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Quesito

Reverendo Padre Angelo,
Ho letto gran parte degli interventi riportati e molte delle sue risposte che ho trovato veramente utili per comprendere meglio le situazioni che ciascuno di noi è chiamato a vivere secondo la volontà del Signore, per questo la ringrazio anche se sono sorte in me alcune sensazioni di disagio che vorrei sottoporle.
La cultura non è sempre un avvicinamento a Dio? E chi la compie senza essere credente non si avvicina comunque a Dio, poiché Dio è Verità? Se le scienze psicologiche ci insegnano che nasce in noi un pericoloso conflitto interiore quando ci imponiamo determinate regole contrarie ai nostri istinti che potrebbero portare a comportamenti anche squilibrati, non è bene considerare una tale riflessione come un’espressione della Provvidenza divina? Mi spiego.
Sotto consiglio di un neurologo ho frequentato per quattro anni una psicoterapeuta che mi ha aiutato molto a comprendere meglio la mia personalità rispettando la mia fede al cattolicesimo. Tuttavia di fronte alla mia convinzione dell’importanza della castità prematrimoniale mi è stato detto che oltre al rispettabile convincimento religioso può esistere in me la paura di giocarmi fino in fondo, la paura cioè di soffrire per le emozioni dolorose che potrebbero nascere e questo pericolo potrebbe ripercuotersi in molti altri aspetti della mia vita quotidiana impedendomi di sentirmi completamente libero. Debbo dire che non sono perfettamente convinto che abbia torto…
Le sue riflessioni morali specialmente quelle di etica sessuale prematrimoniale, padre Angelo, mi appaiono molto chiare e sono d’accordo con tutto. Veramente! Io sono un ingegnere ed i suoi commenti sono simili alle indicazioni tecniche che leggo sui manuali di ingegneria, per altro utilissimi, ma grazie a Dio la mia materia non è una scienza esatta: si avvale sì della matematica, della fisica, della chimica ma poi scende a patti con la pratica accettando anche dei compromessi. Cercando di vivere la castità prematrimoniale mi scontrerò sempre con il desiderio di affetto crescente e con un limite oggettivo dettato dalla legge morale ma la posizione del confine ammissibile chi me la indicherà? Forse la mia coscienza.
Ma la mia coscienza non dovrebbe ricordarmi che Dio mi ama indipendentemente dai miei peccati e che se Egli avesse voluto la mia perfezione a tutti i costi avrebbe fatto meglio ad evitare di piantare l’albero del bene e del male nel giardino che io sono chiamato a coltivare e custodire?
Mi scusi la franchezza.
Spero che possa trovare due minutini di tempo per dedicarmi una risposta sotto consiglio dello Spirito Santo. Un saluto affettuoso e grazie ancora.
Leonardo


Risposta del sacerdote

Caro Leonardo,
ti ringrazio anzitutto per l’invito a chiedere consiglio allo Spirito Santo. È Lui la sorgente di ogni luce.
San Tommaso prima di scrivere o di dettare si raccoglieva sempre in profonda preghiera.
Nella tua e-mail susciti diverse questioni.

1. La prima riguarda la coscienza, che non è il luogo dove uno fissa le regole del bene e del male secondo il suo arbitrio, ma quello in cui si scoprono leggi che ci trascendono e che nei loro principi sono identiche in tutti gli uomini.
Per questo il Concilio Vaticano II dice che “Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire e la cui voce che lo chiama sempre ad amare e a fare il bene e a fuggire il male, quando occorre, chiaramente dice alle orecchie del cuore: fa questo, fuggi quest’altro.
L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro il suo cuore: obbedire ad essa è la dignità stessa dell’uomo, e secondo questa egli sarà giudicato” (GS 16).
Anche Paolo VI esprime i medesimi concetti: “Bisogna, innanzitutto, rilevare che la coscienza, di per se stessa, non è arbitra del valore morale delle azioni ch’essa suggerisce. La coscienza è l’interprete d’una norma interiore e superiore; non la crea da sé. Essa è illuminata dalla intuizione di certi principi normativi, connaturali nella ragione umana; la coscienza non è la fonte del bene e del male; è l’avvertenza, è l’ascoltazione di una voce, che si chiama appunto la voce della coscienza, è il richiamo alla conformità che un’azione deve avere ad una esigenza intrinseca all’uomo, affinché l’uomo sia vero e perfetto. Cioè è l’intimazione soggettiva e immediata di una legge, che dobbiamo chiamare naturale, nonostante che molti oggi non vogliano più sentir parlare di legge naturale” (12.2.1969).
In termini ancora più stringati, diciamo che la coscienza è la voce di Dio nell’anima.
Ma questa voce è ascoltata bene solo quando il nostro cuore è puro, non deformato dal peccato.

2. Va detto anche che la legge di Dio è scritta nelle più profonde inclinazioni del nostro essere.
Obbedire a Dio non è alienarsi, ma prendere possesso pieno di noi stessi.
Il disagio che si prova quando il nostro comportamento non è conforme alla sua legge non dipende da chissà quali conflittualità interiori, complessi o nevrosi, ma semplicemente dal fatto che non realizziamo le esigenze più profonde del nostro essere.
Queste inclinazioni non sono la stessa cosa che gli istinti, i quali si confondono con vere e proprie tentazioni.
Pensa all’istinto di abbandonarsi al piacere di qualche super alcolico. Le persone normali quasi non avvertono l’esigenza del super alcolico. Ma viene l’occasione di un pranzo un pò più abbondante, viene passato un digestivo particolarmente gustoso. Allora lo si prende una seconda volta e poi magari anche una terza e alla fine si è un pò brilli.
Ora chi oserebbe dire che trattenersi dal bere è una conflittualità interiore con i propri istinti e che pertanto non bisognerebbe controllarsi?
Penso che nessuno voglia portare un esempio del genere.
E questo può essere esteso a tutta la gamma delle esperienze della vita umana.

3. Pensa ad esempio ancora all’esercizio della pazienza: non dire niente in certe situazioni comporta una vera sofferenza e un autentico disagio interiore.
Ma poi come si è contenti per essersi dominati.
Sappiamo tutti che agire d’istinto, fare determinate osservazioni, dire certe parole… porta a conseguenze amarissime.
Gli antichi spirituali dicevano che la sofferenza è amara, ma il suo frutto è dolce.

4. La stessa cosa va detta analogamente anche per la castità. Il combattimento talvolta è aspro, ma le sue vittorie sono sempre dolci. Portano ad una maggiore soddisfazione interiore e anche ad una maggiore stima della persona che si ama.
Dio non è nemico delle nostre manifestazioni affettive. È lui che le vuole. Lui ha messo in noi l’esigenza di amare.
Ma quando ci dice dei no, è solo perché vuole metterci in guardia da manifestazioni che sono contraffazione del vero amore, che non costruiscono niente di vero e di solido, e che distruggono sempre.
In termini teologici e biblici noi diremmo che il nostro avversario insinua il pensiero che quanto Dio ci comanda non sia per il nostro bene, anzi che ci voglia privare di qualcosa di bello.
Il nostro avversario è un seduttore.
E chi si lascia da lui corrompere, fa l’esperienza dei nostri progenitori, i quali, dopo aver disobbedito a Dio, sono stati male, anzi malissimo, e questo malessere, trasmesso alle generazioni posteriori, è il testimone del costo del nostro fidarsi di Dio, dell’ascoltare più gli istinti che le vere inclinazioni del nostro essere.

5. Mi dici che Dio ci ama, indipendentemente dai nostri peccati.
Questo è vero se lo intendi come disposizione generale da parte sua: non cambia mai nei nostri confronti.
Ma siccome il suo amore è sempre comunicativo di bene, quando noi pecchiamo, ci chiudiamo, anzi rifiutiamo il bene che ci vuole comunicare.
E per questo rimaniamo più poveri, con disagio interiore, mai veramente soddisfatti.
Noi invece accogliamo effettivamente l’amore di Dio, il bene che ci vuole comunicare, quando siamo aperti a Lui come una finestra spalancata alla luce e al calore del sole.
Pertanto ti esorto a spalancare le porte della tua vita affettiva a Dio, alla sua volontà piena di amore e di bene.
Sarai contento e sarai santo.

Ti aiuto con la mia preghiera, che prometto volentieri e ti benedico.
Padre Angelo