posa, da Tolosa a Roma, da Bologna a Parigi (anche la piccola Asti, la mia città, ebbe il Convento domenicano fondato personalmente da lui!) per diffondere e consolidare la sua opera, in appena 5 anni, riempì l’Europa dei suoi “bianchi” Frati, i predicatori della Verità, che la gente del popolo chiamava “i Frati di Maria” (altri tempi, purtroppo, mi sembra), per la loro devozione straordinaria alla Madonna. I loro nomi illustri partono da lui e giungono sino a noi, da san Tommaso d’Aquino a Savonarola, da san Pio V a Garrigou-Lagrange.
Essendo cresciuto enormemente fra il 1220 ed il 1221, in questo secondo capitolo generale l’Ordine venne diviso in Province: Lombardia, Spagna, Provenza, Francia e Romana. Più tardi si aggiungono: Ungheria, Germania e Inghilterra. Quindi Grecia, Terra Santa, Polonia e Dacia.
Dopo di che, nonostante che la salute desse segni di allarme, Domenico continuò a predicare in Lombardia. Quando non resse più, si fece portare nel convento di S. Nicola a Bologna, ove morì il 6 agosto del 1221, quando Domenico di Guzman va all’incontro con Dio promettendo ai suoi Frati (cf. Responsorio “O spem miram”) che sarebbe stato più utile loro in Cielo che sulla terra.
Domenico fu canonizzato da Papa Gregorio IX il 13 luglio 1234 nella Cattedrale di Santa Maria Assunta a Rieti[28]. Attualmente è celebrato il giorno 8 agosto (Calendario romano generale) e il 4 agosto (Messa tridentina).
Il suo corpo, dal 5 giugno 1267, è custodito in una preziosa arca marmorea, presso l’omonima basilica di Bologna. A Roma, nell’orto del convento della Basilica di Santa Sabina all’Aventino, è presente una pianta di arancio dolce che, secondo la tradizione domenicana, fu piantato da san Domenico ed è l’arancio più vecchio d’Europa. La notorietà delle numerose leggende miracolistiche legate alle sue intercessioni fecero accorrere al suo sepolcro fedeli da ogni parte d’Italia e d’Europa, mentre i fedeli bolognesi lo proclamarono «Patrono e Difensore perpetuo della città».
In occasione del VII centenario della morte il 29 giugno 1921 Papa Benedetto XV dedicò alla figura di san Domenico l’enciclica Fausto Appetente Die.