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Quesito
Gentile padre Angelo,
sono un ragazzo di 21 anni, suo assiduo lettore, e la ringrazio per il prezioso servizio che svolge, molto d’aiuto per me a sciogliere anche dubbi che mai m’ero posto.
Le scrivo in merito alla nuova traduzione della preghiera del Signore, il Padre Nostro, operata nella nuova versione della Bibbia dalla CEI. Nel Vangelo infatti è riportato un cambiamento rilevante, "non ci abbandonare alla tentazione", al posto di "non ci indurre in tentazione". Vorrei chiederle le ragioni filologiche di questo cambiamento, e se comporta conseguenze dogmatiche. Le confesso che ho trovato più di qualche fedele e anche qualche presbitero che si trovavano in difficoltà nel fatto che Dio potesse "indurci in tentazione" e sosteneva che quel passo fosse un retaggio del passato. Cosa significa questa parte in latino "et ne nos inducas in tentationem", dato che porta a due traduzioni apparentemente così diverse? Ora che la traduzione è cambiata, anche noi fedeli siamo chiamati ad adeguarci a questa disposizione?
Le domando poi un giudizio in merito alla recita in chiesa del Padre Nostro, su come disporci alla preghiera: molti presbiteri invitano tutti i fedeli a stringersi la mano, mentre a me personalmente hanno insegnato a pregare a mani aperte.
Ho assistito ad una messa, e mi è stato confermato dalla testimonianza di amici, in cui il Padre Nostro è stato cantato con la melodia di "The sound of silence", nota canzone degli anni ‘‘60: ora, la Chiesa è ricca di canti e melodie, tradizionali, ma anche nuovi, nati nei nuovi movimenti e comunità: ritiene liturgicamente corretto attingere a canzoni che di cristiano hanno poco, oppure si tratta di una scelta discrezionale del sacerdote che presiede?
La ringrazio molto per la disponibilità.
Preghi per me peccatore!
Risposta del sacerdote
Carissimo,
1. il testo latino della preghiera del Pater recita da sempre: “Et ne nos induca in tentationem” (Mt 6,13).
In greco c’è l’espresssione “eisenènkes” che significa “introdurre, condurre dentro, lasciar cader in”.
In italiano finora è stato da sempre tradotto “non ci indurre in tentazione”,
La versione nuova dice: “Non abbandonarci alla tentazione”.
2. Certamente l’espressione di sempre poteva lasciar intendere che Dio tentasse le persone.
Ma questo non può essere perché Dio non tenta nessuno. L’ha detto lui stesso per bocca di Giacomo: “Nessuno, quando è tentato, dica: «Sono tentato da Dio»; perché Dio non può essere tentato al male ed egli non tenta nessuno” (Gc 1,12).
San Paolo fa capire che la tentazione non viene da Dio. Dio la permette, ma nello stesso tempo dà sempre la forza per superarla: “Dio infatti è degno di fede e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze ma, insieme con la tentazione, vi darà anche il modo di uscirne per poterla sostenere” (1 Cor 10,13).
3. La Bibbia di Gerusalemme, che viene chiamata così perché le introduzioni e le note sono curate dai domenicani delle celebre Ècole bilique” fondata in quella città dal p. M. J. Lagrange, osserva: “Il senso permissivo del verbo aramaico usato da Gesù, “lascia entrare” e non “fare entrare” non è reso dal greco e dalla volgata”.
Come vedi, nell’interpretazione di questo versetto si è voluto andare addirittura al linguaggio usato da Gesù: l’aramaico.
D’altra parte sappiamo che Matteo prima scrisse un Vangelo in aramaico, che è andato perso, poi ne ha scritto uno in greco.
In aramaico dunque quell’espressione ha un significato permissivo.
Come nota la Bibbia di Gerusalemme questo significato permissivo non appare nel testo greco e neanche in quello latino della Volgata dove sembra avere un significato attivo.
4. La Bibbia di Gerusalemme scrive ancora: “Domandiamo a Dio di liberarci dal tentatore e lo preghiamo di non entrare in tentazione, e cioè nell’apostasia”.
E fa riferimento a Mt 26,41 quando Gesù dice agli Apostoli nell’orto degli olivi “Vegliate e pregare per non entrare in tentazione”.
Qui la tentazione è consistita nell’abbandono (apostasia) del Signore: “allora tutti i discepoli lo abbandonarono e fuggirono” (Mt 26,56).
5. Per cui il non indurci in tentazione sta per “non lasciarci cadere in tentazione”. O, come scrive la tradizione della Cei: “non abbandonarci alla tentazione”.
A mio modestissimo parere, “non lasciarci cadere in tentazione” sarebbe stato meglio che il “non abbandonarci” perché ricorda che senza il aiuto di Dio non possiamo superare le prove.
6. Sant’Agostino commenta: “Senza tentazione nessuno può essere provato né di fronte a se stesso né di fronte agli altri; davanti a Dio invece ognuno è conosciutissimo prima di ogni tentazione.
Quindi non si prega per non essere tentati, ma perché non siamo indotti in tentazione (cioè di non cadervi): così quando uno deve essere esaminato nel fuoco, non prega perché non ci sia il fuoco, ma perché non sia bruciato” (De Sermone Dom. 2,9).
E ancora: “Quando dunque diciamo “non ci indurre in tentazione” siamo avvisati di chiedere che non veniamo privati del suo aiuto e acconsentiamo ingannati a qualche tentazione o cediamo” (Lettera Proba, L. 130,11).
7. San Tommaso: “Forse Dio induce al male dal momento che ci fa dire: “non ci indurre in tentazione”?
Rispondo che si dice che Dio induce al male nel senso che lo permette, in quanto, cioè, sottrae all’uomo – a causa dei suoi molti peccati precedenti – la sua grazia, tolta la quale, egli scivola nel peccato. Per questo noi diciamo col salmista “Non abbandonarmi quando declinano le mie forze” (Sal 70,9).
Dio però sostiene l’uomo, perché non cada in tentazione, mediante il fervore della carità che, per quanto sia poca, è sufficiente a preservarci da qualsiasi peccato. Infatti che “le grandi acque non possono spegnere l’amore” (Ct 8,7)” (Commento al Pater).
8. Circa le ultime due questioni di dettaglio: se sia previsto recitare il Pater stringendosi la mano: nella celebrazione liturgica non è previsto. Fuori della celebrazione liturgica si può fare.
Non saprei invece se questa melodia sia prevista nel repertorio dei canti sacri.
Ti auguro ogni bene in questo tempo di Pasqua, ti ricordo al Signore e ti benedico.
Padre Angelo