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Carissimo Padre Angelo,
le volevo chiedere quale sia, nel caso di malattia grave, il comportamento da tenere rispetto alle cure proposte dai medici.
Bisogna sempre accettarle, con "fede" nella scienza, pena il rischio di macchiarsi di "suicidio" e quindi perdere anche la vita eterna, oltre a quella terrena?
Provo a spiegarmi meglio, qualche anno mio padre si è ammalato di tumore (polmoni, mai fumata una sigaretta).
I medici, con il solito ampio ricorso ai condizionali (forse, potrebbe, da … a…), da un lato hanno indicato una aspettativa di vita residua breve (6 mesi – 2 anni), dall’altro hanno raccomandato le cosiddette "terapie", come chemio.
Le dico di più, alcuni si sono spinti a considerare totalmente irragionevoli i nostri dubbi in merito, chiamando in modo poco velato "suicidio" questo atteggiamento.
Alla fine mio padre si è sottoposto alla chemio, finendo in breve tempo su una sedia a rotelle, praticamente incapace di gestirsi da solo, a causa degli effetti "collaterali" del cisplatino che gli hanno devastato il sistema nervoso (pare sia infatti un potente neuro-tossico).
A me, da profano ovviamente, quegli effetti collaterali sembrano proprio quelli primari e francamente mi sembra una follia farsi iniettare veleni.
Ma per i dottori, questa è una terapia.
L’ho visto andarsene alle 3 di notte, sedato, con i polmoni pieni d’acqua, praticamente soffocando.
Non mi fraintenda, non sto incolpando i medici, ma mi chiedo: era proprio necessario fare la chemio (e quindi affrontare le sue conseguenze)?
Adesso che tocca ad un parente prossimo, con una malattia analoga ed una aspettativa di vita simile, siamo di nuovo di fronte alle terribili scelte del caso.
Bisogna proprio sottoporsi all’intervento chirurgico, invalidante in modo paradossale e grottesco?
Oppure si può esigere dai medici un trattamento meno invasivo?
E la chemio, tutti quei veleni, che la liberatoria che ti fanno firmare chiama effetti "collaterali", devono proprio devastare quel che rimane del proprio corpo?
Che limite e quali criteri sono applicabili in questi casi, per non rischiare la vita eterna ?
La prego di capirmi, non siamo medici in famiglia, e i medici anche cattolici che abbiamo contattato sembrano imbarazzati quanto noi di fronte a queste domande.
La ringrazio,
Marcello


Risposta del sacerdote

Caro Marcello,
1. Dio ci ha dato un corpo che in seguito al peccato originale è sottoposto a infermità e a malattie varie.
Il ricupero della salute è un dovere per tutti perché proprio se siamo in salute possiamo provvedere senza particolare oneri alle nostre e alle altrui necessità.

2. Da sempre i moralisti cattolici hanno compiuto una distinzione tra mezzi ordinari e mezzi straordinari, affermando che è doveroso l’impiego dei primi, mentre non si è tenuti a ricorrere ai secondi.
In passato erano considerati mezzi ordinari quelli che non comportavano un particolare aggravio: come l’uso ragionevole del cibo, delle bevande, delle medicine e delle cure mediche.
Mezzi straordinari erano ritenuti quelli che comportavano un’eccessiva difficoltà in ordine a dolore fisico, a ripugnanza, costi…
Ad esempio era considerato mezzo straordinario l’amputazione di un arto a motivo del forte dolore e della menomazione. Ma oggi la somministrazione degli anestetici che praticamente coprono ogni dolore, il progresso della tecnica chirurgica e l’applicazione di arti artificiali, permettono di diminuire i pesanti postumi di una mutilazione chirurgica.
Per questo i moralisti e anche il Magistero preferiscono usare un altro linguaggio, e parlano di mezzi proporzionati e sproporzionati (cfr. EV 65), evidentemente in relazione ai costi, ai benefici, alle speranze di successo.

3. Ecco dunque che  cosa dice il Magistero: “Si dà certamente l’obbligo morale di curarsi e di farsi curare, ma tale obbligo deve misurarsi con le situazioni concrete; occorre cioè valutare se i mezzi terapeutici a disposizione siano oggettivamente proporzionati rispetto alle prospettive di miglioramento. La rinuncia a mezzi straordinari o sproporzionati non equivale al suicidio o all’eutanasia; esprime piuttosto l’accettazione della condizione umana di fronte alla morte” (Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, 65).

4. Concretamente ci si deve attenere ai seguenti principi:
1. “È lecito interrompere l’applicazione di tali mezzi quando i risultati deludono le speranze riposte in essi” (congregazione per la dottrina della fede, Dichiarazione sull’eutanasia, par. IV). È infatti sempre valido il principio morale secondo cui “nemo ad inutile tenetur” (nessuno è obbligato a fare ciò che è inutile).
2. “È sempre lecito accontentarsi dei mezzi normali che la medicina può offrire” (Ib.).
Anzi l’uso dei mezzi normali è doveroso.
3. “Nell’imminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi usati, è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi” (Ib.).
Ciò significa che non vi è il dovere di usare quei mezzi che prolungherebbero la vita così brevemente da poter essere considerati moralmente come un nulla. Qui si può applicare quell’altro principio morale: “parum pro nihilo reputatur” (il poco viene contato come il niente).
4. “Non si può imporre a nessuno l’obbligo di ricorrere a un tipo di cura, per quanto già in uso, che tuttavia non è ancora esente da pericoli o è troppo oneroso.
Il suo rifiuto non equivale al suicidio. Significa piuttosto semplice accettazione della condizione umana, o desiderio di evitare la messa all’opera di un dispositivo medico sproporzionato ai risultati che si potrebbero sperare, o volontà di non imporre oneri troppo gravi alla famiglia e alla collettività” (Ib.).

5. Come vedi, i principi del Magistero sono chiari.
Le difficoltà sopraggiungono quando si applicano terapie di cui non è sicura la reazione provocata nel paziente.
Questa sicurezza i medici non ce l’hanno e non possiamo pretendere che l’abbiano perché le reazioni spesso variano da paziente a paziente.
A posteriori è facile dire: sarebbe stato meglio non iniziare quel percorso perché è stato devastante.
Ma quando si decide di iniziarlo tutti sono pieni di speranza che non capiti la reazione peggiore.

6. Tuttavia è legittimo l’atteggiamento di chi decide di non avvalersi di terapie che possono comportare rischi gravi e onerosi.
Come dice la Congregazione per la dottrina della fede “il suo rifiuto non equivale al suicidio.
Significa piuttosto semplice accettazione della condizione umana, o desiderio di evitare la messa all’opera di un dispositivo medico sproporzionato ai risultati che si potrebbero sperare, o volontà di non imporre oneri troppo gravi alla famiglia e alla collettività” ( Dichiarazione sull’eutanasia, par. IV).

Ti saluto, ti ricordo al Signore e ti benedico.
Padre Angelo