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Quesito
Caro Padre Angelo,
vorrei chiederLe il significato di due proposizioni, relative al precetto dell’amore per il prossimo, che sono state condannate in un decreto del S. Uffizio sotto Innocenzo XI nel 1679, e che penso appartengano quindi al Magistero della Chiesa. Esse dicono:
Non tenemur proximum diligere actu interno et formali (non siamo obbligati ad amare il prossimo con atto interno e formale);
Praecepto proximum diligendi satisfacere possumus per solos actus externos (possiamo soddisfare il precetto di amare il prossimo attraverso i soli atti esterni).
Ora, è evidente che non basta compiere l’opera esterna di amore per il prossimo, come sarebbe il caso di una persona che fa un elemosina, ma in cuor suo odia la persona a cui dà l’elemosina.
Tuttavia vorrei sapere se queste due proposizioni condannate (e specialmente la prima, dove si parla di “atto interno e formale”) implicano che, per adempiere il comandamento dell’amore del prossimo, siamo tenuti periodicamente anche a formulare dentro di noi un atto esplicito di amore per il prossimo (ad esempio l’atto di carità, dove diciamo espressamente: “… e, per amor tuo, amo il mio prossimo come me stesso”).
Oppure è sufficiente che la volontà di amare il prossimo sia compresa implicitamente nell’atto di dolore che uno fa quando si confessa?
La ringrazio fin d’ora per la risposta che vorrà darmi e Le auguro un santo tempo di Natale (2019).
Cordialmente,
Davide
Risposta del sacerdote
Caro Davide,
1. mi spiace per il ritardo con cui ti rispondo e te ne domando scusa.
2. Con le condanne che mi hai indicato il magistero ricordava che il nostro amore per il prossimo deve prendere tutta la nostra vita, anima e corpo, vita interiore e vita esteriore.
3. Per amore interno s’intende dire che deve partire dalla volontà. Diversamente quest’amore non ci renderebbe buoni.
Per amore formale s’intende che dev’essere un vero atto di amore: perché sia vero non è necessario dirlo con le parole.
È vero anche se è implicito nei fatti.
Pertanto la dichiarazione del Magistero non vuole indurre a nessun forma di scrupolo.
Sicché se di fatto soccorriamo il prossimo nelle sue necessità e siamo contenti di farlo dobbiamo riconoscere che ci troviamo di fronte ad un atto interno ed esterno di amore per il prossimo, anche se non si è detto interiormente: intendo amare il prossimo.
4. Una cosa analoga è richiesta per chi celebra i sacramenti: si richiede che abbia un’intenzione formale (secondo il significati teologico di questa parola), e cioè specifica.
I teologi moralisti precisano che è sufficiente un’intenzione formale (specifica) che è implicita nell’atto stesso di vestire i paramenti e di andare in presbiterio per celebrare la Messa.
In altre parole si richiede di essere consapevoli di ciò che si fa, e cioè di intendere e di volere .
5. In passato i sacerdoti erano esortati a recitare la formula “Voglio celebrare la Messa e consacrare il Corpo e il Sangue del Signore secondo il rito della Santa Romana Chiesa, a lode e gloria di Dio e di tutta la Chiesa celeste, per l’utilità mia e di tutta la Chiesa militante, per tutti quelli che si sono raccomandati alle mie preghiere in generale e in particolare e per il felice stato della Santa Romana Chiesa”.
Ma la Messa era valida anche se non pronunciavano tali parole.
Piuttosto era invalida se anche con atto interiore avessero detto: “Non intendo celebrare la Messa e non intendo consacrare” pur vestendosi per la celebrazione e andando all’altare. In tal caso avrebbero finto di celebrare.
6. Mi chiedi se le parole dell’atto di dolore contengano implicitamente la volontà di amare il prossimo.
Sì, certamente. Ma per evitare ogni forma di scrupolo è più importante e più evidente mostrarlo con i fatti che dirlo anche solo interiormente.
Ti auguro ogni bene, ti ricordo al Signore e ti benedico.
Padre Angelo