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Caro Padre Angelo,
mi chiamo Milena e qualche anno fa, dopo un lungo periodo di ignoranza e di disinteresse (mea culpa) di tutto ciò che ruota attorno alla parola Fede, ho deciso che era giunto il momento di prendere una posizione di fronte all’interrogativo più grande del mondo: Dio.
Non volevo peccare d’ignavia disinteressandomi totalmente al problema e sentivo che non potevo accontentarmi di una fede di facciata (mi passi il termine), in cui ci si dichiara credenti più per tradizione e per senso di appartenenza che per convinzione. Per credere ho bisogno di capire (nei limiti del possibile). Per questo decisi di prendere in mano la Bibbia, Antico e Nuovo Testamento e di leggere tutto. Sia chiaro, non ho fatto questo passo da credente. Mi aspettavo di cogliere contraddizioni, illogicità e insegnamenti troppo legati al mondo antico che mi avrebbero rivelato, senza ombra di dubbio, che il Testo era interamente umano, sia nella forma che nell’ispirazione. In effetti, all’inizio non era semplice, mi sembrò di cogliere subito incongruenze e illogicità che segnavo immancabilmente con il lapis, per poi ritornarci, qualche tempo dopo, quando (casualmente?), mi capitava sotto il naso proprio la risposta che cercavo. E ecco che quello che in un primo momento mi era parso illogico diveniva invece chiaro e condivisibile se letto con la giusta chiave. Inoltre, più passava il tempo più la mia lettura si faceva attenta, appassionata.
Alla fine ho dovuto ricredermi e tutti i miei pregiudizi su questo Testo Sacro sono crollati tanto che lo considero il più bel libro che abbia mai letto, forse il più bello che si possa scrivere (non tanto per la forma, ma per la sostanza), e ancora lo consulto spesso perché oltre a dare ottimi consigli è una miniera inesauribile di riflessioni.
In una frase potrei dire che ho trovato più risposte di quelle che cercavo.
Non è quindi per una domanda che Le scrivo, ma per sapere se, a Suo parere, è giusta una risposta che mi si è “affacciata alla mente” a fronte di una critica che un ragazzo di fede ebraica muoveva all’interpretazione cristiana di un passo di Isaia. Le spiego.
In Isaia 53:10 si legge, riferito al Servo del Signore, che “egli vedrà una discendenza, vivrà a lungo”.
Come saprà meglio di me, secondo l’interpretazione ebraica il Servo in questione sarebbe il popolo Israel e non Gesù. In particolare, per quanto riguarda questo passo gli ebrei affermano che il termine discendenza (nel testo ebraico letteralmente seme zerah – זרע) si riferirebbe a una progenie carnale e di conseguenza non potrebbe applicarsi a Gesù che, notoriamente, non ebbe figli, ma piuttosto al popolo ebraico. In tal modo sembrerebbe non corretta l’interpretazione di quei cattolici che sostengono che il termine discendenza debba essere inteso in senso lato così da ricomprendere il rapporto “quasi filiale” che Gesù instaurò con i suoi discepoli e che in un certo senso continua ancora oggi.
Ora, cercando su un dizionario ebraico ho scoperto che la parola zerah זרע al pari di quello che avviene in italiano, si può riferire non solo allo sperma, ma anche al seme propriamente detto (di una pianta ad esempio).
Ecco dunque l’illuminazione che mi ha colta e sulla quale chiedo a Lei un parere per capire se sono sulla buona strada: riflettendo su questo passo m’è venuta in mente la parabola del seminatore di Gesù.
In quella parabola Gesù spiegava ai discepoli che lui è un seminatore e le parole sono i suoi semi i quali possono germogliare solo se trovano in noi terreno fertile. Parallelamente, mi sono ricordata che, secondo quanto affermato nel Vangelo di Giovanni (Gv 1:1-3), tutto è stato fatto per mezzo del Verbo, cioè della parola, tant’è che anche nella Genesi Dio Padre crea la luce, il firmamento ecc. semplicemente pronunciandone il nome (Gen. 1:3 – Dio disse “Sia la luce!”. E la luce fu). In buona sostanza, la Parola è un vero e proprio mezzo di creazione. Azzardo un parallelo (mi corregga se sbaglio!): così come il seme (inteso come sperma) genera l’essere umano alla vita, in modo non dissimile il seme (della parola) genera l’essere umano alla Fede, cioè crea una creatura nuova. Quindi è ben possibile affermare che questa creatura che è nata nella fede in Cristo grazie alla parola di Gesù è frutto del Suo seme e quindi è suo discendente.
In questo senso, allora, tutti i cristiani sarebbero la discendenza di Gesù e saremmo proprio noi a mantenere viva la forza della Sua Parola mediante la continua trasmissione di generazione in generazione, ragione per cui Gesù può ben essere il Servo del Signore di cui parla Isaia quando scrive “egli vedrà una discendenza, vivrà a lungo”.
Spero di non aver ragionato male. Nel caso mi perdoni, sto ancora imparando.
La ringrazio di nuovo per la Sua disponibilità, per il servizio che offre e mando un caro saluto a tutta la comunità degli Amici Domenicani.
Milena


Cara Milena,
1. mi complimento per la tua acribia nell’indagare sulle parole con cui Dio si è rivelato e e si è comunicato agli uomini.
Sono le parole più preziose che si possano sentire e sono tutte parole di vita eterna.

2. Anzitutto ti dico che è esatta l’interpretazione che hai dato sulla discendenza che il Servo di Jahwè vedrà a lungo.

3. Attraverso la parola infatti il Signore genera continuamente nuovi figli al Padre e introduce in noi la vita di Dio.
San Paolo è chiaro su questo punto: “La fede viene dall’ascolto (fides ex auditu) e l’ascolto riguarda la parola di Cristo” (Rm 10,16) ed è in perfetta linea con quanto ha detto il Signore a proposito del granello di senapa (Mt 13,31).

4. Sulla tua mail desidero fare due considerazioni.
La prima verte su chi sia il Servo del Signore, di Jahwè: se sia Israele, come tu accenni, oppure se sia un personaggio specifico.
Sì, gli ebrei lo intendono come sinonimo del popolo d’Israele. E per quest’interpretazione possono appoggiarsi su Is 49,3: “Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria”.
Tuttavia va ricordato che i canti sul Servo del Signore sono quattro e in essi si riscontra l’emergere di una persona ben precisa come appare nel primo di questi quattro canti che si trova in Is 42,1ss.
Inoltre spesso nella Sacra Scrittura Israele o Giacobbe sono sinonimo sia del capo che del popolo, come quando vien detto che la salvezza viene dai Giudei (Gv 4,22): e cioè viene da uno del popolo dei Giudei.

5. Ma vediamo con ordine che cosa vien detto specificamente nei quattro canti che si trovano in Isaia 42,1-4 (5-9); 49,1-6; 50,4-9 (10-11); 52,13-53,12).
Circa il primo “Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui; egli porterà il diritto alle nazioni” (Is 42,1) ecco che cosa dice la Bibbia di Gerusalemme: “In questo poema, il servo è presentato come un profeta, oggetto di una missione e di una predestinazione divina (v. 6, cf. v 4; Ger 1,5), animato dallo Spirito (v. 1) per insegnare a tutta la terra (v. 1 e 3) con discrezione e fermezza (vv. 2-4), malgrado le opposizioni.
Ma la sua missione supera quella degli altri profeti, poiché egli stesso è alleanza e luce (v. 6) e compie un’opera di liberazione e di salvezza (v. 7).
L’elezione del servo è accompagnata da una effusione dello Spirito, come per i capi carismatici dei tempi antichi, i Giudici (cf. Gdc 3,10) e i primi re, Saul (1 Sam 9,17; cfr. 10,9-10) e Davide (1 Sam 16,12-13; confrontare Is 11,1-2)”.

6. Circa il secondo canto “Ascoltatemi, o isole, udite attentamente, nazioni lontane…”(Is 49,1) riprende il tema del primo (42,1-8), insistendo su certi aspetti della missione del servo: predestinazione (vv. 1.5), missione estesa non solo a Israele che deve radunare (v. 5), ma anche alle nazioni per illuminarle (v. 6), predicazione nuova che scuote (v. 2), che apporta luce e salvezza (v. 6).
Parla anche di un suo insuccesso (vv. 4.7), della sua fiducia in Dio solo (vv. 4.5) e di un trionfo finale (v. 7).
Israele: questa parola è generalmente considerata una glossa ispirata a 44,21 e incompatibile con i vv. 5-6 che distinguono il servo da Giacobbe-Israele e dove il Servo viene inviato proprio a Israele, a Giacobbe: “Ora ha parlato il Signore, che mi ha plasmato suo servo dal seno materno per ricondurre a lui Giacobbe e a lui riunire Israele – poiché ero stato onorato dal Signore e Dio era stato la mia forza – e ha detto: «È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti d’Israele. Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra” (Is 49,5-6).
Si giustifica forse con l’ambivalenza della figura del servo che talvolta rappresenta Israele e talaltra il suo capo e salvatore.

7. Il terzo e quarto canto aggiungono nuove precisazioni sulla persona e sulla missione del servo.
Il terzo canto si trova in Is 50,4: Il Signore Dio mi ha dato una lingua da iniziati, perché io sappia indirizzare allo sfiduciato una parola. Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come gli iniziati.
In questo terzo canto, il servo appare più come un saggio che come un profeta. È il discepolo fedele di Jahwè (vv. 4-5), incaricato di istruire a sua volta coloro che «temono Dio», cioè tutti i pii giudei (v. 10), ma anche gli smarriti o gli infedeli «che camminano nelle tenebre».
Grazie al suo coraggio e all’aiuto divino (vv. 7-9), sopporterà le persecuzioni (vv. 5-6), finché Dio gli accorderà un trionfo definitivo (vv. 9-11).
Fino al v. 9 incluso, è il servo che parla.
Is 50,6: Ho presentato il dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi.
Questa descrizione delle sofferenze del servo sarà ripresa e sviluppata nel quarto canto (52,13ss).
Questo quarto canto riprende il tema della sofferenza. Le persecuzioni che il servo sopporterà con grande pazienza (53,7) sono uno scandalo per gli spettatori, ma in realtà sono una intercessione e una espiazione dei peccati”.

8. Pertanto alla luce del testo, l’interpretazione che identifica il Servo del Signore col popolo d’Israele è certamente presente, ma non è né esclusiva né è la principale.
La distinzione tra la persona e il popolo appare ben netta in Is 49,5-6, proprio perché questa persona viene mandato per salvare il popolo d’Israele.

9. Adesso veniamo alla discendenza sulla quale tu hai dato la tua dotta e precisa spiegazione partendo dal significato della parola (dalla semantica).
Io ti presento il commento che ne ha fatto G. Girotti, martire domenicano a Dachau e ora beato:
“Vedrà una discendenza…
Il testo ebraico contiene più esattamente due proposizioni distinte: vedrà una posterità, una progenie, prolungherà i suoi giorni.
Sono menzionati i frutti del sacrificio del Messia.
Come premio gli viene concesso in primo luogo una posterità, una moltitudine innumerevole di uomini, che per mezzo suo sono stati rigenerati a nuova vita, onde a Lui sono uniti come a un secondo progenitore del genere umano (cfr. Rm 5,14 ss.; 6,3).
Si è adempita così la promessa fatta ad Abramo (cfr. Gn. 15,5; 22,17).
Questo primo frutto o premio del sacrificio del Messia è costituito da una corona di santi.

10. Il secondo frutto è il seguente: prolungherà i suoi giorni, cioè il «Servo, di Jahvé» vivrà eternamente beato. “Ero morto ma ora vivo per i secoli dei secoli (Ap 1,18).
L’espressione: prolungherà i suoi giorni, racchiude implicitamente la profezia della risurrezione del Servo di Jahvé dopo la sua morte, perché nell’uso comune detta espressione non si dice della sola vita dell’anima, ma della vita in anima e corpo.

11. Il terzo frutto consiste nel prospero successo che, per mezzo del Servo, otterrà la volontà di Dio.
Questa volontà (ebr. beneplacito) è il provvidenziale disegno relativo alla redenzione, alla salvezza del genere umano, è quella mirabile restaurazione che abbraccia uomini e cose, tempo ed eternità, della quale il profeta ha già più volte parlato nei cap. precedenti (cfr. 2, 4; 11, 5…)  e di cui parlerà più chiaramente ancora in seguito”.

Mentre ti auguro una sempre più profonda comprensione di quel Libro che contiene parole che comunicano vita eterna (Dio), ti ricordo volentieri al Signore e ti benedico.
Padre Angelo