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Quesito
Buongiorno Padre Angelo,
Mi scuso in anticipo per la lunghezza di questa lettera e comprenderei qualora decidesse di non leggerla. A scriverle è un ragazzo di venticinque anni che di teologia sa davvero poco.
Le scrivo con il cuore in mano, in un momento della mia vita nel quale sto attraversando una profonda crisi in materia di fede e una parte di me non intende lasciare nulla di intentato. La mia fede è stata il dono più grande che abbia mai ricevuto in questi miei venticinque anni di vita.
Caro padre, in Italia si nasce cattolici, forse per abitudine, forse per tradizione, forse per privilegio. Tutti facciamo i sacramenti da piccoli, ma pochi decidono di vivere pienamente la propria fede. Per questo, reputo la fede un dono e al contempo una scelta: in tanti sono chiamati, in pochi rispondono.
Io quella chiamata la ricevetti giovanissimo, a 13 anni. Iniziai a sentire un divario, una separazione fra me e tanti dei miei coetanei che lentamente abbandonavano la Chiesa. In quel momento, ora forse sorriderà pensando a quanto io fossi giovane per fare una riflessione simile, sentii come se stessi ricevendo una domanda da parte di Dio, come se mi stesse chiamando a decidere tra lui e il mondo.
Mi recai alla ricerca di un sacerdote per confessarmi, nel giorno stabilito nella mia parrocchia. Il primo sabato, non lo trovai. Avevo camminato a piedi, sotto al sole: niente. Il secondo sabato lo cercai, ma lo vidi uscire dalla chiesa prima del tempo: niente. Fu il terzo sabato il giorno del successo e così quella scelta ebbe luogo il 22 giugno del 2013, data che conservo e custodisco nella mia memoria. Quando uscii, percepii una gioia enorme, una serenità d’animo autentica, una pace del cuore indescrivibile. Ricordo quella data come il giorno in cui mi convertii al cristianesimo, per quanto già fossi credente, perché quel giorno decisi io stesso di essere cristiano, non la mia famiglia.
Da allora, il mio cammino non fu esattamente semplice. Vivere una fede autentica è un dono maestoso, ma al contempo comporta riflessioni continue. Vivere la fede è un percorso, un cammino, che talvolta si percorre a cavallo e talvolta con una o più croci da portare. Di croci ne ebbi, padre Angelo, da quel giorno più di prima.
In parte perché stavo diventando grande, in parte per la scelta stessa di essere cristiano, che porta con sé una moralità marcata, il richiamo continuo all’altruismo, il dono di sé nell’imitazione di Cristo e tanto altro che ora ometto ma che lei come sacerdote ha conosciuto ben più di me. Forte di quella fede, pensai addirittura al sacerdozio, a diventare un frate per la precisione, ma sentivo la mancanza di qualcosa, un ultimo gradino mancante, come se quella non fosse la mia strada. In altre parole, mi mancava la vocazione, sentimento che lei ha sicuramente conosciuto e io purtroppo no. In quegli anni, mi sentivo chiamato ad altro, a vivere la vita familiare, a intraprendere quel percorso che mi avrebbe portato a diventare un giorno un marito e un padre. Si tratta di una chiamata forse più umile, a tratti banale per quanto essa sia pratica comune, ma io mi sentivo chiamato cristianamente ad essa e pregavo per adempierla.
Qui iniziò a rafforzarsi il mio legame con la preghiera del rosario, che recitavo e recito ogni anno nel mese di maggio, chiedendo che io potessi rispondere a quella mia chiamata, che non definisco vocazione in questa lettera per mero rispetto nei confronti di quella che ricevono i religiosi, ma le posso garantire che di questo si tratta. Così trascorsi la mia vita, ignorando le occasioni che avrei potuto avere per vivere storie frivole e cercando la mia futura compagna di vita. Ancora non la conoscevo, ma facevo di tutto per prepararmi. Come uomo di fede, come volontario nella società, come lavoratore in quanto dopo il liceo ho conseguito due lauree in ingegneria (non senza tribolazioni, io ero appassionato di letteratura, filosofia e storia, ma per fini lavorativi seguii l’altro mio interesse, seppur minore, per l’ingegneria). Ed ecco dunque che, in nome di quella vocazione, ho fatto molte rinunce, ho intrapreso strade finalizzate a essa, fidandomi ciecamente di Dio.
In quel travagliato percorso, ogni storia d’amore che ho intrapreso ha purtroppo avuto esiti nefasti. Sono stato spesso messo da parte, addirittura tradito e persino rinnegato. Ogni volta accusavo il colpo, mi affidavo a Dio e pregavo, ma nulla poteva salvarmi. Ogni volta un calvario peggiore, durante il quale la mia esistenza non cessava parallelamente di darmi tregua. Salute, familiari, affetti, tutto mi è stato portato via. Ho sofferto di problemi respiratori, rischiando di perdere la vita quando mi ammalai di COVID il giorno del mio compleanno.
Ho dovuto assistere alla separazione dei miei genitori, alla morte di mio nonno che era per me divenuto un secondo padre (come dico io da allora in perifrasi, “non credevo fosse possibile, ma ho perso mio padre due volte”). Pregavo chiedendo aiuto: nessuna tregua. Questo forse è il momento peggiore per un cristiano, smettere di sentire la presenza di Dio nella propria vita. Perché Dio non previene i mali del mondo, non sempre almeno, ma esiste un conforto cristiano che accompagna l’uomo anche nelle valli più buie. Penso sia il conforto che sosteneva i martiri, che dava forza agli apostoli durante le persecuzioni. Quel conforto è ciò che vivifica la fede anche lungo i sentieri più bui. Non coincide necessariamente con l’allontanamento del dolore, ma si manifesta spesso come una forza vivificante in contrasto con il male che si sta attraversando, una speranza lontana eppure così autentica da poter confortare anche nel pianto. Ci fu un momento in cui la mia fede stava per crollare, un paio di anni fa. Non so cosa mi indusse a farlo, ma cercai una copia delle Confessioni di Sant’Agostino e iniziai a leggerla. Ho sempre avuto la sensazione che non si sia trattato di un caso: lessi Sant’Agostino in quel momento, non prima e non dopo, perché io intendessi quanto da lui attraversato.
In un momento di grande tribolazione, Dio non mi aveva dato ristoro, ponendo sulla mia strada le memorie (anche se dir memorie è riduttivo, le Confessioni sono più di questo) di un santo. Così, proprio Sant’Agostino salvò la mia fede, rinnovandola di forza, sapienza e riconducendomi verso la ricerca della verità. Agostino fu per me un fratello, la guida di cui avevo bisogno in un momento di grande fragilità, a secoli di distanza dalla sua vita aveva salvato un altro fedele. Da allora, in ogni tribolazione, mi rivolgo a lui oltre che alla Vergine. Lessi anche altre sue opere e tuttora ne leggo.
La tempesta di vita che avevo attraversato riprese ad abbattersi su di me, ma forte delle parole di Agostino ricordavo la mia chiamata, seppur diversa dalla sua e le sue parole “Deus non deserit si non deseratur“. Così io, che pur mi sentivo in qualche modo abbandonato da Dio, mi feci forza. Andai avanti con la mia vita, senza smettere di cercarlo, di chiamarlo. In ogni tribolazione, in ogni fragilità.
L’ultimo anno è stato probabilmente il peggiore della mia vita. Sono stato lasciato dalla mia migliore amica, con la quale dopo anni e anni di amicizia avevo appena intrapreso una relazione. Da quel giorno continuo a pregare per lei, ma non c’è più nulla che io possa fare per ricostruire quel legame. Perdendo lei, ho perso tutto. Ho perso l’unico e grande dono (a parte la mia fede) che abbia mai ricevuto. Quando mi guardo attorno, vedo la mia famiglia frammentata e un padre distante ormai malato. Vedo quei pochi amici rimasti che gradualmente sto perdendo e che ora non sono nemmeno più in grado di aiutare.
Vedo un lavoro faticosissimo come ingegnere in una ceramica, che svolgo per circa cinquanta ore la settimana. Avevo persino fatto domanda per andare a fare ricerca sul cancro nel dipartimento per cui avevo svolto il tirocinio (nemmeno retribuito), ma purtroppo per carenza di fondi non è andata a buon fine. Volevo dare un senso a tutto questo. Quando prego, non riesco a vedere quella luce che vedevo un tempo, non riesco più ad affidarmi a Dio. L’ho fatto per anni e purtroppo non è giunto in mio soccorso, nemmeno consolando il mio cuore affranto e straziato.
Cumulativamente, se ripenso alla mia esistenza, vedo sì e no un mese di gioia, a fronte di così tanti anni di sacrifici e fede continua. Me ne vergogno, padre Angelo, ma quando prego mi sento ormai vuoto, guardo la croce pensando che la mia preghiera non verrà esaudita e che nemmeno riceverò conforto, perché purtroppo così finora è stato, escluse certe parentesi talmente brevi da costituire più un’eccezione che la regola.
Se solo Dio mi permettesse di dare un senso al mio calvario, se solo esaudisse la mia preghiera, se solo prestasse ascolto al mio dolore forse riuscirei a salvare tutto questo. Eppure so che, davanti alla sua volontà, la mia non ha valore alcuno. Non riesco più ad accettare che questa valle di lacrime sia stata scelta per me. Un vero cristiano dovrebbe saper portare la propria croce eppure io, oppresso dal peso della mia, non riesco più ad andare avanti. Mi sento persino in colpa a pregare, quasi come se fossi un fariseo, un “sepolcro imbiancato”, ma non smetto.
Recito ogni giorno il rosario (o cinque decine con le litanie, spesso lo recito guidando e ahimè non ho sotto le meditazioni e i misteri per la mora cogitationis), chiedendo se possibile il ritorno della mia ragazza nella mia vita e mi sento in colpa persino per questo. Proprio quel senso di colpa, quella percezione di vuoto, non se ne va. Se ripenso al mio percorso di vita, alle mille rinunce fatte rivolgendo gli occhi al cielo e affidandomi esclusivamente a Lui, non sono più in grado di conciliare il dolore che provo con la sua immagine di assoluto bene.
Così la mia fede vacilla, in preda alle onde di una tempesta dalla quale cerco riparo, senza trovarlo, senza che mi venga concesso. Se solo ricevessi quel conforto cristiano di cui parlavo, in questo percorso volto all’adempimento di quella chiamata, tutto sarebbe diverso. Eppure non giunge. I santi sono stati in grado di sostenere vite ben peggiori della mia, costituendo persino un esempio per gli altri. Io non sono nemmeno in grado di raccogliere i cocci della mia fede.
Vacillo, padre Angelo, ma non mollo. Questa stessa lettera è un tentativo di rivolgermi a lei, che stimo pur non conoscendola di persona, in virtù delle sue pubbliche risposte e riflessioni che ho letto, nella speranza di un aiuto, un consiglio o solamente una parola di conforto.
Lascio a lei la decisione di pubblicare oppure no questa mia lettera. Non vorrei che un racconto come il mio possa minare la fede di qualcuno.
Lei chiude le sue lettere benedicendo il destinatario. Io non posso fare altrettanto, ma prego per lei, affinché svolga il suo magistero con fede incrollabile, come Sant’Agostino svolse il suo, guidando i fedeli alla ricerca della Verità, tanto cara a me e a lui.
In fede, in quella fede che spero presto di ritrovare,
Emanuele
Risposta del sacerdote
Caro Emanuele,
1. la tua mail l’ho letta, sebbene lunga, perché l’hai scritta davvero con il cuore in mano. Lo si sente, lo si percepisce da ogni riga.
In alcune tue esperienze mi sono ritrovato. La gioia che tu hai provato quando sei riuscito a confessarti è la gioia che ha provato anch’io quando ho vinto ogni dubbio sulla mia vocazione e ho risposto al Signore dicendo: “Ecco, vengo io”.
2. La mia è una gioia che perdura e talvolta esplode dalla contentezza, soprattutto quando mi trovo dinanzi a conversioni. È una gioia che dà slancio.
Anche la gioia della tua conversione perdura. Sono certo che si ravviva ogni volta che col pensiero torni a quanto hai provato in quel famoso mattino dopo la confessione.
La gioia incontenibile che hai provato quella volta ti ha sostenuto in tante prove, ben dolorose, della tua vita.
3. Adesso sei nella sofferenza perché la ragazza alla quale hai dedicato il tuo affetto e le tue speranze se n’è andata.
Capisco il senso di vuoto, di disorientamento.
Mi vengono in mente provvidenzialmente le parole di Sant’Agostino, il tuo santo preferito, quando prima della conversione cercava soddisfazione in questo o in quello. E puntualmente rimaneva deluso.
Gli pareva che tutte le cose incessantemente gli ripetessero: “Non siamo noi il tuo Dio, cerca più in alto”.
4. Anche la ragazza nella quale hai tanto confidato e nella quale confidi ancora non è il tuo Dio.
Forse ti sei attaccato a lei quasi fosse il tuo Dio. In ogni caso il Signore ora ti dice che non lo e non lo può essere, e che devi cercare più in alto.
Proprio nell’omelia di domenica scorsa (31ª domenica del tempo ordinario) ho detto che cosa significhi amare Dio in maniera vera.
Partendo dall’espressione: “Amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” mi sono chiesto se veramente amiamo il Signore così.
Forse con tutta l’anima, con tutte le nostre forze e con tutta la nostra mente amiamo i doni di Dio e cioè la sua benedizione, il suo aiuto, le sue grazie, il suo paradiso. È giusto che lo amiamo anche in questo modo. Ma se lo amiamo solo così, dobbiamo essere sinceri: amiamo ancora con tutto il cuore soltanto noi stessi, ma non il Signore.
5. Quando amiamo Dio in maniera vera?
Sono partito dall’esperienza dell’innamoramento, come avviene ad esempio nel fidanzamento. Quando si ama intensamente una persona, non ci si limita ad amarla in maniera generica, ma si ama anche con tutto il cuore la sua volontà. Anzi questa volontà si cerca di conoscerla e di soddisfarla perché la persona che amiamo sia contenta.
Chissà quante volte anche tu avrai cercato di soddisfare la volontà della ragazza che amavi, disposto anche a rinunciare alla tua.
L’amore porta a questi vertici di donazione. Ed è indubbiamente amore vero.
6. Una cosa analoga siamo chiamati a fare anche con Dio.
Amiamo i doni di Dio, e va bene. Anzi, va benissimo.
Ma amiamo la sua volontà? Siamo desiderosi di farlo contento?
Gesù nel sommo del dolore e della solitudine ha detto: “Padre, non si è fatta la mia, ma la tua volontà” (Lc 22,42).
7. Venendo a te, capisco l’affezionamento a quella ragazza.
È giusto che tu chieda al Signore la grazia di farla tornare indietro. Ti sei preparato a ricevere quella ragazza domandandola con il Santo Rosario recitato ogni anno nel mese di maggio.
Perché non impegnarti a recitarlo sempre?
Forse il Signore vuole questo perché la casa che intendi costruire con quella ragazza poggi saldamente sul fondamento di questa preghiera che rende presente Gesù Cristo con la sua onnipotenza salvatrice.
Anziché vacillare, la tua fede in questo momento deve diventare più forte.
Gesù, nell’orto degli ulivi quando l’angoscia cresceva, “entrato nella lotta, pregava più intensamente” (Lc 22,44).
8. Ti consiglio di fare così: quando prendi in mano la corona e inizi la recita del Rosario, facendo con grande fiducia il segno della croce sul tuo corpo con il piccolo crocifisso.
Costantino, la sera precedente alla battaglia di ponte Milvio, vide nel cielo una croce luminosa accompagnata da una scritta: in hoc signo vinces (con questo segno vincerai).
Ha voluto poi che su un labaro venisse dipinta la croce con quelle parole.
Era il segno che gli aveva dato Dio e che gli infondeva la fiducia nella vittoria.
Fai anche tu la stessa cosa.
Quando cominci il Rosario tracciando il segno della croce è come se venisse rinnovata per te quella bella promessa: in hoc signo vinces (con questo segno vincerai).
9. Pertanto con il Rosario in mano vai avanti fiducioso.
Sono certo che se quella ragazza non torna indietro, il Signore ti ispirerà la fiducia e anche la contentezza che certamente è meglio così.
Ricorderai le parole scritte dal Manzoni ne I promessi sposi: “Dio non turba mai la gioia dei suoi figli, se non per darne loro una più certa e più grande” (cap. 8).
Sì, è certo, anzi certissimo, che sarà così perché Dio ti ama infinitamente e perdutamente. Nelle prove ci prepara a ricevere beni più grandi.
Ti benedico e il prossimo Rosario lo dirò per te perché il Signore accresca la tua fiducia in questa potentissima preghiera che rende Gesù Cristo presente e operante nella nostra vita con la sua onnipotenza salvatrice.
Padre Angelo