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Quesito

Caro Padre Angelo,
in questo periodo, anche se il problema è presente già da molto tempo, è riproposto all’opinione pubblica il problema dell’eutanasia e dell’accanimento terapeutico.
Queste problematiche toccano il delicato rapporto tra vita, morte e dolore.
In particolare l’eutanasia come “morte dolce” è intesa come una fuga dall’esperienza del dolore. Tuttavia per il cristiano, il dolore in sé, come esperienza, risulta essere nella sua paradossalità anche un momento di prova, di riscatto e di crescita. Come conciliare questi due aspetti?
L’accanimento terapeutico è un tentativo di mantenere la vita là dove questa appare venire ormai meno. Che rapporto ha ciò con l’esercizio della speranza?
Mi accorgo della difficoltà del quesito e anche del fatto che in questo caso è necessario operare una riflessione rivolta ai singoli casi quotidiani piuttosto che operare una generalizzazione. Tuttavia e al contempo è necessaria una visione di insieme per potere orientarsi.
Per questo le chiedo quale sia la posizione del magistero della Chiesa in proposito.
Grazie per la disponibilità
Daniele


Risposta del sacerdote

Caro Daniele
È necessario precisare alcune cose.
1. Per eutanasia s’intende l’intervento della medicina diretto non tanto a lenire o togliere del tutto le sofferenze ai moribondi, ma a “procurare la morte per pietà, allo scopo di eliminare radicalmente le ultime sofferenze” (CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dichiarazione sull’eutanasia Iura et bona, 5.5.1980, par. II).
Come tale è sempre illecita, perché padrone della vita e della morte di ognuno è solo colui che ne è il proprietario assoluto. E questo è Dio. L’uomo ne è soltanto l’usufruttuario. Ognuno di noi sa per esperienza personale che non è padrone della propria esistenza.
Se fossimo padroni della nostra esistenza, ce la terremmo per sempre e in ogni momento.
Invece sappiamo che la nostra esistenza è nelle mani di un’altro, e che ci potrebbe essere tolta in qualsiasi momento, nonostante la nostra e l’altrui volontà contraria.
Per questo Giovanni Paolo II nell’enciclica Evangelium vitae ha detto: “In conformità con il Magistero dei miei Predecessori e in comunione con i Vescovi della Chiesa cattolica, confermo che l’eutanasia è una grave violazione della Legge di Dio, in quanto uccisione deliberata moralmente inaccettabile di una persona umana. Tale dottrina è fondata sulla legge naturale e sulla Parola di Dio scritta, è trasmessa dalla Tradizione della Chiesa ed è insegnata dal Magistero ordinario e universale.
Una tale pratica comporta, a seconda delle circostanze, la malizia propria del suicidio o dell’omicidio” (EV 65).

2. L’eutanasia è ben diversa, dunque, dall’azione per la quale si intende lenire il dolore di una persona.
Il Catechismo della Chiesa cattolica dice al n. 2279: “Anche se la morte è considerata imminente, le cure che d’ordinario sono dovute ad una persona ammalata non possono essere legittimamente interrotte. L’uso di analgesici per alleviare le sofferenze del moribondo, anche con il rischio di abbreviare i suoi giorni, può essere moralmente conforme alla dignità umana, se la morte non è voluta né come fine né come mezzo, ma è soltanto prevista e tollerata come inevitabile”.
E soggiunge: “Le cure palliative costituiscono una forma privilegiata della carità disinteressata. A questo titolo devono essere incoraggiate”.
Le cure palliative sono dirette non a togliere la causa del male, ma alleviarne i sintomi.

3. È vero, come tu dici, che il dolore per il cristiano, unito a quello di Cristo, ha un grande valore di redenzione per sé e per gli altri.
Tuttavia il dolore in quanto tale è sempre un male. E come tale, va rimediato.
Il Signore non vuole il dolore. Egli stesso ha guarito molti, ha chiesto di visitare gli ammalati (Mt 25,40) e di farsi buoni samaritani per tutti.
Va poi ricordato che il merito, dinanzi a Dio, non è legato al dolore in quanto tale, ma all’amore. E allora il dolore può rendere più grande il dono.

4. Per accanimento terapeutico si intende dunque quell’insieme di iniziative clinico assistenziali di carattere piuttosto eccezionale che vengono attuate intorno a un malato terminale, cioè in condizioni gravissime e già piuttosto prossimo alla fine. Lo scopo, nelle intenzioni dei sanitari, è la volontà di rallentare a ogni costo l’approssimarsi della fine, pur sapendo che ormai non dispongono più di vere terapie, capaci di migliorare le condizioni sanitarie o di bloccare il male.
Come vedi, l’accanimento terapeutico non consiste nel fare il possibile per la guarigione. Se così fosse, sarebbe accettabile.
Si tratta invece di un’altra cosa. Per questo il Catechismo della Chiesa Cattolica dice: “L’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all’accanimento terapeutico. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità, o, altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente” (n. 2278).

5. Diversa dall’accanimento terapeutico è la somministrazione delle cure ordinarie ad un malato ormai prossimo alla fine. Esse sono costituite dalla nutrizione, dalla ventilazione e l’idratazione. Queste devono essere sempre garantite.

Ti ringrazio per la possibilità che mia hai dato di chiarire a te, e spero a molti altri, questioni così delicate.
Ti saluto, ti assicuro la mia preghiera e ti benedico.
Padre Angelo