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Quesito
Caro Padre,
desideravo porLe un quesito che riguarda l’ambito del Sacramento della Penitenza.
Qualora si presentasse al confessionale un reo confesso il quale afferma che, al suo posto è reclusa un’altra persona, è possibile negare l’assoluzione se il reo non intende costituirsi in quanto il presbitero non può violare il sigillo sacramentale?
Le chiedo questo perché con il docente di diritto canonico, discutendo sulla questione, ci siamo ritrovati su posizioni diverse: personalmente ritengo che la piena manifestazione del pentimento esige il ripristino della giustizia e quindi il reo deve essere sollecitato a costituirsi. Per questo motivo se il reo non intende costituirsi ritengo sia lecito pensare che il suo pentimento non sia ancora pieno.
La ringrazio per l’attenzione e le porgo i più cari saluti.
Buon Avvento
Risposta del sacerdote
Carissimo,
1. il reato commesso dal penitente è stato la causa indiretta della condanna di un giusto.
Se il reo è pentito del male commesso e delle conseguenze che ne sono derivate, dovrebbe avere l’animo disposto a riparare.
2. La riparazione della condanna di un innocente non passa subito e immediatamente attraverso l’autocostituirsi.
Ricordo che qualche decennio fa un vescovo della Sardegna (informato in maniera diretta o indiretta dal colpevole) aveva detto ai giudici che al posto del colpevole avevano condannato un innocente.
Mi pare (ma di questa conclusione non ne sono certo) che i giudici abbiano rivisto il processo e abbiano dato libertà a colui che era ingiustamente detenuto.
3. Nel caso che i giudici avessero confermato la condanna all’innocente, il reo avrebbe dovuto darsi da fare senza posa per porre rimedio ad un male di cui lui era stato la causa indiretta.
Se tutti i tentativi fossero risultati vani, il costituirsi alla giustizia avrebbe dovuto essere l’estrema soluzione.
4. Mi pare che se un reo è sinceramente pentito non dovrebbe costargli dare la commissione al confessore (o a un altro attraverso il confessore), salvo il sigillo sacramentale, perché si presenti al giudice e gli chieda di verificare di processo.
5. I giuristi partono dal presupposto che è compito dei giudici trovare la verità e che l’innocente di cui si sta parlando paga per un errore diretto dei giudici e non del reo.
Ma dobbiamo riconoscere che c’è un legame tra la persona privata ingiustamente di un bene (la libertà) e il cattivo comportamento del penitente. Perché se questi si fosse comportato bene, l’innocente non sarebbe finito nei guai.
6. Pertanto,
– partendo dal principio che non remittitur peccatum nisi restituatur ablatum,
– dal momento che l’unico modo per liberare l’innocente consiste nell’autodenuncia del reo (che è la causa primordiale della pena dell’innocente),
– e che la mancata autodenuncia può configurarsi come una cooperazione per omissione (non manifestans) al compimento di un male,
il sacerdote non potrebbe dare l’assoluzione finché non c’è la volontà di rimediare al male.
E anche se il sacerdote la desse, questa non libererebbe il reo dalle sue responsabilità davanti a Dio.
Questo è il mio parere, salvo meliori iudicio.
Contraccambio gli auguri di buon Avvento con un ricordo nella preghiera.
p. Angelo Bellon, o.p.