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Quesito
Caro padre Angelo,
mi permetto di scriverle ché volevo metterla a parte di una riflessione che mi gira un po’ per la testa, spero di non farle perdere troppo tempo.
Mi chiedevo se intrinsecamente il portare all’esistenza una coscienza non sia dopotutto violenza.
Come biasimare cioè una persona che semplicemente ripudi la sua esistenza?
Che avrebbe preferito non essere chiamata ad esistere?
So che è una formulazione assurda, tanto che per formulare il pensiero occorre certamente esistere, tuttavia un desiderio del genere è possibile.
E ancora, sembra si sia obbligati ad amare la propria esistenza e il Creatore o penare, per qualcosa che non si è voluto né cercato e del quale invece occorre ringraziare; penare, dicevo, in eterno all’inferno.
Come si concilia la giustizia con questo?
Non è arbitrio?
In quel che alcuni vedono amore altri possono vedere nello stesso atto di creazione violenza e arbitrio.
Nella pur futile ribellione autodistruttiva, nichilistica, non si può rintracciare un sottofondo che ripudi, allora, il fatto di essere stati portati nell’esistenza stessa?
(seguono alcune parole incomprensibili del nostro visitatore; n.d.r.).
Spero di essere stato chiaro nella esposizione della riflessione.
La saluto, la ringrazio e se possibile le chiedo una preghiera per me e la mia famiglia.
S.
Risposta del sacerdote
Carissimo,
1. sì, ci possono essere dei momenti in cui non si considera la vita come un dono, ma come un castigo, una violenza.
Questa è stata all’incirca l’esperienza di Giobbe quando poco per volta è stato privato di tutti i suoi beni, compresa la salute.
2. Tuttavia Giobbe non ha mai maledetto il Signore.
Si è abbandonato ai suoi disegni dicendo continuamente: “Il Signore ha dato, il Signore ha tolto. Sia benedetto il nome del Signore” (Gb 1,21).
3. Non ha mai accusato Dio di essere crudele.
Non capiva però perché dovesse soffrire così.
Questa sofferenza era tanto più pungente quanto più si riconosceva innocente. Mentre secondo la mentalità ebraica del tempo la sofferenza era legata a qualche empietà commessa.
4. Nella sua sofferenza chiede a Dio di poter trattare con lui e chiedergli il perché di tutto questo: “Interrogami pure e io risponderò, oppure parlerò io e tu ribatterai.
Quante sono le mie colpe e i miei peccati? Fammi conoscere il mio delitto e il mio peccato.
Perché mi nascondi la tua faccia e mi consideri come un nemico?” (Gb 12,22-24).
5. Un giorno Dio gli parlerà e lo metterà di fronte alla sua infinita sapienza e potenza.
Lo metterà di fronte a tutte le opere del cosmo da lui compiute iniziando così: “Quando ponevo le fondamenta della terra, tu dov’eri? Dimmelo, se sei tanto intelligente!
Chi ha fissato le sue dimensioni, se lo sai, o chi ha teso su di essa la corda per misurare?
Dove sono fissate le sue basi o chi ha posto la sua pietra angolare, mentre gioivano in coro le stelle del mattino e acclamavano tutti i figli di Dio?” (Gb 38,4-7).
6. Di fronte a tutte le domande che il Signore gli pone, Giobbe confessa: “Ecco, non conto niente: che cosa ti posso rispondere? Mi metto la mano sulla bocca.
Ho parlato una volta, ma non replicherò, due volte ho parlato, ma non continuerò”(Gb 40,4-5).
7. Solo in Cristo si rivelerà in maniera piena il mistero della sofferenza, che se vissuta con amore e in unione con i suoi patimenti, ha una potenza salvifica e di redenzione enorme.
Si comprende allora che anche essa è un dono che apre la strada a doni ancora più grandi.
Giobbe sarà premiato per la sua fedeltà e per la sua umiltà. Già nella vita presente tornerà ad uno splendore di bene immensamente superiore a quello già grande che precedentemente possedeva.
E questo era solo un pallidissimo segno di ciò che Dio gli avrebbe preparato nella vita futura, come attesterà San Paolo: “Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano” (1 Cor 2,9).
Con l’augurio che il Signore trovi in te la fedeltà di Giobbe, assicuro volentieri la mia preghiera per te e per la tua famiglia e di cuore vi benedico.
Padre Angelo