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Quesito

Gentili padri
mi chiamo Jonathan, ho 24 anni, scrivo dalla Toscana e volevo chiedervi un’informazione: in alcune biografie di santi e in alcune riviste cattoliche ho letto di una compagnia MILITIA IESU CHRISTI, nata all’inizio per difendere i conventi domenicani e poi successivamente trasformata in associazione mariana laica per la difesa della fede cattolica.
Ho provato fin da subito vivo interesse e desideravo conoscere un po’ la storia di questa “compagnia”, ho provato a chiedere ad alcuni amici domenicani del convento di San Marco e Santa Maria Novella di Firenze ma non la conoscevano, ho chiesto anche ad altre suore, ma anche loro non sapevano nulla.
Per caso voi mi sapete dire qualcosa? se ancora esiste e se in Toscana ci sono appartenenti ad essa? O a chi posso rivolgermi???
Vi ringrazio moltissimo. E come dicono i vostri “cugini”:
Pace e bene
Jonathan


Risposta del sacerdote

Caro Jonathan,
1. mi sembra strano che i frati di san Marco e di santa Maria Novella non abbiano mai sentito parlare della Milizia di Gesù Cristo.
Questa Milizia è la prima forma di quello che poi venne chiamato il Terz’Ordine della Penitenza di san Domenico, o anche semplicemente Terz’Ordine domenicano. Oggi si parla di Laicato domenicano.
Il webamster del nostro sito è un terziario domenicano, che ha fatto la sua professione perpetua il 1 dicembre 2007 nella fraternita laicale domenicana di Alessandria.
I beati Pier Giorgio Frassati e Bartolo Longo sono due terziari del XX secolo: Potremmo definirli successori dei fratelli della Milizia di Gesù Cristo.

2. Ti riporto la storia di questa Milizia di Gesù Cristo tratta da volume di R. SPIAZZI, San Domenico di Guzman, Edizioni Studio Domenicano 1999:
La chiamata dei laici
“Stando agli storici e biografi più sicuri, una certa Milizia di Cristo venne promossa e riunita da Domenico al tempo della sua missione in Lombardia,infestata dagli eretici. Il primo a parlarne è il beato Raimondo da Capua, il quale, nel documento che tra poco riporteremo, dopo aver detto che le notizie da lui riferite le apprese” da persone degne di fede in diverse parti d’Italia”, aggiunge che furono appunto le miserevoli condizioni religiose dell’Italia che diedero a Domenico argomento di ideare la sua Milizia.
Nella sua testimonianza Raimondo parla di “alcuni laici timorati di Dio e che Domenico ben conosceva”, tanto da enumerarli frai suoi, e del suo proposito di “accordarsi” con loro al fine di “creare una milizia santa” e lanciarli nell’apostolato, una volta che fossero stati ben formati spiritualmente. Essi dovevano restare laici tra laici, senza il vincolo del triplice voto religioso e della vita comune, per agire nella società dall’interno delle famiglie e delle strutture da bonificare. Portavano però come segno distintivo un vestito speciale sul quale era visibile “una croce di colore bianco e nero”.
Raimondo fa anche notare che la motivazione della “Milizia” non era solo la difesa della fede dall’eresia e la pratica di una vita più cristiana nella famiglia e nella società, ma anche la liberazione della Chiesa e delle popolazioni dalle conseguenze temporali delle divisioni e delle lotte religiose, poiché “l’errore aveva talmente corrotto le anime… che in molli luoghi, e per somma sventura anche in Italia, i laici si erano impadroniti dei beni della Chiesa, trasmettendoli in eredità quali patrimoni privati; al punto che i vescovi, ridotti a mendicare, non avevano modo né di resistere all’errore né di assicurare il debito sostentamento ai loro chierici”. Era una risposta alle necessità dei tempi, nei quali la Chiesa, e i cattolici rimasti fedeli alla sua dottrina e alla sua disciplina, si trovavano in condizione di guerra.
Se vogliamo citare Cesare Cantù, egli ci dice che, “oltre scassinare i dogmi inerenti all’unità del sacerdozio, per costituire società religiose speciali, gli eretici facevano guerra accanita alla Chiesa esterna”. Ora, “contro le eresie la Chiesa drizzò la santità e lo zelo dei frati… che anche fra i disordini correnti avevano sempre mantenuto fervore più operoso e rigidezza più esemplare”. I frati di S. Domenico “divennero il più valido sostegno della Santa Sede”, e proprio per questo erano anche “i più osteggiati dagli avversari della Chiesa” perché, appunto nel “rinunziare volontariamente al creato per amore del Creatore”, esprimevano “non solo lo spogliamento, ma l’amore dello spogliamento”: in guisa che, “non avendo cosa da perdere, sfidavano i potenti o i rapaci a far loro paura”.
Ma ciò non bastava. Occorreva che una milizia composta di “uomini timorati” si impegnasse a “riprendere e tutelare i diritti di santa Chiesa… e resistere con tutta fermezza all’eresia”, anche a costo del “sacrificio della loro persona e dei loro averi”, come scrive Raimondo da Capua, che tra poco citeremo più diffusamente. Egli fa notare che le malversazioni contro la Chiesa erano opera di laici a servizio dell’eresia: era dunque naturale che la difesa e il recupero di beni usurpati fossero affidati a laici fedeli alla Chiesa. Questa è la ragione della costituzione della “Milizia di Cristo”, che il Beato Raimondo attribuisce a Domenico, forse anticipando di alcuni decenni la costituzione delle “fraternite” che fra il XIII e il XIV secolo si affidarono agli Ordini Mendicanti, trovando in essi appoggio e organizzazione concreta del movimento evangelico laicale che durava da più di un secolo. Riportiamo ora nella sua interezza la pagina del beato Raimondo, un po’ enfatica ma pur sempre significativa, come testimonianza resa a Domenico d’esser stato l’iniziatore o quanto meno il seminatore di quel movimento: “A quanti amano leggere do notizia in questo capitolo di quello che ho io stesso letto ed appreso da persone degne di fede in diverse parti d’Italia e che testimoniano le stesse opere del beatissimo nostro Padre…
“Per quanto già il beato Domenico, glorioso soldato della fede, atleta di Cristo e vero santo apportatore di benessere alla Chiesa militante, avesse egli stesso e con la cooperazione dei suoi religiosi trionfalmente debellato gli eretici nei territori di Tolosa e di Lombardia (di maniera che, come fu regolarmente provato nel processo di canonizzazione alla presenza del sommo Pontefice, ben centomila eretici furono convertiti nella sola Lombardia dalla sua dottrina e dai suoi miracoli); tuttavia l’errore aveva talmente corrotto le anime con la perfidia dei suoi insegnamenti, che in molti luoghi, e per somma sventura anche in Italia, i laici si erano impadroniti dei beni della Chiesa, trasmettendoli in eredità quali patrimoni privati; al punto che i vescovi, ridotti a mendicare, non avevano modo né di resistere all’errore né di assicurare il debito sostentamento ai loro chierici. A consimile stato di cose non seppe reggere il beato Padre: e perciò egli, che per sé e per i suoi seguaci aveva scelto la povertà, si diede con grande ardore a ingaggiare battaglia perché alla Chiesa fossero conservati i suoi averi.
“Chiamati adunque a sé alcuni laici timorati di Dio e che egli ben conosceva, s’accordò con loro per creare una milizia santa la quale si adoprasse a riprendere e tutelare i diritti di santa Chiesa, e a resistere con tutta fermezza all’eresia. Fatto questo, volle rafforzare con giuramento le promesse di quanti ebbe a trovare a ciò disposti, facendoli dichiarare che vi si sarebbero attenuti anche col sacrificio della loro persona e dei loro averi; e perché le loro consorti non avessero in verun modo a opporsi a opera tanto degna, indusse anch’esse a giurare che, lungi dal distogliere i loro mariti, li avrebbero invece coadiuvati secondo la loro possibilità; agli uni e alle altre promettendo il premio dell’eterna vita.
“Li chiamò poscia Fratelli della Milizia di Gesù Cristo: e, perché un segno li avesse a distinguere dagli altri laici, e potessero alle loro consuete opere di pietà aggiungere un’opera surrogatoria, diede loro il colore del proprio abito; dispose cioè che tanto gli uomini quanto le donne, qualunque fosse la foggia del loro vestire, portassero i colori bianco e nero in significazione di innocenza e di umiltà, pubblicamente; e assegnando loro un numero fisso di Pater noster e di Ave Maria volle che ogni giorno li recitassero a tempo fissato per le ore canoniche, in luogo appunto dell’officio divino”.”
È da tener presente che Raimondo da Capua, nato verso il 1330, prese l’abito domenicano verso il 1350.11 Egli conobbe quindi in Italia e particolarmente a Bologna, dove fu stimato “lettore”, molti religiosi vissuti al tempo in cui resse l’Ordine Munio de Zamora, Maestro Generale deposto dal suo ufficio nel 1291. Egli si riallaccia pertanto, come trascrittore delle testimonianze, se non direttamente ai religiosi che conobbero Domenico, ai loro discepoli immediati: e perciò le sue affermazioni appaiono degne di attenzione e rispetto. Scrivendo verso il 1380, egli aveva sotto gli occhi l’evoluzione che v’era stata nella lotta contro l’eresia e nelle istituzioni che la conducevano. In particolare, l’Inquisizione, che esisteva solo in germe ai tempi di Domenico, in quelli di Raimondo era pienamente in azione. Ed era, come scrive Cesare Cantù, una milizia di popolo intitolata “della fede di Gesù Cristo o della croce di San Pietro martire”, i cui adepti “portavano una croce inquartata di nero e di bianco” e “obbligavansi a esporre anche la vita per la diffusione della fede e la distruzione dell’eresia”: e in realtà altro non erano che “famigliari della santa inquisizione”. Ma in una tale forma di milizia Raimondo da Capua non poteva certo riconoscere la paternità di Domenico, se non nel senso di un primo esperimento di azione laicale sul piano temporale, in difesa dei diritti della Chiesa messi in discussione, come sarebbe avvenuto tante altre volte, fino al XIX e al XX secolo con i movimenti e partiti di “ispirazione cristiana”. Tuttavia Raimondo sapeva bene che Gregorio IX, amico, protettore ed esaltatore di S. Francesco e di S. Domenico, e interprete dei loro pensieri, aveva affidato particolarmente ai Frati Minori e ai Frati Predicatori il compito di condurre la lotta contro gli eretici.
In una bolla del 22 dicembre 1227, indirizzata ai “Fratelli della Milizia di Gesù Cristo“, il pontefice scriveva:
“Voi scegliete di soccombere piuttosto che soffrire consimili mali, facendo in voi rivivere i forti Maccabei allorché, entrati nella Milizia di Domenico, vi date a combattere e gli eretici e i nemici della Chiesa. Per questo, consentendo con voi – che, usciti dalle vane schiere delle milizie del secolo per darvi al servizio di Gesù Cristo, avete promesso alla santa Sede Apostolica e ai vescovi delle vostre diocesi obbedienza, non solo, ma vi siete offerti di vincere con tutte le vostre forze la folle pervicacia dell’eresia e di difendere contro tutti, nell’ambito del nostro volere e di quello dei nostri successori, la santa libertà della Chiesa – e aderendo alle vostre giuste domande, accogliamo le vostre persone e i vostri beni (quelli che già possedete e quelli che in avvenire con equi e giusti mezzi verrete a possedere) sotto la protezione nostra e dei beati Apostoli Pietro e Paolo…”.
Gregorio IX continuò poi ad animare quei “crocesignati” della Milizia domenicana, e da Perugia, il 18 maggio 1235, emanò ben quattro importantissimi documenti che dimostrano quanta cura si prendeva di quei soldati di Cristo.
Nel primo – che comincia con le parole Experimentis multiplicibus ed è diretto al Maestro dell’Ordine, Giordano di Sassonia – raccomandava che il destinatario, sia personalmente che per mezzo dei suoi frati, istruisse i fratelli e le sorelle della Milizia.
Nel secondo – aperto dalle parole Devotionis vestrae – accordava a tutti coloro che avevano dato nome e azione a tale Milizia la facoltà di partecipare ai divini uffici anche in tempo di interdetto generale.
Col terzo – che inizia con Quos pietate sua – intima a tutti di evitare ogni molestia a quei “militi “.
Col quarto e ultimo – Est angelis gaudium – elargisce loro copiose indulgenze.
In quel tempo avvenne la costituzione della Milizia di Parma, dovuta – secondo la testimonianza degli storici e biografi – a Fra Bartolomeo da Vicenza. Ad essa Gregorio IX, con apposito atto datato sempre al 18 maggio 1235, dimostra subito la sua benevolenza accogliendola sotto la sua protezione. Il documento esordisce con le parole Sacrosancta Romana Ecclesia. Il successivo 24 maggio la stessa Milizia di Parma riceve dal papa una sorta di regolamento (o norma vivendi) allegato alla bolla Quae omnium Conditoris honorem. Tale norma vivendi si può riassumere nei punti seguenti:
1) ognuno dei fratelli e delle sorelle che vengono a dar nome e azione alla Milizia devono innanzi tutto esaminar bene la loro coscienza intorno al compito che si assumono, e purificarsi, al fine di ben adempiere ai loro obblighi, da ogni peccato;
2) perseverare nel bene, evitando ogni usura e ogni contatto con gli usurai, non solo, ma anche soltanto di cedere, sia con parole che con opere, al male;
3) contenersi nel più rigoroso tenore di vita, liberi da ogni
concupiscenza, e condursi, se coniugati, nella santità del matrimonio;
4) rompere ogni allettamento della gola, vivendo sobri, lontani da qualsiasi esorbitanza sia nel bere che nel mangiare.
Per quanto poi riguardava la loro azione positiva, era fatto obbligo di:
1) essere ossequienti e obbedienti alla Sede Apostolica, ai vescovi diocesani e ai legittimi loro superiori;
2) tenersi sempre pronti a difendere la fede cattolica contro qualunque errore o qualsiasi setta ereticale che all’errore avesse dato origine;
3) sostenere la libertà della Chiesa, particolarmente nelle loro città e nell’orbita della loro azione;
4) apprezzare giustamente e quindi rispettare l’opera della Chiesa, osservarne le leggi e disposizioni (anche penali), tutelarne le manifestazioni sia riguardo alle azioni, sia riguardo alle persone;
5) far uso delle armi nei modi consentiti dalla legge, attendere bene a non prevaricare in questo campo, ma attenersi, nei casi dubbi, al consiglio dei maggiori;
6) mantenersi fedeli nell’osservanza delle debite prescrizioni circa le feste, i digiuni e le preghiere; essere ossequienti alle norme stabilite intorno all’abito e ai segni religiosi da portare;
7) rispettare i propri superiori, e in modo speciale le autorità della Chiesa, e farsi obbligo di conferire loro le decime stabilite;
8) darsi impegno d’ascoltare la parola di Dio, e particolarmente – nei convegni sociali – gli ammonimenti degli ecclesiastici, deputati alla loro assistenza;
9) leggere ogni mese e meditare queste loro norme salutari;
10) adoperarsi per l’assistenza dei confratelli infermi, e fare in modo che nessuno di loro abbia a passare alla vita eterna senza il conforto dei santi Sacramenti.
Vi era in quella regola di vita l’anima profonda di una spiritualità nella quale si poteva scorgere la più genuina eredità di Domenico. Essa doveva prevalere. Ed ecco che cosa avvenne, secondo la testimonianza del beato Raimondo da Capua:
“Canonizzato San Domenico, i fratelli e le sorelle della Milizia di Gesù Cristo, animati dal desiderio di testimoniare omaggio e gratitudine alloro ormai glorioso Fondatore, deliberarono di mutar nome e di chiamarsi Fratelli della Penitenza di San Domenico. A ciò li indusse anche il fatto di vedere ormai caduto il contagio dell’eresia, per i meriti e i prodigi del loro beatissimo Padre e, insieme, per il sapientissimo apostolato proseguito dai suoi religiosi. Non ritenendo quindi più oltre necessaria l’azione combattiva esteriore, si dedicarono interamente, con le armi della penitenza, alla guerra interiore: e per questo scelsero appunto di essere chiamati Fratelli della Penitenza“.
Non mancarono nella Chiesa altri movimenti o associazioni di Fratelli della penitenza: ve n’erano moltissimi, ed è memorabile la loro fioritura nei secoli XIV-XV. Un filone importante di quel movimento laicale fu quello che portava, in aggiunta alla denominazione di fratelli della penitenza, il nome di S. Domenico” (pp. 431-439).

3. Di fatto i successori di questa milizia sono i terziari domenicani che gravitano in genere attorno ai nostri conventi e ci sono senz’altro anche a Firenze.
Giorgio La Pira, il Sindaco Santo di quella città e che ci auguriamo sia presto proclamato Beato, apparteneva alla fraternita di San Marco e abitava addirittura in Convento.
Sarei ben contento se anche tu diventassi un suo e un mio confratello.
Ti prometto una preghiera e ti benedico.
Padre Angelo