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Quesito

Gradirei da parte sua un approfondimento sui contrasti insorti nella chiesa durante l’opera missionaria del padre gesuita MATTEO RICCI circa l’accettazione da parte sua di riti e costumi cinesi.
Protagonisti di tali contrasti sono stati, se non sbaglio, i suoi confratelli portoghesi dell’epoca, a loro volta missionari.
Cordiali saluti.
Maurizio


Risposta del sacerdote

Caro Maurizio,
su una questione così delicata, che richiede precise informazioni, ti riporto quanto scrivono due storici della Chiesa, ben accreditati: K. Bihlmeyer e H. Tuechle, in Storia della Chiesa, III, § 177, 4e:

“Per l’evangelizzazione della Cina, i Gesuiti si prepararono con cura particolare, imparando la lingua del luogo e coltivando le scienze della matematica e dell’astronomia,grandemente stimate in quella terra.
Con grande successo lavorarono in Cina specialmente tre gesuiti: dal 1583 Matteo Ricci di Macerata (†1610), detto l’apostolo della Cina, dal 1622 Giovanni Adamo Schall di Colonia (†1666) e dal 1659 il fiammingo Ferdinando Verbiest (†1688).
Con un intelligente adattamento ai costumi e alle concezioni dei cinesi e con l’aiuto delle loro eminenti attitudini e cognizioni scientifiche, riuscirono a far breccia proprio tra le classi colte e a guadagnarsi la fiducia della corte; Schall e Verbiest divennero addirittura direttori dell’ufficio imperiale per l’astronomia e la matematica in Pechino. I missionari conservarono questa loro distinta posizione anche quando la dinastia indigena dei Ming fu soppiantata dai Mancesi (1644).
Dal secolo 17° in poi (dopo vani tentativi anteriori), accanto ai Gesuiti svolsero la loro attività in Cina anche i Francescani e i Domenicani. Essi seguivano un metodo missionario diverso. Ciò produsse alcuni attriti. Tuttavia la causa cristiana guadagnava sempre più terreno; nel 1664 si avevano circa 250.000 cristiani, nel 1700 si presume un milione, nel 1674 per la prima volta fu nominato vicario apostolico un cinese. Certo non mancarono mai persecuzioni locali e anche martiri. In Pechino e a Nanchino nel 1690 furono istituite due diocesi, suffraganee di Goa. Allorché un decreto dell’imperatore Kanghi nel 1692 dichiarò completamente libera la diffusione del cristianesimo nel suo regno, il successo missionario sembrò raggiungere il suo punto culminante.

Frattanto però si addensarono di nuovo nuvole oscure nel cielo delle missioni cinesi. L’occasione fu data ancora dalla questione dell’adattamento. Ancor prima che nelle Indie, qui era apparso ai Gesuiti lecito e necessario un ampio adattamento alle concezioni e ai costumi indigeni: battistrada in ciò fu il Ricci. Si tollerò (almeno provvisoriamente) il culto del grande saggio e politico Confucio, come pure quello degli antenati considerato come costume politico-civile, furono usate come nomi di Dio le denominazioni cinesi Tien (= cielo) e Schangti (= Signore supremo, Imperatore), si tralasciarono alcune cerimonie nell’amministrazione del battesimo e dell’estrema unzione e si concessero delle mitigazioni nell’adempimento di certi precetti della Chiesa (santificazione della domenica, digiuno).
Perla celebrazione della Messa Paolo V nel 1615 permise l’uso della lingua cinese; tuttavia all’atto pratico tale permesso non poté venir usato; esso fu di nuovo ritirato dalla congregazione di Propaganda nel 1698. Ma già dall’inizio del secolo 17° il sistema dell’adattamento incontrava delle opposizioni entro la stessa Compagnia di Gesù, e queste si moltiplicarono ancor più allorché dal 1633 incominciarono ad apparire sul territorio cinese missionari spagnoli francescani e domenicani; essi vedevano nell’adattamento un’illecita accondiscendenza al paganesimo.
La controversia dei riti così sollevata fu condotta da ambedue le parti con grande violenza ed acredine e danneggiò molto la causa cristiana. Il papa Innocenzo X condannò i principali «riti cinesi» (1645), Alessandro VII ne permise di nuovo (1656) alcuni, come costumi civili.
Tuttavia la controversia continuò. Un decreto della congregazione dell’Inquisizione condannò nel 1704 il culto di Confucio e degli antenati. Clemente XI nel 1702 inviò il legato apostolico Tournon, per rendersi conto della situazione e definirla. Costui, il 25 gennaio1707, proibì i riti cinesi con la pena della scomunica. L’imperatore Kanghi, invece, da parte sua ordinò con grandissima severità l’osservanza dei riti. Egli fece addirittura incarcerare Tournon (cardinale dal 1707) e lo consegnò ai Portoghesi.
Clemente XI confermò le decisioni del suo legato (1711, 1715).
Nonostante le proibizioni, i Gesuiti, tanto in Cina come in India, conservarono per lo più il sistema dell’adattamento, contegno che certamente ha dal suo lato alcune cause scusanti, ma che difficilmente può dirsi in armonia con le costituzioni dell’Ordine e con il suo speciale voto di obbedienza verso il papa. Alla fine i missionari dovettero sottomettersi alla sentenza definitiva pronunciata da Benedetto XIV nella bolla Ex quo singulari e del luglio 1742.
Le conseguenze della controversia furono disastrose per le missioni.
Gli imperatori divennero diffidenti; il progresso della propagazione della fede fu paralizzato; i cattolici vennero a trovarsi in una situazione di grave pressione sociale e non pochi cristiani cinesi defezionarono.
Una base sicura i Gesuiti la conservarono quasi solo nella capitale di Pechino,dove la corte continuò a servirsi di loro come matematici, astronomi ed artisti”.

Mi auguro che l’informazione soddisfi almeno in maniera essenziale la tua richiesta.
Ti ricordo al Signore e ti benedico.
Padre Angelo