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Quesito
Buon pomeriggio, padre Angelo.
In un sussidio per le confessioni di un santuario della mia città, a proposito dei peccati contro il sesto comandamento, c’è scritto “chiedo perdono per non aver fatto buon uso del dono della sessualità secondo il progetto di Dio, per aver offuscato la purezza del mio sguardo, del mio linguaggio, dei miei atteggiamenti…”.
Spesso ho usato in passato questa formula nelle confessioni.
Secondo lei è sufficiente oppure bisognerebbe essere più precisi, specificando per esempio se sono stati commessi atti impuri, fornicazione, adulterio, ecc.?
Risposta del sacerdote
Carissimo,
1. sì, è insufficiente quella formulazione per l’accusa dei peccati nell’ambito della sessualità.
Anche perché costringe il confessore a fare domande per comprendere quale sia il peccato che affligge. Diversamente non può fornire gli opportuni rimedi.
2. L’accusa dei peccati ha infatti una intrinseca finalità terapeutica.
Come non è sufficiente andare dal medico e dirgli che ci si sente un po’ male perché dia le medicine opportune, così anche qui.
Tanto più che alcuni consigli, non conoscendo la situazione del penitente, potrebbero essere più nocivi che benefici.
3. Per questo nell’esortazione post sinodale Reconciliatio et penitentia il santo Papa Giovanni Paolo II dice: “Riflettendo sulla funzione di questo sacramento, la coscienza della Chiesa vi scorge, oltre il carattere di giudizio nel senso accennato, un carattere terapeutico o medicinale.
E questo si ricollega al fatto che è frequente nel Vangelo la presentazione di Cristo come medico, mentre la sua opera redentrice viene spesso chiamata, sin dall’antichità cristiana, «medicina salutis» (medicina di salvezza). «Io voglio curare, non accusare», diceva sant’Agostino riferendosi all’esercizio della pastorale penitenziale, ed è grazie alla medicina della confessione che l’esperienza del peccato non degenera in disperazione. Il «Rito della penitenza» allude a questo aspetto medicinale del sacramento, al quale l’uomo contemporaneo è forse più sensibile, vedendo nel peccato, sì, ciò che comporta di errore, ma ancor più ciò che dimostra in ordine alla debolezza e infermità umana” (RP, 31,II).
4. Quando si va dal medico si sente l’esigenza di manifestare i sintomi del proprio male in tutti i dettagli. Talvolta si ha perfino timore che il medico non comprenda.
Nel sacramento della confessione non si richiede di scendere nei dettagli a meno che non cambino la qualità del peccato.
Ma il peccato, in quanto è un male e per non degenerare anche in una malattia spirituale, deve essere conosciuto nella sua essenzialità.
Sicché accusare di aver commesso genericamente degli atti impuri quando dietro questi atti c’è un adulterio permanente che tra l’altro sta insidiando l’unità della famiglia non è assolutamente sufficiente perché la confessione sia efficace e fruttuosa.
È il bene del penitente che lo richiede.
5. Per questo il santo Papa Giovanni Paolo II prosegue affermando: “Tribunale di misericordia o luogo di guarigione spirituale, sotto entrambi gli aspetti, il sacramento esige una conoscenza dell’intimo del peccatore, per poterlo giudicare ed assolvere, per curarlo e guarirlo.
E proprio per questo esso implica, da parte del penitente, l’accusa sincera e completa dei peccati, che ha pertanto una ragion d’essere non solo ispirata da fini ascetici (quale esercizio di umiltà e di mortificazione), ma inerente alla natura stessa del sacramento” (RP, 31,II).
6. Giovanni Paolo II dice ancora: “Si comprende, perciò, come fin dai primi tempi cristiani, in collegamento con gli apostoli e con Cristo, la Chiesa abbia incluso nel segno sacramentale della penitenza l’accusa dei peccati.
Questa appare così rilevante, che da secoli il nome usuale del sacramento è stato ed è tuttora quello di confessione.
Accusare i propri peccati è, anzitutto, richiesto dalla necessità che il peccatore sia conosciuto da colui che nel sacramento esercita il ruolo di giudice, il quale deve valutare sia la gravità dei peccati, sia il pentimento del penitente, e insieme il ruolo di medico, il quale deve conoscere lo stato dell’infermo per curarlo e guarirlo” (RP, 31, III).
7. Il Catechismo della Chiesa Cattolica ribadisce questa dottrina già insegnata dal concilio di Trento: “È necessario che i penitenti enumerino nella confessione tutti i peccati mortali, di cui hanno consapevolezza dopo un diligente esame di coscienza, anche se si tratta dei peccati più nascosti e commessi soltanto contro i due ultimi comandamenti del Decalogo, perché spesso feriscono più gravemente l’anima e si rivelano più pericolosi di quelli chiaramente commessi.
I cristiani che si sforzano di confessare tutti i peccati che vengono loro in mente, senza dubbio li mettono tutti davanti alla divina misericordia perché li perdoni.
Quelli, invece, che fanno diversamente e tacciono consapevolmente qualche peccato, è come se non sottoponessero nulla alla divina bontà perché sia perdonato per mezzo del sacerdote. «Se infatti l’ammalato si vergognasse di mostrare al medico la ferita, il medico non può curare quello che non conosce» (DS 1680)” (CCC 1456).
Mentre ti ringrazio di aver riportato l’attenzione su questo argomento, ti benedico e ti ricordo nella preghiera.
Padre Angelo