Questo articolo è disponibile anche in: Italiano

Quesito

Caro Padre Angelo,
ho scoperto da pochissimo questa sua pagina in cui dispensa insegnamenti e consigli preziosi per cui voglio rivolgerle anche un mio quesito.
Premetto che ho sempre avuto un sentimento di religiosità latente, nonostante che il Signore non abbia mai smesso di chiamarmi da lontano, che in sostanza mi ha portato a vivere una vita abbastanza sregolata soprattutto dal punto di vista del comportamento sessuale.
Poi un bel giorno superati i cinquant’anni ho deciso di cambiare in maniera sostanziale la mia vita e, senza chiedere nulla in cambio ma solo decidendo di donare me stesso a Gesù, mi sono confessato e partecipo alle funzioni non solo della domenica ma anche di tutti i giorni nei momenti di possibilità.
La mia vita ora è fatta di preghiera ma soprattutto di pensieri e comportamenti che ricalcano in ogni momento della giornata ogni insegnamento del Vangelo.
Ci tengo a sottolineare che in brevissimo tempo dal momento del mio assenso a Gesù ho potuto sperimentare una pace interiore e la risoluzione di tanti problemi sicuramente per opera dello Spirito Santo.
Data l’occasione e leggendo di persone molto preoccupate per la confessione io credo che nel momento in cui ci si pente per davvero dei peccati commessi, e si ha la VERA intenzione di non commetterli più pregando in ginocchio davanti al Signore, si venga perdonati.
La confessione davanti al sacerdote è ovviamente determinante e imprescindibile ma se ci si scorda di qualche particolare non credo che a Dio interessi più di tanto. Egli sa già benissimo cosa abbiamo e non abbiamo fatto e quello che a Lui  importa è che si decida dal profondo del cuore e della fede di non commettere più i peccati che ci fanno vergognare.
A poco servirebbe una confessione ricca di particolari se poi siamo poco convinti, o per nulla, nel non ripetere le stesse cose sbagliate e che ci allontanano da Dio.
Ma la vera cosa che volevo chiederle è che leggendo nella Bibbia dei rapporti di matrimonio non consacrati, cioè considerati adulteri, le colpe ricadrebbero sui figli. Io sono figlio di una coppia non sposata in chiesa perchè a quel tempo andava di moda la filosofia comunista-anticlericale che faceva ritenere la religiosità cosa inutile e Dio un’invenzione a beneficio dei preti (più o meno).
Nonostante questo i miei genitori sono sempre stati esempio di onestà e di fedeltà e non posso certo dire che mi abbiano ostacolato nella fede o insegnato cose sbagliate.
Le chiedo dunque ma davvero chi nasce da un rapporto non ufficializzato davanti a Dio porta dentro una colpa che comunque in definitiva non è sua??
Che dire dei figli nati da rapporti sbagliati, o per violenza, o qualsiasi altro caso??
In cuor mio mi sento creatura di Dio, con un grandissimo amore nei Suoi confronti, e non smetterò mai di lodarlo e di testimoniarlo nel mondo. Posso sentirmi ben accetto e a quello che ho letto ho dato un’interpretazione troppo letterale o sbagliata??
La ringrazio e la saluto fraternamente.
Giovanni.


Risposta del sacerdote

Caro Giovanni, 
1. le osservazioni che hai fatto sulla confessione sono giuste.
L’elemento principale consiste nella contrizione, e cioè nel pentimento dei peccati e nella risoluzione di non più commetterli.
L’accusa è importante, è necessaria, è di diritto divino e pertanto la Chiesa non può dispensare dal farla. Tuttavia se uno dimentica un peccato, ma aveva la volontà di confessarlo, deve ritenersi assolto.
Se poi gli torna in mente, lo accuserà nella successiva confessione. E nel frattempo, se non ha commesso altri peccati gravi, può fare la Santa Comunione.

2. La seconda domanda che mi hai posto trae la sua ispirazione da quello che si legge nel libro dell’Esodo nel momento in cui Dio sta per consegnare i dieci comandamenti a Mosè e ne chiede l’osservanza: “Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti” (Es 20,5-6).

3. Il linguaggio del castigo e del premio è evidentemente allegorico.
La pena che colpisce i figli fino alla terza e alla quarta generazione sta a ricordare che come i figli sono il bene più prezioso per i genitori, i quali preferirebbero piuttosto soffrire loro stessi pur di risparmiarne i figli, così la trasgressione dei divini comandamenti priva l’uomo del bene più caro, che è il possesso di Dio dentro di sé per il tempo e per l’eternità.

4. Gli antichi tuttavia non intendevano queste parole solo in senso allegorico, ma anche materiale.
Qui allora vi si trovano altri significati.
Non va dimenticato che nell’Antico Testamento il ceppo famigliare o il clan avevano grande importanza.
In una società in cui non vi era minimamente il concetto di uno stato sociale che garantisse il minimo di beni a tutti i cittadini, l’appartenenza ad un clan o ad una famiglia era un elemento di difesa e di protezione.
Va ricordato anche che a quei tempi vigeva la pena del taglione: quella che si esprime nell’occhio per occhio e nel dente per  dente.
Va ricordato anche che la pena di morte veniva data con molta facilità. La bestemmia e la trasgressione del riposo del sabato erano, ad esempio, causa di pena di morte.
Questa pena di morte evidentemente cooperava all’impoverimento del clan o del nucleo famigliare e questo si sarebbe fatto sentire per diverso tempo.
Ecco perché si parla di punizione fino alla terza e quarta generazione. Ma a dire il vero è un’auto punizione.
Pertanto il significato letterale delle parole della Sacra Scrittura va inteso secondo le condizioni di vita dell’Antico Testamento e non può essere applicato a noi.

5. Inoltre rimane sempre vero che talvolta si fanno pagare le conseguenze dei propri peccati anche i figli.
Questo è un dato testimoniato anche dalla scienza medica, che parla di  trasmissione di tare dovute al proprio comportamento. Si pensi ad esempio agli effetti dell’alcoolismo o dell’aids sui figli.

6. Noi oggi, in queste parole della Sacra Scrittura, possiamo vedervi anche una nascosta solidarietà che lega gli uomini nel bene e nel male, a seconda che vivano in grazia o siano privi della grazia.
È quella legge della solidarietà cui alludeva Giovanni Paolo II in Reconciliatio et poenitentia quando scriveva: “Riconoscere che in virtù di una solidarietà umana tanto misteriosa e impercettibile quanto reale e concreta, il peccato di ciascuno si ripercuote in qualche modo sugli altri. È, questa, l’altra faccia di quella solidarietà che, a livello religioso, si sviluppa nel profondo e magnifico mistero della comunione dei santi, grazie alla quale si è potuto dire che “ogni anima che si eleva, eleva anche il mondo”.
A questa legge dell’ascesa corrisponde, purtroppo, la legge della discesa, sicché si può parlare di una comunione nel peccato per cui un’anima che si abbassa per il peccato abbassa con sé la Chiesa e, in qualche modo, il mondo intero. In altri termini, non c’è alcun peccato, anche il più intimo e segreto, il più strettamente individuale, che riguardi esclusivamente colui che lo commette. Ogni peccato si ripercuote, con maggiore o minore veemenza, con maggiore o minore danno, su tutta la compagine ecclesiale e sull’intera famiglia umana. Secondo questa prima accezione, a ciascun peccato si può attribuire indiscutibilmente il carattere di peccato sociale” (RP 16).

 7. Con tutto questo non dobbiamo dimenticare le parole successive proferite da Dio: “che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni”.
Il premio promesso (la misericordia e la benevolenza divina) si riversano sull’umanità in maniera più ampia (mille generazioni) che i castighi.
Per i meriti di Abramo, Isacco e Giacobbe (e noi possiamo dire per i meriti di Cristo, della Beata Vergine e dei santi) Dio benefica l’umanità in maniera straordinaria, perché vuole che il bene compiuto in grazia vada a beneficio di tutti e per tutta l’eternità.

Ti ricordo al Signore nella preghiera e ti benedico.
Padre Angelo