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Quesito
Carissimo Padre,
approfitto della Sua disponibilità e competenza per rivolgerLe una domanda liturgica. Cos’è il “Rito Domenicano” e com’è strutturato? E’ ancora in uso oppure è stato tralasciato?
Grazie
Risposta del sacerdote
Carissimo,
1. l’Ordine ha rinunciato nel post concilio al Rito domenicano essenzialmente per due motivi: perché il rito romano si è molto conformato al rito domenicano e soprattutto per esigenze di ordine pastorale.
Infatti, permessa la liturgia nella lingua vernacola, la gente si sarebbe trovata in forte confusione nel dover rispondere con acclamazioni diverse da quelle delle parrocchie.
Di peculiare nel rito domenicano c’era, ad esempio, questo: che la preparazione del calice si faceva all’inizio della Messa, appena il sacerdote arrivava all’altare.
Le preghiere d’introduzione omettevano del tutto il salmo 42 (Introibo ad altare Dei) e il confiteor era molto breve, più o meno come quello attuale del rito romano.
Sorvolo sulle altre differenze.
Mi limito a riportarti che cosa si legge sulla genesi del nostro rito nel Messale domenicano, edizione italiana del 1959.
2. “Il fedele che assiste per la prima volta ad una funzione domenicana si rende immediatamente conto di alcune divergenze dal rito romano. L’impressione riportata dal santo Sacrificio – in particolare – è di una sostanziale identità nel nucleo centrale, e di un considerevole sveltimento nelle parti che precedono il «prefazio» e seguono il Pater.
Questa impressione risponde al vero, perché tutto il canon actionis in cui si compie veramente l’azione liturgico si ritrova identico nel rito domenicano; le divergenze, invece, ricordano la genesi della liturgia domenicana rappresentando uno stadio di evoluzione di quella romana.
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Le origini storiche della liturgia domenicana sono avvolte da incertezze ed è impossibile individuarne con precisione le componenti.
Disseminati dal Fondatore nel mondo (1217), i Frati Predicatori adottarono in un primo tempo le liturgie locali. Furono le assise generaliche, adunando ogni anno i rappresentanti di tutte le province, imposero l’urgente problema di unificazione liturgica: la preghiera comune, a motivo dei diversi usi, diveniva in quella circostanza quasi impossibile.
Dopo un inutile tentativo (tra il 1228 e il 1235) l’ardua impresa fu condotta a termine da Umberto di Romans, quinto Maestro Generale, tra il 1251 e il 1256. In questo medesimo anno ottenne l’approvazione dell’Ordine e il 7 luglio 1267quella del sommo pontefice Clemente IV (l’archivio della curia domenicana conserva un esemplare della prima redazione e nel British Museum esiste la copia personale del Maestro dell’Ordine). Immediatamente si moltiplicarono e diffusero copie (a Salamanca rimane quella destinata alla Provincia di Spagna) e si raggiunse la sospirata uniformità. Doveva trattarsi di un lavoro eccellente se altre famiglie religiose e persino alcune diocesi l’adottarono come liturgia ufficiale.
Risparmiata dalla riforma del 1570 di san Pio V, la liturgia domenicana rimase pressoché intatta fino ad oggi, pur essendosi arricchita di feste del ciclo santorale. La maggior innovazione – per ciò che riguarda la messa – avvenne nel 1600 quando epistole e vangeli domenicali furono resi identici a quelli del rito romano e si rifuse l’ordo missae.
Appunto per le circostanze ambientali in cui nacque, la liturgia domenicana subì l’influsso di quella francese e, più propriamente, di quella in uso a Citeaux. Ancor oggi non è difficile incontrare pericopi, melodie, anche feste, ignorate dal rito romano e di origine evidentemente gallicana. Enrico di Herfort, un domenicano del secolo XIV, dice infatti che Umberto di Romans seguì la falsariga della liturgia gallicana. Questa espressione non va,tuttavia, fraintesa perché l’intervento di papa Paolo I (verso il 760) e di Adriano I (verso il 788) aveva segnato la fine dell’antica liturgia gallicana con una celebre riforma che sin dal secolo IX aveva imposto il rito romano a tutto l’impero carolingio.
La base su cui crebbe la liturgia domenicana era perciò essenzialmente romana, anche se colorita da elementi residui, conservati dalla tradizione popolare e dalla resistenza di alcuni vescovi e abati alla radicale trasformazione carolingia.
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Quale importanza rivesta per il Frate Predicatore la preghiera liturgica e quali risonanz eabbia sulla sua vita spirituale, risulta chiaro dalla natura canonico-apostolica dell’Ordine.
Il contemplata, nel pensiero di san Domenico e nella sua opera, si realizza anzitutto nel servizio (ciò significa, appunto, liturgia) divino, praticato in forma solenne e ufficiale. Da questa atmosfera ecclesiale si origina il secondo elemento architettonico della vita domenicana, il tradere, inteso come annuncio evangelico, manifestazione apostolica e arricchimento personale.
E proprio all’integrazione della vita canonicale con quella missionaria – punto nevralgico della spiritualità domenicana – il Frate Predicatore è sapientemente iniziato dal ciclo liturgico; in esso egli rivive con cuore di teologo i grandi misteri della fede (Incarnazione e Trinità), per sperimentarne poi l’irresistibile impulso missionario nei periodi delle «manifestazioni» (tempo dopo l’Epifania e tempo dopo la Pentecoste). L’austera disciplina monastica che ebbe tanto posto nella legislazione dell’ordine, riceve a sua volta un’inquadratura liturgica e una dimensione «cattolica» nel vibrante richiamo penitenziale che contraddistingue i due rispettivi cicli preparatori: Avvento e Quaresima.
Le Costituzioni Domenicane hanno cercato di imprimere a tutta l’ufficiatura (di cui la messa è espressione suprema) questo ritmo apostolico, di sintonizzarla alla vocazione di soldati leggeri della Chiesa: breviter et succincte – esse dicono – con brevità e snellezza. Ridondanze, sviluppi decorativi, ampollosità, vengono metodicamente ridotti o scartati a tutto vantaggio di una maestosa e lineare semplicità contemplativa; la stessa preghiera corale è contraddistinta da sobrietà e concisione, in perfetta armonia con la natura teologica della pietà domenicana.
Brevità – del resto – solo apparente; ogni parola di salvezza che esce dalle labbra del Predicatore non può conoscere soluzione di continuità da quella scandita all’altare e in coro: ne è anzi il compimento, l’eco più immediata e fedele.
La preghiera liturgica in questa sua specifica forma solenne, non è quindi elemento sussidiario, accorgimento tecnico suscettibile di riduzioni o abolizione. Essa è la scaturigine stessa della vita domenicana, l’ordito da cui emana e si articola, l’atmosfera in cui nasce, si sviluppa e fruttifica; in una parola: la sua giustificazione.
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Presentando alle anime domenicane d’Italia questa seconda edizione del Messale, non possiamo tralasciare di ricordare la devozione del santo Padre Domenico durante la celebrazione della messa, l’abbondanza di lacrime tra le quali fioriva il suo ardente colloquio con Gesù, le notti insonni ai piedi del tabernacolo, il consiglio tante volte ripetuto ai suoi figli: «Parlate con Dio!».
Alla luce di questi esempi la prima generazione domenicana intese la liturgia come servizio divino nella Chiesa, omaggio di lode – attraverso il Cristo – alla Trinità augusta, e sintetizzò perfettamente l’ideale del Fondatore in tre parole: LAUDARE – BENIDICERE – PRAEDICARE”.
3. L’introduzione che ti ho riportato è molto precisa e penso che possa soddisfare, almeno parzialmente, le tue richieste.
Attualmente il rito domenicano non è seguito da nessuno.
Per la Liturgia delle ore e per la Messa seguiamo un proprium.
Ti ringrazio per la domanda, ti seguo con la preghiera e ti benedico.
Padre Angelo.