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Quesito
Caro Padre Angelo
Le scrivo oggi parole velate di lacrime che gli occhi sono stanchi di lasciar cadere.
Dicono che piangere faccia bene, che aiuti meglio a vedere, che impedisca di fare la fine dei pesci a cui una volta fuori dall’acqua si seccano gli occhi e diventano ciechi.
Non so se sia vero, a volte mi sembra sia semplicemente un modo per cacciare fuori il dolore, per impedire che ti marcisca dentro.
Non è un periodo facile, prima la malattia e la morte di mio suocero, poi la diagnosi di alzheimer di mia madre, per ovvi motivi, per me un colpo ancora più duro da incassare, specie vivendo lontana quel tanto che basta perché ogni giorno i doveri di madre e quelli di figlia si tramutino entrambi in sensi di colpa.
Le sarà capitato sicuramente di aver a che fare con persone che, direttamente o meno, sono colpite da questa malattia, e conoscerà bene tutti i terribili risvolti che essa comporta sotto vari punti di vista.
E’ una lotta continua con l’assurdo. Un raggiungere picchi di dolore che fino a prima manco pensavi possibili.
Non essere riconosciuti da tua moglie o tuo marito, ad esempio, è un’esperienza difficilmente descrivibile a parole.
Per i figli, forse, è anche peggio. Sempre che ci sia un meglio e un peggio nel dolore.
Mentre ripeti incredulo il tuo nome è come avere due mani intorno al collo che impediscono alla voce di uscire e la ricacciano indietro. La senti che ti vibra dentro, la voce; che si espande come i cerchi di un sasso gettato nell’acqua, che percorre ogni vertebra della tua schiena, sgranando gli istanti del tempo, uno a uno, da quando sei nato fino al presente.
È come sentirsi morire. Di più. E’ come non essere mai nati, mi vien da dire.
Come vagare smarriti fra gli specchi e ogni volta che ti giri trovare un’immagine di te che non riconosci.
Prima della diagnosi c’era ancora posto per la speranza. C’era posto per la preghiera di una guarigione che riportasse le cose al loro posto. Non che i segni non ci fossero già prima ovviamente, ma c’era ancora la libertà di interpretarli in molteplici modi. Come fossero pezzi di un puzzle che non era detto si dovessero per forza incastrare a formare quel disegno lì.
Poi è bastato un nome per fermare il tempo. Per sentire quel crepitio sottile che fa il vetro prima di spaccarsi in mille pezzi.
Adesso non prego più per una guarigione. Non ci riesco. E c’è una parte di me che si vergogna anche solo a pensarla questa cosa qui. Mi sembra a volte di essere un mostro. Come è possibile non volere la guarigione di tua madre?
Eppure un’altra parte di me lo sente che va bene così, lo sente fuori dalle misere logiche della mente, in un posto imprecisato fra la pelle e il cuore, in quel posto dove la Vita se ne fotte (scusi) del senso che diamo alle cose, quando crediamo che esistano solo in virtù del fatto che le nominiamo.
Non voglio dire che adesso non ci sia più la speranza, ma è una speranza diversa. Una speranza che ha alzato il tiro, diciamo. È forse la preghiera di una guarigione più alta. La preghiera di avere la forza di vivere anche così. Non sopravvivere dico, proprio Vivere in pienezza anche in mezzo all’assurdo.
Perché una cosa mi par di aver capito, anche se siamo solo all’inizio del cammino, che per avere luce, a un certo punto, bisogna farsi crepa, spaccarsi, sminuzzarsi l’anima.
Questa è la grazia che chiedo a Dio adesso.
Ma è così difficile padre Angelo. È così difficile per me avere una fede così, affidarsi alla Sua volontà senza che la ragione si incancrenisca nel tentativo di una comprensione che non può sussistere.
È talmente ovvio da essere quasi banale, come può la ragione com-prendere Dio? Quanto breve è il passo fra questo volere e quello di voler sostituirci a Lui? E non è forse questo il peggiore dei peccati?
Eppure ci casco ogni volta. Poi mi mento. Poi ci ricasco. E torno a girare in tondo nei cunicoli bui della filosofia, fino a quando non mi gira la testa e mi viene da urlare al mondo “ma non lo vedete? Non lo vedete che il vangelo è prima di tutto una metafisica e non un’etica?
Presunzione della ragione che pensa di poter tenere le due cose separate. Mi pare che solo la fede possa liberarmi da questa schiavitù, dare quella Luce in grado di trasformare il dovere in volere. Aprire uno spazio dove è possibile vivere anche in mezzo all’assurdo, dove è possibile la gioia anche nel dolore.
Ma quanta forza ci vuole, padre Angelo?
Come si fa? Come si fa ad avere una fede così?
Paola
Risposta del sacerdote
Cara Paola,
1. il cammino che hai iniziato a fare è quella della nuda fede.
La guarigione umanamente è impossibile.
Ma Dio ti è vicino.
Hai sentito nel Vangelo di domenica scorsa le parole che Marta ha detto a Maria: "Il Maestro è qui e ti chiama" (Gv 11,28).
Sta chiamando anche te.
Ti chiama in ogni momento.
Non è lontano da te.
"È qui".
2. Lo senti che ti chiama.
Lo senti dal fondo del cuore.
Ti chiama ad avvicinarti a Lui attraverso tua madre.
3. È a Lui che ti accosti ogni volta che ti avvicini a tua madre e ti dice: "Grazie. L’hai fatto a me" (cf. Mt 25,40).
È ti abbraccia.
4. Come vorrei che con gli occhi della fede tu vedessi e sentissi quell’abbraccio.
Te lo dà ogni volta.
5. Come vedi, il Vangelo non è né una metafisica né un’etica.
È Lui, Gesù. Il tuo Salvatore.
È Colui che attraverso quello che fai a tua madre ti introduce sempre più dentro il suo cuore.
6. Per te comincia la settimana santa della tua vita.
Forse la più meritoria e la più feconda.
Ti sono vicino con la preghiera e ti benedico.
Padre Angelo