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Quesito

Salve, padre Angelo.
Approfitto ancora della sua disponibilità a circa un anno di distanza per chiederle chiarimenti a proposito della “Gioia Cristiana”.
Non riesco a capire in che cosa consista e soprattutto come possa essere compatibile con le realistiche e dure profezie che Gesù rivela ai propri discepoli.
Per esempio in Mc 13,9.12-13 si legge: “Ma voi badate a voi stessi! Vi consegneranno ai sinedri, sarete percossi nelle sinagoghe, comparirete davanti a governatori e re a causa mia, per render testimonianza davanti a loro. […] Il fratello consegnerà a morte il fratello, il padre il figlio e i figli insorgeranno contro i genitori e li metteranno a morte. Voi sarete odiati da tutti a causa del mio nome, ma chi avrà perseverato sino alla fine sarà salvato.”
Mi riesce difficile pensare che un Cristiano possa provare gioia in circostanze analoghe. Potrebbe forse non essere sopraffatto dal rancore perché per grazie di Dio saprà perdonare i suoi persecutori; sopporterà forse meglio le sofferenze fisiche e/o morali che gli saranno inflitte perché sa che se vissute secondo il Vangelo gli procureranno la Vita Eterna; la gioia, però, mi sembra veramente incompatibile con simili situazioni.
Cosa mi sfugge, padre Angelo?
Un caro saluto da Primo


Risposta del sacerdote

Caro Primo,
1. se si prende il Vangelo come un codice morale o una filosofia di vita ci sarebbero grosse difficoltà ad essere sempre nella gioia.
Ci sono infatti le contrarietà, le persecuzioni, gli ostracismi cui in mille modi sono sottoposti i fedeli di Cristo.
Ma il Vangelo non è questo.
È piuttosto l’incontro e l’accoglienza di una Persona, di Gesù Cristo nella propria vita.
E accogliendo Cristo c’è l’accoglienza e il possesso della Santissima Trinità e di tutta la famiglia di Dio.

2. La gioia è il frutto della comunione.
C’è un senso di sazietà quando si è in comunione con tutti, soprattutto quando questa comunione è un dare e un avere incessante.
Chi ha scoperto o conosciuto il dono di Dio, per usare il linguaggio di Gesù alla samaritana, si sente amato da Dio con un amore incessante e senza sosta, sente che tutto è dono, frutto di una tenerezza divina, infinita e immeritata nei propri confronti.
Sente che è dono di Dio l’aria che respira, il sole che lo riscalda e lo illumina, l’acqua che gli da refrigerio e vita, la terra con i suoi frutti, l’avvicendarsi provvidenziale delle stagioni…
Sente che sono doni di Dio anche gli altri uomini, quelli del passato che ci hanno permesso di giungere a questo grado di progresso, quelli del presente per la collaborazione attiva di tante persone per la promozione del bene comune.
Soprattutto sente che è dono di Dio Gesù Cristo, l’unica Persona che in virtù della sua risurrezione è capace di abitare dentro il nostro cuore non soltanto come vi possono essere presenti tutte le persone cui vogliamo bene, e cioè nell’affetto, ma con la propria persona.
Non ha detto forse: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e renderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23)?

3. Ed era per questo che Santa Teresa d’Avila ha potuto dire: “Dio è dovunque. Ma dove sta il re, ivi è la sua corte. Perciò, dove sta Dio, ivi è il cielo. Sappiate dunque che dove si trova la maestà di Dio, ivi è tutta la gloria. Ricordate ciò che disse S. Agostino, il quale dopo aver cercato Dio in molti luoghi, lo trovò finalmente in se stesso… Pensate forse che egli venga da solo? Non udite suo Figlio che dice: che sei nei cieli? Ed è forse possibile che un Re così grande si muova senza seguito? No, i suoi cortigiani li ha sempre con sé; e poiché essi sono pieni di carità, lo pregano continuamente per noi e per i nostri bisogni” (s. teresa d’avila, Cammino di perfezione, XXVIII, 2.13).
Allora chi vive unito a Cristo vive costantemente in comunione con tutti gli abitanti del Paradiso, li sente dentro di sé, sente che pregano con lui e per lui.

4. La gioia cristiana è dunque un anticipo di Paradiso, della comunione piena che si godrà perfettamente di là.
Essa va a trasfigurare perfino le tribolazioni, perché è fondata sulla fecondità delle sofferenze sopportate per Cristo.
Anche quando soffre e patisce tribolazioni, il cristiano soffre con amore, soffre per amore.
Sa che le sue sofferenze non sono vane se sono unite a quelle di Cristo. E nella tribolazione intravede nella fede il bene che esse stanno maturando.
Gesù le ha paragonate al chicco di grano che cade in terra e muore non per estinguersi, ma per moltiplicarsi, per portare molto frutto.
Le ha paragonate anche alle doglie del parto: “La donna quando partorisce, è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo” (Gv 16,21).
Se sopportate con amore e in unione a Gesù, sono sempre destinate a fiorire sempre in qualcosa di bello e di grande, per cui si è contenti di aver sofferto, si è contenti di aver donato.
In questa logica possiamo comprendere la gioia degli apostoli che se ne vanno “dal sinedrio lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù” (At 5,41) e in particolare quella di san Paolo il quale dice: “Sono molto franco con voi e ho molto da vantarmi di voi. Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione” (2 Cor 7,4).

Ti auguro di giungere a vivere l’esperienza di San Paolo.
E per questo ti assicuro la mia preghiera e ti benedico.
Padre Angelo