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laico domenicano (1841-1926)

A Latiano, ridente cittadina a pochi chilometri da Brindisi, Bartolo Longo vide la luce l’11 febbraio 1841: il padre, Bartolomeo, era un medico valente e coscienzioso; la madre, Antonia Luparelli, andata sposa a quindici anni, era figlia di un magistrato e creatura d’indole mite e dolcissima: da lei Bartolo erediterà quella confidente bontà e tenerezza verso la Madonna che saranno caratteristiche della sua vita e della sua azione.

Il piccino “un frugoletto vivacissimo, impertinente, quasi sbarazzino” a sei anni fu affidato alle cure dei Padri Scolopi del Collegio di Francavilla Fontana dove “ebbe tutta l’istruzione elementare e secondaria” con un ottimo profitto grazie alla sua memoria portentosa ed al suo impegno assiduo e vivace. Era un ragazzo dal temperamento esuberante, che si rendeva simpatico con le sue scherzose imitazioni e con la sua passione per la musica.

Per laurearsi in legge andò a Lecce, presso un centro che sostituiva l’Università, ma in seguito alla raggiunta unità d’Italia nel 1861, il giovane, per avere una laurea valida giuridicamente, dovette frequentare l’Università di Napoli.

Qui il ventenne Bartolo si trovò immerso in un “ciclone anticristiano” fortissimo, dove razionalismo e anticlericalismo, potenziati dalla massoneria, lo trascinarono completamente fuori dalla retta via. Egli stesso più tardi dirà: “La laurea era appesa all’amo dell’apostasia”.

Tormentato dal dubbio sulle verità della fede, in cui  fino ad allora aveva creduto più per tradizione che per convinzione, si lasciò attirare dallo spiritismo, praticato allora in Napoli con templi e riti propri, e  partecipò attivamente ad alcune sedute spiritiche.

Fu salvato da questo traviamento grazie all’amicizia che lo legava al professor Vincenzo Pepe, suo compaesano e cristiano integerrimo, il quale lo indusse a confidare i suoi dubbi al Padre Alberto Radente, dotto e santo religioso domenicano.

Illuminato sugli errori in cui era caduto e sulle verità della fede che aveva abbandonato, purificato da una santa confessione, ricevette il 23 giugno 1865 la «sua prima Comunione» da convertito  e decise di consacrare tutto se stesso all’apostolato per il Regno di Dio. Guidato dal P. Radente e dal suo confessore, P. Emanuele Ribera, redentorista, frequentò persone santamente dedite alle opere di bene, spirituali e temporali, mentre faceva i primi passi nel campo dell’avvocatura avendo brillantemente ottenuto la laurea in diritto nel dicembre del 1864.

Nel 1866 rientrò in famiglia a Latiano e in seguito decise di iniziare la sua carriera di avvocato penalista a Lecce. Per due volte fu sul punto di contrarre matrimonio, ma alla fine rinunciò definitivamente, sia al matrimonio sia alla carriera di avvocato, convinto dalle parole del confessore: “Il Signore ti ha destinato a compiere un’alta missione”.

Tornò a Napoli nell’agosto del 1868 ed in attesa di capire qual era la sua missione, continuò a frequentare il “cenacolo” della Beata Caterina Volpicelli, donna totalmente consacrata all’apostolato del Sacro Cuore di Gesù, e per mezzo suo conobbe la contessa Marianna Farnararo, vedova De Fusco, che diventerà sua inseparabile collaboratrice  nelle opere di bene. Imparò dal venerabile frate francescano Ludovico da Casoria ad esercitare la carità verso i più poveri e più infelici, andando assiduamente per due anni a visitare gli ammalati dell’Ospedale degli Incurabili.

Si dedicò allo studio della filosofia, della teologia e della lingua italiana per divenire un valido scrittore a difesa della fede cristiana e per promuovere il trionfo del regno di Dio; a 30 anni divenne terziario domenicano, ormai consapevole che il progetto di Dio su di lui lo avrebbe capito poco a poco.

Infatti, nell’autunno del 1872, assumendosi l’onere di amministrare le terre possedute dalla vedova De Fusco per assicurare un futuro sicuro ai suoi cinque figli, egli si recò per la prima volta a Valle di Pompei, «credendo di andare a fare l’avvocato per rinnovare degli affitti e andava invece, per disegno di Dio, a fare il missionario», come ebbe a scrivere egli stesso.

Valle di Pompei era poco più che un villaggio, che sorgeva a pochi passi dai resti dell’antica città romana distrutta dall’eruzione del Vesuvio; gli abitanti erano quasi tutti contadini analfabeti, abbandonati a se stessi e privi anche delle fondamentali conoscenze della religione cristiana. Tanta miseria e tanta ignoranza scossero profondamente il giovane convertito che si sentiva impotente davanti a simile situazione e indegno, per il suo passato, a servir Dio come avrebbe desiderato.

Ma una voce risuonò nell’animo suo: “Se vuoi la salvezza, propaga il rosario. E’ promessa di Maria: chi propaga il rosario è salvo!” Erano parole a lui familiari quale terziario domenicano, ed egli rivolse prontamente la sua risposta alla Vergine Celeste:« O Regina del Cielo, io non uscirò da questa Valle senza aver visto il trionfo del tuo rosario!» La pace che inondò il suo animo gli diede certezza di essere nel cammino voluto da Dio.

Si mise subito all’opera visitando le famiglie, istruendo sul catechismo, invitando alla recita del rosario ed organizzando feste popolari a sfondo religioso; per il novembre 1875 preparò  una missione popolare dalla quale si ottennero copiosi frutti: « Tutti si riconciliarono con Dio, composero le liti e molti si aggregarono alla Confraternita di Maria; si udiva la sera per la campagna risuonare il dolce saluto a Maria»- scrisse in seguito. Proprio in questa occasione, egli si recò a Napoli per acquistare un quadro della Madonna del Rosario da intronizzare nella chiesa parrocchiale, che ne era priva. Tramite il P. Alberto Radente, venne in possesso di un quadro che    « era solo una vecchia e logora tela, bucherellata dalla tignola; il viso della Madonna non esprimeva santità e grazia, ma pareva quello di una donna ruvida e rozza» «Sembra dipinta apposta per far perdere la devozione» – esclamò la contessa Marianna vedendolo. Però in quel momento era urgente tornare a Pompei col quadro: fu quindi avvolto in un lenzuolo e caricato da un contadino sul suo carro di letame, mentre l’avvocato col treno andava ad attenderne l’arrivo, non potendo per le sue dimensioni portarlo come bagaglio con sé. Ma nessuno si sentì di esporre quel pessimo quadro, che fu invece affidato ad un pittore che lo tenne presso di sé tre mesi per ritoccarlo e renderlo presentabile. Esposto sull’altare della chiesetta, suscitò subito nel cuore dei devoti una grande fiducia nell’aiuto della Vergine Maria, alla quale già rivolgevano le loro umili ed ardenti preghiere invocandola come Madonna del Rosario di Pompei. Presto si ebbero grazie e miracoli che aumentarono l’afflusso dei pellegrini e nacque l’esigenza di una chiesa più grande e più decorosa. Sollecitato dal Vescovo di Nola e coadiuvato sempre dalla contessa Farnararo, Bartolo Longo iniziò a chiedere un soldo al mese per la costruzione di una nuova chiesa, di cui fu posta la prima pietra l’8 maggio 1876: dopo undici anni il Cardinale legato del Papa Leone XIII consacrava l’altare di quello che era il “novello tempio di Pompei”, l’artistico santuario conosciuto in tutto il mondo; inaugurava il trono su cui veniva posta la “povera tela” e poneva sulla fronte della Vergine e del Bambino un diadema di pietre preziose. Quel quadro nel 1879 era stato restaurato e corretto a regola d’arte da un artista dell’Accademia di Napoli, che aveva reso delicato e benigno il volto della Vergine e trasformato la primitiva Santa Rosa da Lima in Santa Caterina da Siena. Quando esso nel 1881 era stato posto in una cappella nuova, Bartolo Longo vide nell’espressione della Madonna una tale bellezza, dolcezza e maestà insieme, che scrisse: «Io sono convinto che con un visibile portento la Vergine abbia abbellito la sua figura»: un restauro operato dal Cielo!

Negli anni della costruzione del Santuario, era avvenuto anche il matrimonio tra l’avvocato e la contessa, su invito dello stesso Papa Leone XIII, che in un’udienza loro accordata li consigliò a tale passo per mettere a tacere calunnie e dicerie sul loro conto. «Siamo andati a Roma amici, ne siamo tornati sposi» – commentava poi la contessa. I testimoni del processo di beatificazione sono concordi nell’affermare che il loro fu un matrimonio”verginale” perché vissero sempre come fratello e sorella. Non furono genitori secondo natura, ma la carità li rese padre e madre di tanti orfani. Nel 1887 fondarono l’Orfanotrofio femminile e la Madonna compiva prodigi per aiutarli a nutrire quelle sue creature predilette. Per esse l’avvocato fondò l’Istituto delle Suore Domenicane “Figlie del S. Rosario di Pompei”, dedite all’assistenza dei poveri e degli emarginati: fu così un laico a dettare regole per Suore.

Nel 1891 sorse l’Ospizio Bartolo Longo per accogliere i figli dei carcerati affinché potessero crescere in un ambiente sereno e sviluppare armonicamente la loro mente e il loro cuore.

Nella nuova Pompei che sorgeva l’avvocato fece costruire gli impianti del primo telegrafo e l’Ufficio Postale, case per i suoi operai, asili per la prima infanzia: il Santuario non fu davvero una cattedrale nel deserto, ma il cuore che vivificava una prodigiosa attività di bene, a servizio della quale mise il suo talento di scrittore. Diede inizio al periodico “Il Rosario e la Nuova Pompei”, per far conoscere le meraviglie operate dalla Madonna in quella terra; scrisse il volume “I Quindici Sabati” per accendere in migliaia di fedeli la devozione alla Madonna del S. Rosario e numerose altre pubblicazioni che illustravano le glorie di Maria, incitavano alla preghiera e specialmente alla recita del Rosario, difendevano e spiegavano le verità della fede combattute dall’incredulità del suo tempo. Ma la perla dei suoi scritti resta “La Supplica alla Madonna”, che fonde in un’unica voce tutti i dolori e tutte le speranze del mondo, e dai cristiani di tutto il mondo è conosciuta e recitata l’8 maggio e la prima domenica d’ottobre.

Come avviene in tutte le opere di Dio non mancarono al nostro beato sofferenze innumerevoli causate dall’incomprensione dei buoni e dall’invidia dei cattivi. Calunnie denigratorie colpirono il fondatore di tante opere a motivo delle offerte in denaro che riceveva da tutti i paesi del mondo: fu detto pazzo, imbroglione, profittatore, ladro. Nel 1893 aveva donato a Papa Leone XIII il Santuario con tutti gli arredi e gli oggetti preziosi e l’anno seguente il papa lo dichiarava Santuario pontificio ponendolo sotto il governo della Santa Sede, ma lasciandone al fondatore l’amministrazione. Le insinuazioni malevole nulla poterono finché visse Leone XIII che lo stimava grandemente, ma ebbero buon gioco col suo successore Papa Pio X, che male informato da nemici subdoli ed accaniti, lo giudicò quasi un ladro: boccone più amaro non poteva toccare al fedele servitore della Madonna!

I coniugi posero fine a questa triste storia con una generosità incondizionata: nel 1906 rinunziarono a favore della Santa Sede ad ogni opera di fede e di carità da loro fondata a Valle di Pompei.

Bartolo Longo divenne l’eremita della Valle, l’eremita della Madonna, strinse più forte la corona del rosario e impegnò maggiormente la penna, ma a prezzo di quale sua sofferenza interiore è facile intuire!

Non gli mancarono neppure le sofferenze fisiche, che lo accompagnarono fin dagli anni giovanili, e le umiliazioni a causa del cattivo comportamento dei figli della contessa, la quale a sua volta non gli risparmiava rimproveri e correzioni.

Un sogno gli restava a realizzare: dare anche alle figlie dei carcerati un rifugio sicuro, lontano dai pericoli che correva la loro innocenza. A 80 anni questo ultimo voto del suo cuore fu compiuto, grazie ai benefattori che risposero generosamente al suo invito ed egli  poté vedere l’inizio di questa terza grande opera di beneficenza, anche se l’Ospizio sarà inaugurato alcuni giorni dopo la sua morte.

Morta la contessa De Fusco nel 1924, Bartolo si preparò all’incontro con Dio che riteneva ormai vicino anche per lui. Non possedeva più beni suoi, ma volle donare anche le insegne cavalleresche che aveva ricevuto dalla benevolenza dei Sommi Pontefici alle orfanelle, ai figli e alle figlie dei carcerati. Per sé chiese di poter essere seppellito nel santuario, «ai piedi del gran trono della mia dolce regina, da me servita per oltre cinquanta anni».

Il 5 ottobre 1926 la Vergine Santa introdusse il suo beniamino nella gloria della SS. Trinità.

Il 26 ottobre 1980 Papa Giovanni Paolo II lo dichiarò beato e nella sua omelia disse tra l’altro: «Bartolo Longo è l’apostolo del Rosario, il laico che ha vissuto totalmente il suo impegno ecclesiale. Si può veramente definire “l’uomo della Madonna”: per amore di Maria divenne scrittore, apostolo del Vangelo, propagatore del Rosario, fondatore del celebre Santuario in mezzo ad enormi difficoltà ed avversità; per amore di Maria creò istituti di carità, divenne questuante per i figli dei poveri, trasformò Pompei in una vivente cittadella di bontà umana e cristiana; per amore di Maria sopportò in silenzio tribolazioni e calunnie, passando attraverso un lungo Getsemani, sempre fiducioso nella provvidenza, sempre ubbidiente al Papa e alla Chiesa. Egli, con in mano la corona del Rosario, dice anche a noi, cristiani della fine del XX secolo: “Risveglia la tua fiducia nella Santissima Vergine del Rosario… devi avere la fede di Giobbe!… Santa Madre adorata, io ripongo in te ogni mia afflizione, ogni speranza, ogni fiducia”! »